Nel campo da basket al centro di piazza dell’Unità, a Bologna, ci sono alcuni ragazzini che si sfidano in una partita tre contro tre. Un signore con la coppola è seduto a guardarli, mentre poco lontano una coppia discute animatamente. Nel cuore del quartiere Bolognina, dietro la stazione centrale, i volti dei ragazzi di seconda generazione si alternano a quelli di anziani che vivono nelle case popolari e di persone con problemi evidenti di tossicodipenza. Tra loro c’è Agata, che sta provando a lasciarsi la droga alle spalle, ma ammette che non è facile: “Con il crack basta fare un tiro e non ne puoi fare più a meno: è un piacere fortissimo, ti toglie dalle spalle tutto il peso che ti porti addosso”.
Agata (nome di fantasia) è nata in Polonia, sua madre era dipendente dall’alcol. A dodici anni è stata adottata da una famiglia di Milano. In Italia ha cominciato a sniffare colla, poi si è avvicinata alle droghe sintetiche e infine all’eroina. La cocaina e il crack sono arrivati in seguito. La dipendenza l’ha spinta a dormire per strada e ad avere relazioni sentimentali precarie e spesso violente.
“Con il crack non ti fermeresti mai, rubi, vendi qualsiasi cosa, anche te stessa, solo per un tiro. Una volta ho fumato per quattro giorni di fila finché non sono svenuta. Sono stata in coma tre giorni, poi avevo continui attacchi di panico. Ero a un bivio: potevo scegliere se continuare e morire, o provare a sopravvivere”. Mi racconta tutto questo in una videochiamata. Avremmo dovuto vederci di persona, ma per due volte ha rimandato l’appuntamento. È un momento complicato per lei, ha cominciato un percorso di recupero, ma non è una strada semplice e spesso si ritrova ad avere delle ricadute.
Il primato
La situazione in cui si trova Agata è più diffusa di quanto si creda. L’ultima relazione del governo al parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze mostra che nel 2024 in Italia la cocaina e il crack sono state le droghe che più di tutte hanno spinto le persone a rivolgersi ai servizi per le dipendenze: il 44 per cento rispetto al 31 per cento del 2015.
Provando a semplificare, si può dire che le droghe si dividono in due grandi categorie: sedative e stimolanti. Il crack fa parte di questo secondo gruppo. È un ricavato dalla cocaina, si presenta in cristalli, che vengono sciolti e assunti fumando. A caratterizzarlo è anche la cosiddetta scena aperta, cioè il consumo in strada, che avviene in particolare in alcuni quartieri di grandi città, come il Quarticciolo a Roma, Ballarò a Palermo, i Quartieri spagnoli a Napoli o Rogoredo a Milano.
Aree non sempre periferiche e in alcuni casi vicine ai centri storici, ma dove vivono molte persone con diverse fragilità: economiche, psichiche, familiari. È il caso della Bolognina.
A differenza degli Stati Uniti, dove la diffusione di questa droga risale alla metà degli anni settanta nelle periferie nere e latine di New York e Detroit, in Italia il fenomeno è relativamente nuovo e le istituzioni stanno sperimentando diverse strategie per affrontarlo.
“Di solito chi comincia a usare crack assume già cocaina, e quando si avvicina a questa nuova sostanza se ne innamora perché è più potente”, spiega Marialuisa Grech, direttrice dell’unità che si occupa di dipendenze all’azienda unità sanitaria locale (Ausl) di Bologna. “Il crack si diffonde soprattutto tra chi vive in strada o in alloggi di fortuna, e che spesso non ha documenti; ma anche tra chi una casa ce l’ha, così come un discreto livello di scolarizzazione, un lavoro e una famiglia”.
