Il 17 ottobre il parlamento mongolo ha sfiduciato il primo ministro Gombojav Zandanshatar, in carica da appena quattro mesi, in un contesto di lotte intestine e di divergenze sulla gestione delle ricche risorse naturali del paese.
Dei 111 deputati presenti, 71 hanno votato a favore della sfiducia e 40 contro. Un nuovo capo del governo dovrà essere nominato entro trenta giorni.
La caduta di Zandanshatar è legata soprattutto alla decisione del governo di modificare il calcolo delle imposte sulle entrate minerarie in un modo che avrebbe inciso sul bilancio dello stato.
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Molti deputati rimproveravano poi al premier di aver nominato un nuovo ministro della giustizia senza passare per il parlamento.
Ma secondo alcuni commentatori, la caduta del governo è, più in generale, la conseguenza di varie settimane di lotte intestine all’interno della classe politica.
Zandanshatar, 55 anni, ex presidente del parlamento, era stato nominato alla guida del governo a giugno dopo le dimissioni del suo predecessore, Luvsannamsrain Oyun-Erdene, in seguito a un’ondata di proteste giovanili contro la corruzione.
Come Oyun-Erdene e il presidente Ukhnaagiin Khürelsükh, Zandanshatar è un esponente del Partito del popolo mongolo (Ppm).
Corruzione endemica
Da decenni la Mongolia, un paese di 3,4 milioni di abitanti stretto tra la Cina e la Russia, è afflitta da una corruzione endemica, mentre le élite sono accusate d’impadronirsi dei proventi dell’industria mineraria, che è in piena espansione.
Negli ultimi anni il paese ha perso molte posizioni nell’indice di percezione della corruzione (Cpi) messo a punto dall’ong Transparency international.