Il terzo romanzo di Cho Nam-joo parla della lotta quotidiana delle donne coreane contro il sessismo endemico. Raccontando la storia di Kim Ji-young – il nome è l’equivalente coreano di Maria Rossi – il libro dà voce alle donne inascoltate. Quando incontriamo Ji-young, ha 33 anni e un bambino di un anno. La sua vita è insignificante, tranne per il fatto che ha cominciato ad assumere le personalità di altri. Durante una visita ai suoceri, Ji-young scivola nell’identità della madre e si mette a parlare in un modo ritenuto inappropriato per il suo posto nella gerarchia della società coreana, basata sull’età. Il suocero è indignato. Ji-young accetta di visitare uno psichiatra, e la cronaca delle loro conversazioni costituisce la maggior parte del romanzo. Ji-young è nata quando “controllare il sesso del feto e abortire le femmine era una pratica comune, come se ‘figlia’ fosse un problema medico”. Il resoconto clinico e spassionato in terza persona, arricchito da cronache giornalistiche e dati demografici ufficiali, testimonia l’oppressione sistemica che Ji-young ha dovuto affrontare. A scuola subisce molestie sessuali, ma danno la colpa a lei. Sul posto di lavoro la pagano meno degli uomini. E mentre svolge il lavoro costoso e non retribuito della maternità, è denigrata come una parassita. La linearità del racconto dà un senso di claustrofobia, e lo stile da case-study oggettivizza Ji-young e la spoglia della sua interiorità. La sua follia è l’unica via d’uscita dall’angusto paradosso dei ruoli di genere. Il romanzo mostra come gli atteggiamenti verso il genere siano intrecciati a questioni socioeconomiche, e in particolare alla crisi finanziaria coreana del 1997. Kim Ji-young può essere vista come una sorta di vittima sacrificale: una protagonista che si spezza per aprire un canale alla rabbia collettiva. Sarah Shin, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1423 di Internazionale, a pagina 89. Compra questo numero | Abbonati