Nel capoluogo dell’Emilia-Romagna le persone dipendenti da crack in carico ai servizi per le dipendenze patologiche (Serdp) sono passate da 347 nel 2022 a 518 nel 2025. Un aumento del 49 per cento in tre anni. Più di tre quarti sono uomini, con un’età media di quarant’anni. Il 74 per cento ha la cittadinanza italiana. “La dipendenza da crack è molto potente”, spiega Grech. “L’effetto è subito molto forte, ma finisce in fretta e crea immediatamente il bisogno di riprovarlo. Di solito ci si sveglia già in astinenza e il primo pensiero è procurarsi i soldi per comprarsi la sostanza. Quando ci si riesce, la si consuma già sapendo che poco dopo si sarà punto e capo. Tutta la vita ruota attorno al crack”.
Come si fa allora a uscire da questa dipendenza? “Per cominciare è necessario che a volerlo sia la persona coinvolta, non esistono interventi forzati”, spiega Grech. “Si inizia con un ricovero in ospedale, dopodiché si passa a un percorso ambulatoriale al Serdp o in comunità. Bisogna però ricordare che la tossicodipendenza è una patologia cronica, con molte ricadute: ci sono persone che non ne escono per tutta la vita, altre che trascorrono lunghi periodi senza, altre ancora che passano da una sostanza all’altra. Anche chi smette porta sempre dentro di sé la consapevolezza di avere una fragilità”.
Per le strade
Le persone che vivono in strada fanno più fatica a chiedere aiuto, perché non hanno gli strumenti – economici, culturali, relazionali – per uscire dalla precarietà e dalla dipendenza. Ecco perché, oltre alle dieci strutture del Serdp nella città metropolitana di Bologna, esistono anche dei servizi che lavorano direttamente in strada. “Chi consuma crack smette di desiderare tutto, tranne la sostanza: non beve, non mangia, non si lava, non dorme”, spiega Marina Padula, coordinatrice dei servizi di prossimità dell’azienda di servizi alla persona (Asp) del comune di Bologna. “Per gli operatori è difficile trovare un momento in cui la persona è disposta a parlare e chiedere aiuto”.
A Bologna esistono vari strumenti per intercettare i consumatori di strada: c’è un’unità mobile del Serdp che si sposta in diversi punti della città; tra i servizi comunali c’è InStrada, l’unità di strada gestita dal consorzio L’arcolaio; e poi c’è Fuori binario, una struttura gestita dalla cooperativa Open group, dove le persone possono accedere liberamente, anche senza documenti. Si trova nel quartiere Bolognina, proprio alle spalle della stazione, in un cortile interno circondato da alti palazzi residenziali: il piccolo edificio rosso con il tetto a zigzag è frequentato da persone senza una casa che fanno uso di sostanze. Qui possono usare il bagno, prendere dei vestiti, fare colazione o pranzare, partecipare a laboratori e attività. È così che gli operatori riescono a guadagnarsi la loro fiducia e, in alcuni casi, a indirizzarli ai Serdp.
È il caso di Giorgio (nome di fantasia), che ha 48 anni e da trenta fa uso di sostanze. “Le droghe mi hanno distrutto la vita: ho perso il lavoro, la casa, da quattro anni non vedo mia figlia”, racconta. Giorgio ha vissuto per strada, dormendo in edifici abbandonati o sotto i portici di Bologna. È stato lì che ha cominciato a fumare crack. “Quando lo fai, il cervello se ne va. Sono stato anche in carcere per colpa del crack, faresti di tutto per riuscire a comprarlo. Quando non ne hai più, pensi: è già finito? Non mangi, non dormi, le emozioni non esistono. Ero arrivato a un punto in cui mi sono detto: ‘Signore, se devo vivere così, fammi morire’”.
È stato allora che Giorgio si è rivolto al Serdp ed è stato ricoverato per due settimane in una clinica. Oggi vive in affitto con la sua compagna, frequenta un corso professionale e nel frattempo lavora. “Ho trovato persone che mi hanno accolto e hanno creduto in me: questo mi ha dato fiducia”.
Fino a qualche anno fa a consumare crack era solo chi sapeva “cucinarlo”, ossia prepararlo a partire dalla cocaina. Dal 2022, invece, il mercato è stato invaso da crack “già cotto”, che è riuscito a conquistare molti grazie anche a prezzi competitivi. “Negli ultimi anni si registra un aumento della povertà estrema, che secondo noi spiega l’aumento del consumo di crack”, spiega Giuseppe Ialacqua, coordinatore di Fuori binario. “Il crack ha dato un’alternativa a chi non si poteva permettere la cocaina o non voleva sniffare sostanze”.
Oggi per strada si trova a cinque euro per la cosiddetta “fumata”, la dose minima che si assume in una o due inalazioni. “Le persone pensano di risparmiare, ma poi hanno bisogno di fumare molto spesso, anche ogni mezz’ora”, racconta Ialacqua. “Spendono più di cento euro al giorno senza accorgersene”.
Molto meno diffusi sono invece i luoghi dove la sostanza si “cucina”. Un tempo erano punti di ritrovo e consumo, ma ora le persone fumano ovunque. Consumare crack in solitudine non fa che aumentare i rischi, perché non c’è nessuno che può prestare soccorso in caso di infarto o aggressione. Per fumare si usano bottiglie o lattine, che comportano l’inalazione di microplastiche e spesso provocano ferite, aumentando il rischio di contrarre malattie.
Riduzione del danno
Per contrastare tutto questo, oltre ai soliti servizi, da qualche mese a Bologna si sta provando la via della riduzione del danno: Fuori binario è stata incaricata di distribuire pipe sterili monouso alle persone che assumono crack. La sperimentazione è promossa dal comune e ha creato già diverse polemiche, a livello locale e nazionale. Il ministro dei trasporti Matteo Salvini l’ha definita una “follia”.
Nello stessa Bologna, insieme a chi crede nelle politiche di riduzione del danno, c’è chi ritiene che la soluzione al problema sia invece un approccio securitario. A ottobre del 2024 la prefettura ha istituito tre zone rosse: nel quartiere Bolognina, nell’area della stazione e nel vicino parco della Montagnola. L’ordinanza permette di allontanare le persone già denunciate per reati di spaccio, danneggiamento e contro la persona.
Molte associazioni però denunciano un’aumento della profilazione razziale, visto che i controlli in strada riguardano in maggioranza persone straniere. Dopo un anno dall’istituzione delle zone rosse il comune ha preso atto che lo spaccio non è diminuito e ha presentato un dossier alla procura denunciando la presenza di gruppi organizzati nigeriani.
Nel frattempo, gli abitanti della Bolognina lamentano un clima che dicono sia diventato più difficile, con frequenti scippi, risse, persone che dormono negli scantinati. Uno dei punti cruciali del consumo è il mercato rionale Albani, dove all’ingresso campeggia un murale bianco, rosso e nero con la scritta “Crack is wack”, il crack è una fregatura. Gli esercenti hanno inviato una lettera aperta alle istituzioni denunciando intimidazioni, minacce e aggressioni.
Secondo gli attivisti del progetto di riduzione del danno Lab57, se ora tante persone usano sostanze in strada è anche per colpa delle crescenti tendenze repressive e delle scelte politiche in città. “Prima esisteva un drop-in, un punto di accoglienza dove le persone senza tetto potevano andare per riposare e fare una doccia, ma è stato chiuso quindici anni fa”, dicono. “E poi c’è stata un’ondata di sgomberi sia di edifici sia di centri sociali autogestiti. Alcuni questi, come il Livello 57 e poi XM24, davano alle persone informazioni, spazi e occasioni di socialità”. Quello che denunciano è insomma che le persone più fragili rischiano ancora di più l’isolamento e di finire per abbracciare qualche dipendenza.
Molte delle realtà attive nel quartiere credono che non sia la militarizzazione delle strade a ridare ai cittadini un senso di sicurezza. “Il disagio nasce dalla marginalizzazione dei ragazzi con background migratorio, da persone che restano senza casa pur avendo un lavoro e dai tagli ai servizi sul territorio”, afferma Luca Simoni del collettivo Plat. “Gli interventi della polizia alimentano le narrazioni razziste in un quartiere dove ci sono tante persone con origini straniere”, aggiungono gli attivisti del collettivo Bolognina come stai, che sta portando avanti periodiche assemblee con gli abitanti della zona. “Noi invece vogliamo più servizi e spazi per tutti e tutte”.
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