Un giorno come un’altro di qualche anno fa Fabio Mantovani passeggiava a Bologna, la sua città. Senza un motivo preciso gli venne in mente la strage di Ustica, in cui l’aereo DC-9 Itavia 870 era stato abbattuto in circostanze non del tutto ancora chiarite nel mare Tirreno, al largo dell’isola di Ustica. Era il 27 giugno 1980 e nell’impatto morirono 81 persone. Un pensiero “intrusivo”, come lo definisce lui stesso, reso però sensato nel momento in cui, fermo al semaforo, gli passò davanti proprio il relitto del DC-9, in viaggio verso il museo della Memoria di Ustica.
Quella strana coincidenza fu il segnale per Mantovani, fotografo specializzato in architettura che lavora soprattutto su commissione, per cominciare una riflessione visiva sulla lunga stagione di attentati che hanno scosso l’Italia tra gli anni settanta e novanta. Un periodo che per lui, nato nel 1970, era stato segnato in particolare dalla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. I suoi sono ricordi di chi, ancora bambino, più che capire fatti, ipotesi e discorsi politici percepiva un’atmosfera, resa livida e pesante dalle immagini di violenza e morte veicolate dalla televisione e dai giornali.
Da fotografo abituato a lavorare con edifici e costruzioni, ha sentito l’urgenza di raccontare a suo modo un passato recente che bisogna ricordare e tramandare. Nel suo nuovo libro, Sotto gli occhi nessuno, pubblicato a settembre da Quodlibet, si è fatto testimone di quello che resta di alcuni degli episodi violenti e spesso opachi della storia italiana.
Nel volume ha messo insieme, con l’aiuto nell’editing della curatrice Arianna Rinaldo, quaranta immagini dei reperti delle stragi, fotografati su sfondo nero e illuminati da luci artificiali. Prima di arrivare a una forma definitiva il progetto ha richiesto cinque anni di lavoro, di cui una parte dedicata solo alla ricerca dei reperti e alle attese burocratiche per avere il permesso di fotografarli. Molti di questi sono in depositi giudiziari, sotto sequestro, come l’auto della scorta di Aldo Moro e la Renault 4 in cui è stato ritrovato il cadavere. Oppure custoditi a casa dei parenti delle vittime, come la bicicletta di Marco Biagi giurista ed economista ucciso dalle nuove brigate rosse.
Mantovani ha usato il linguaggio che conosce meglio, quello della fotografia corporate, fatta di luci impeccabili, studiate per far risaltare la perfezione del design di un oggetto, e l’ha applicato a carcasse di veicoli e portiere trivellate da proiettili, curando con la massima attenzione anche le inquadrature. L’obiettivo era di replicare prospettive e punti di vista legati alle dinamiche dell’evento, per tentare di mostrare gli ultimi istanti di vita delle vittime. In questa lunga sequenza i reperti in still life assumono la forma di contenitori di una memoria tragica. Sono fantasmi trasformati in materia solida perché esigono di essere guardati, conosciuti e non dimenticati.
Unica eccezione è la foto in copertina, la prima nella gallery, in cui vediamo un essere umano, una donna. L’immagine è legata alla bomba sul rapido 904 Napoli-Milano, che esplose mentre il treno attraversava la grande galleria dell’Appennino, il 23 dicembre 1984, causando 16 morti e 267 feriti. Tra loro c’era Lina D’Aniello, che insieme a Mantovani ha ricreato gli attimi precedenti alla deflagrazione, indossando gli stessi vestiti e la stessa borsa su cui sono poggiati i piccoli frammenti di vetro che il corpo della donna ha restituito nei decenni successivi.
Quello che rimaneva del treno è stato distrutto completamente pochi mesi dopo l’esplosione e quindi i frammenti di Lina D’Aniello sono l’unica prova fisica esistente di quell’evento. In questo libro Mantovani e Rinaldo ci aprono le porte di un museo immaginario della memoria, dolorosa e complicata, attraverso il calore di una presenza umana, per chiederci di entrare, rivivere o conoscere i fatti, lasciando che quegli oggetti ci parlino.
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