La riluttanza degli Stati Uniti ad assumersi la responsabilità della loro storia fa pensare che ci vorranno decenni – forse un secolo – perché facciano pienamente i conti con le nefandezze di Guantánamo. Anche se tutti sanno delle torture e delle disumanità che si sono compiute tra le mura del centro detentivo e anche se l’amministrazione Biden ha fatto capire di volerlo chiudere, la struttura è ancora aperta e “ospita” una quarantina di persone. In The mauritanian – che racconta la storia di Mohamedou Ould Salahi (Tahar Rahim) detenuto per quattordici anni a Guantánamo senza processo e sulla base di accuse infondate – un avvocato in visita a un suo assistito, guardando le recinzioni e le barriere di filo spinato si ritrova a pensare che un giorno quel posto diventerà un’attrazione turistica. Ecco uno dei motivi per cui abbiamo bisogno di film come questo, perché non possiamo permetterci che alcune storie siano dimenticate. Kevin Macdonald, noto per la crudezza politica dei suoi film (per esempio L’ultimo re di Scozia o Un giorno a settembre) ha scelto di realizzare una pellicola più convenzionale del solito. Che però ha la sua forza nel modo diretto con cui affronta l’ideologia che ha permesso tutto ciò, un nazionalismo protettivo che ha pochi dubbi e si fa poche domande, rispondendo alla sete di sangue seguita all’11 settembre. Il film si distingue anche per aver dato spazio, voce e profondità a Salahi (la sceneggiatura è basata sul suo Guantanamo diary), una vittima di quell’ideologia, anche grazie a una fenomenale interpretazione di Tahar Rahim. Clarisse Loughrey, Independent
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Questo articolo è uscito sul numero 1412 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati