Al centro di Un attimo prima della fine del messicano Emiliano Monge c’è la follia, o meglio, la paura di soccombere a essa. Non si tratta solo di una malattia che ha consumato almeno quattro generazioni, ma di una forma di male che, prima inavvertitamente e poi fragorosamente, prospera nella casa di famiglia – e in tutti i suoi rami – fino a far marcire le fondamenta. Le dipendenze, le tendenze suicide, l’incapacità di amare, i deliri autodistruttivi sono alcuni degli aspetti più evidenti di questa follia. Comprendiamo allora che quella madre che si confessa al figlio come in una seduta di psicoanalisi, quella madre decisa a ristabilire l’equilibrio della sua prole indifesa – una schiera di persone non amate, abbandonate e potenzialmente folli – che ha protetto con incandescente devozione, è una donna spezzata in due. Nell’universo devastante di Monge non c’è posto per il sentimentalismo. La sua protagonista – di cui non viene mai rivelato il nome – appartiene alla stirpe delle insubordinate, mai soddisfatta, sempre pronta alla battaglia. Se osa mostrare le sue debolezze è perché da loro ha tratto le armi per combattere, tanto contro i vincoli sociali quanto contro i propri demoni. Che cos’è la letteratura, si chiede Monge, se non un tentativo di ristabilire l’ordine perduto, un argine contro il caos? E cosa siamo noi se non un tronco che fulmini dormienti attendono di colpire per incendiare tutte le foreste, tutte le città e tutte le anime?
Roberto Pliego,Milenio

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Questo articolo è uscito sul numero 1612 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati