Il secondo album di L’Rain (il nome d’arte della cantante di Brooklyn Taja Cheek) va ascoltato dall’inizio alla fine, possibilmente in cuffia. Dovete lasciargli il tempo di cambiarvi, permettergli di portarvi altrove. Ogni canzone è preceduta da un interludio che cuce le varie parti dell’album. Il primo di questi interludi, Fly, die, ci chiede: “Cos’hai fatto per cambiare?”. E questo è un po’ il quesito che ci pone tutto il lavoro di L’Rain: in che modo possiamo aprirci verso l’esterno? Ogni canzone di Fatigue si sviluppa a partire da un suono registrato sul campo: autobus che passano, mani di bambini che applaudono. Il disco sembra partire da un trauma del passato e offrirci una via d’uscita. L’Rain immagina una specie di città psichica dove ogni quartiere è legato a un’emozione particolare. Noi ci voliamo in mezzo e captiamo i frammenti delle interazioni tra le persone: le sentiamo ridere, piangere, applaudire. Nel mondo fluido di L’Rain le emozioni non esistono mai singolarmente.

Georgie Brooke,
The Quietus

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Questo articolo è uscito sul numero 1416 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati