È un teatro del quotidiano, tra documentario e messa in scena, riflessione sulla società e performance, riferimento alle tradizioni e rielaborazione di momenti di vita ordinaria. Dal 2015 l’artista indiana Gauri Gill lavora alla serie Acts of appearance. Potrebbe sembrare un semplice racconto di vita quotidiana, se non fosse che tutti i personaggi sono mascherati. Anche se la maschera fa parte della cultura indiana, siamo lontani dalle rappresentazioni dei poemi epici come il Mahābhārata o il Ramayana. Qui, esseri umani, animali e oggetti hanno sostituito gli dèi. Jawhar, una città nello stato del Maharashtra, sulle montagne dei Gati occidentali, è un borgo situato in una delle rare regioni tribali rimaste in questa zona, ed è nota per i suoi paesaggi pittoreschi e il patrimonio culturale. Ogni anno ospita una festa che dura tre giorni, in cui si svolge la processione del Bohada, dove alcuni attori interpretano scene mitologiche. Le maschere di cartapesta che indossano sono fabbricate dagli artigiani delle tribù kokna e warli e rappresentano divinità indù.
Colpita dalla loro forza espressiva, nel 2015 Gill ha proposto ai due artigiani più famosi del posto, i fratelli Subhas e Bhagvan Dharma Kadu, di partecipare a un progetto collaborativo, dirigendo un gruppo di trenta artisti e volontari. “Potete creare delle maschere che rappresentino la vita del villaggio e dei suoi abitanti di oggi?”, gli ha chiesto la fotografa. Gill non aveva in mente un’idea precisa, dovevano essere loro a inventarle. Ed è quello che hanno fatto. L’unico suggerimento è stato quello di conservare l’estetica indiana tradizionale in cui le espressioni sulle maschere si riferiscono a diversi tipi di emozione e alle esperienze umane comuni, come la malattia e la vecchiaia.
Le maschere create per il progetto di Gill sono di vario tipo: quelle con la figura umana rappresentano le diverse emozioni come stupore, paura, rabbia e amore; quelle dalle sembianze animali mettono in luce la relazione tra gli abitanti e la natura. Uno dei personaggi più interessanti è il cervo chital, riprodotto in sculture di terracotta che gli artigiani vendono ai turisti. Ci sono anche serpenti, lucertole, insetti, roditori e altri animali comuni nei villaggi. Alcune maschere riproducono oggetti moderni come i computer, i telefoni, i televisori o, a causa della frequente mancanza di acqua potabile, una bottiglia di acqua minerale.
Gill ha proposto ai soggetti di posare scegliendo situazioni della loro vita quotidiana. Così una ragazza-coniglio è accovacciata in una tenda, una donna-cobra si rilassa su un divano, una donna-sveglia si sporge all’esterno di una macchina guidata da una grande lucertola. Grazie alle maschere, queste scene apparentemente ordinarie, si trasformano in attimi misteriosi, che disturbano il consueto ordine delle cose. Anche se sono delle messe in scena, le fotografie di Gill non sono mai teatrali. Questi tableaux inventano una fotografia letteraria, poetica, e al tempo stesso impegnata. In una foto si vede un’insegnante seduta in cattedra con lo sguardo perso nel vuoto. Dietro di lei ci sono vecchi poster di re guerrieri e indipendentisti indù. Tra questi, Swami Vivekananda, che rilanciò l’induismo nell’ottocento e sviluppò il concetto di nazionalismo nell’India britannica, e Subhas Chandra Bose, il nazionalista sovversivo che lottò per la sovranità indiana durante la seconda guerra mondiale. Uno slogan patriottico in hindi dice “Maa tujhe salaam” (Madre patria, ti saluto). Le regole di condotta, scritte in inglese su una lavagna, esaltano il sistema induista delle caste.
Si tratta di immagini che criticano la religione e il nazionalismo. Un approccio simile si osserva anche nella foto di un ospedale antiquato, dove un personaggio con la testa da topo si china su un malato con una maschera che esprime sofferenza; o in un’altra, in cui ci sono due operai che lavorano la terra sotto il sole mentre un uomo-scimmia li osserva.
Per Gill la collaborazione è un elemento fondamentale nel processo fotografico. Nata nel 1970 a Chandigarh, si è laureata in arti visive a New Delhi e ha studiato fotografia negli Stati Uniti. Poi è tornata in India, dove si dedica alle sue opere e all’insegnamento. Durante la sua carriera ha sostenuto il lavoro di altri artisti.
Nel 2003 per un festival di sole donne ha allestito uno studio fotografico all’aperto, incoraggiando le persone a scegliere come posare: una rara possibilità di autorappresentazione in una società patriarcale. In una delle sue mostre ha incluso le immagini di disegni realizzati da artisti locali. “Questi progetti hanno permesso alle persone del posto di sentirsi rappresentate in quanto artiste, non come semplici artigiani”, dice Gill. “L’universale si raggiunge spesso guardando l’elemento locale o quotidiano, qualcosa di familiare e quindi non esotico, ma mai ordinario”. ◆ adr
◆ Gauri Gill è tra i dodici finalisti del premio internazionale di fotografia Prix Pictet. Alcuni dei suoi lavori sono esposti a Londra presso il centro di fotografia South Kensington fino al 20 aprile 2024, e alla Barbican gallery dal 5 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024.
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Questo articolo è uscito sul numero 1531 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati