Divertentissima, deliziosa e ambiziosa satira di Hollywood, Chinatown interiore segue un comune uomo asiatico, un generico asiatico, nei suoi sforzi per diventare qualcosa di più di un caratterista. “Fin da quando eri un ragazzo, hai sognato di essere il fenomeno del kung fu”, si ripete, come un mantra per il successo. Vuole passare al centro dello schermo. Non è facile. Negli Stati Uniti, da circa un secolo, i film e la tv hanno relegato i personaggi e gli attori asiatici ai margini. L’uomo asiatico generico – ha un nome, Willis Wu – è bloccato nella parte del maschio orientale di sfondo. Ed è intrappolato non solo come aspirante attore, ma anche come personaggio del romanzo, perché Chinatown interiore è scritto nella forma di una sceneggiatura. Pur attenendosi allo schema dello script, Yu lo piega quanto gli serve per andare più in profondità e lunghi passaggi descrittivi diventano miniracconti. Così veniamo a conoscenza del passato di Willis, dei suoi genitori, dei suoi amici e della strana Chinatown dove abitano. Tutti i personaggi asiatici vivono insieme in uno squallido condominio sopra un ristorante cinese. Sono coreani e cinesi, giapponesi, taiwanesi e tailandesi, e statunitensi di seconda o terza generazione. Eppure sono tutti ammassati insieme, asiatici generici sopra il Golden Palace. Willis viene scritturato nello show Black and white, una parodia di , con due detective sexy che risolvono crimini mentre flirtano tra loro. Willis ottiene piccole parti, poi lentamente si conquista ruoli migliori. È orgoglioso del lavoro ma frustrato dagli stereotipi che interpreta. Vede che gli attori afroamericani e bianchi dello show hanno personaggi completi mentre lui è costretto a recitare con un finto accento straniero. Se ne lamenta con i suoi colleghi. Il libro non rompe mai la forma della sceneggiatura, e i dialoghi, che avvengano nello show o nella vita reale, restano intrappolati in quel formato, sovrapponendosi, fondendosi. Come Rosencrantz e Guildenstern nella famosa opera di Tom Stoppard, i personaggi commentano l’artificio della loro stessa creazione. È un tipo di narrazione non facile da realizzare, ma Yu ci riesce.
Carolyn Kellogg, The Washington Post
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Questo articolo è uscito sul numero 1407 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati