Il principe saudita Mohammed bin Salman vuole diventare il primo leader arabo a organizzare un vertice del G20, a novembre. Ma c’è un problema: in molti paesi è considerato un paria perché il suo esercito bombarda sistematicamente i civili nello Yemen e per la brutale repressione nel suo paese. Per questo il 7 settembre il principe ha fatto un altro sforzo per ripulire la sua reputazione: un tribunale di Riyadh avrebbe condannato otto persone per l’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi.

Il verdetto manca di qualsiasi trasparenza. L’identità dei condannati non è stata resa nota. I due alti funzionari accusati di aver organizzato la squadra di quindici persone che il 2 ottobre 2018 ha aggredito Khashoggi all’interno del consolato saudita a Istanbul sono stati assolti. Non è neanche chiaro se le persone condannate a pene comprese tra i sette e i vent’anni di reclusione siano davvero in carcere. A quasi due anni dall’omicidio la compagna di Khashoggi non sa neanche dove si trovano i suoi resti. Sappiamo che è stato soffocato e poi smembrato con una sega solo grazie all’inviata delle Nazioni Unite Agnès Callamard, che ha avuto accesso alle immagini delle telecamere di sorveglianza turche. Secondo Callamard il mandante è Mohammed bin Salman, e la Cia è d’accordo.

Il processo di Riyadh è solo uno specchietto per le allodole destinato a leader democratici come Angela Merkel, Emmanuel Macron e Boris Johnson, per permettergli di andare a Riyadh, senza dare l’impressione di avallare l’omicidio di un noto giornalista. Il presidente statunitense Donald Trump ha già assolto il principe, nonostante i rapporti della Cia, e ha continuato a fornire armi all’Arabia Saudita. La mancanza di giustizia per Khashoggi non impedirà a Trump di partecipare al vertice di Riyadh. Ma dovrebbe far riflettere i leader dei paesi del G20 che ancora considerano i diritti umani un pilastro delle relazioni internazionali

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Questo articolo è uscito sul numero 1375 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati