Nel movimento di riconfigurazione politica permanente che vive l’Italia dalla fine degli anni di Berlusconi, non ci si stupisce più di nulla. Tuttavia nessuno avrebbe immaginato che Mario Draghi, ex governatore della Banca d’Italia (2006-2011) e presidente della Banca centrale europea (2011-2019), potesse un giorno discutere della formazione del prossimo governo con il comico e fondatore del Movimento 5 stelle Beppe Grillo, sempre sprezzante verso le élite. I due si sono incontrati il 6 febbraio dopo il fallimento del governo di coalizione di Giuseppe Conte.

Si potrebbe essere tentati di presentare i due uomini quasi coetanei (Draghi ha 73 anni, Grillo 72) come una sorta di Giano bifronte, i due volti contrapposti di una stessa esigenza: inventare nuove formule per superare le difficoltà scaturite dal fallimento delle forze politiche tradizionali.

L’ascesa di Beppe Grillo agli inizi degli anni 2010 è stata favorita dal rifiuto della democrazia rappresentativa e più in generale di tutte le élite, giudicate inevitabilmente corrotte. Facendo leva su questi temi il Movimento 5 stelle ha ottenuto un terzo dei seggi alla camera dei deputati e al senato nelle elezioni legislative del 2018. Una volta messo a segno questo risultato, il movimento ha dimostrato soprattutto una grande elasticità, che gli ha permesso di trattare prima con l’estrema destra, poi con la sinistra e il centro, con il solo obiettivo di rimanere al potere.

Draghi, invece, è l’incarnazione di un altro archetipo italiano: il “tecnico” di alto livello, inesperto di politica e necessariamente onesto, al quale i politici italiani affidano il potere per comporre i loro sterili litigi. Da questo punto di vista Draghi è l’erede di uomini come l’ex presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006) o l’ex presidente del consiglio Mario Monti (2011-2013), che negli ultimi venticinque anni sono arrivati alla politica in momenti drammatici per il paese, per restituirgli un po’ di credito presso i mercati finanziari.

Non per l’economia

Le competenze tecniche dell’ex presidente della Bce sono innegabili e potranno tornare utili nel momento in cui i 209 miliardi di euro del piano di rilancio europeo offriranno al paese un’occasione storica per correggere alcune delle sue debolezze. Ma non bastano a spiegare perché il presidente della repubblica Sergio Mattarella ha deciso di convocare Draghi in questo momento cruciale.

In effetti non c’è una tempesta sui mercati né una crisi di fiducia all’orizzonte tra i creditori dell’Italia, e rimettere ordine nelle finanze pubbliche del paese non è tra le priorità. No, la crisi che ha trascinato Draghi in politica è innanzitutto politica, e se questo economista è apparso come la soluzione al problema è soprattutto in virtù delle qualità politiche dimostrate quando era a capo di istituzioni come la Bce e nel 2011 si trattò di salvare l’euro.

Di conseguenza il governo Draghi, se mai vedrà la luce, non sarà un esecutivo tecnico in senso stretto, ma sarà guidato in modo molto politico. Ed è proprio questa la notizia migliore per l’Italia e per l’Europa, perché la gestione degli affari pubblici italiani non si può ridurre a un gioco di equilibri tra le forze antisistema da un lato e una corrente tecnocratica, senza legittimità democratica, dall’altro. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1396 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati