Quando Louise Michel – insegnante, anarchica e rivoluzionaria in esilio – arrivò a Londra dopo sette anni di esilio nel Pacifico meridionale, portò con sé cinque gatti. Fatti uscire dalla nave sotto i cappotti dei suoi compagni, i felini oceanici, esausti dal viaggio di diecimila miglia, si ripresero rapidamente quando gli fu presentata “un’enorme ciotola di latte” sotto l’occhio amorevole della padrona. Tornata a Parigi qualche anno dopo – con i gatti al seguito – Michel cercò di spiegare la sua attenzione per quei fragili animali. Portati dalla Nuova Caledonia, il suo luogo di esilio, in Francia, la sua terra di origine, i gatti rappresentavano per lei qualcosa di sfuggente, prezioso, istintivo. Le ricordavano casa, diceva. E sebbene Tre isole di William Atkins ruoti intorno al dolore dell’esilio, è l’idea di casa che muove i suoi protagonisti e li riporta, alla fine, al punto di partenza. L’esilio non è tanto un luogo quanto un processo, un movimento. Tutti e tre i protagonisti del libro – Louise Michel, l’antropologo russo Lev Shternberg e il deposto re africano Dinuzulu – scoprono che è un movimento che può durare tutta la vita. Come osserva Victor Hugo, una volta esuli, si rimane esuli per sempre. I tre protagonisti di Atkins però sfuggono a qualunque aspettativa: Shternberg inventa l’antropologia moderna; Dinuzulu reinventa la regalità. Michel va oltre e sogna un futuro in cui l’esilio, strumento di oppressione, possa diventare il seme della liberazione.
Madoc Cairns, The Guardian

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1610 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati