Sulle pareti del piccolo tunnel che porta davanti al centro sociale Leoncavallo, nel nord di Milano, sono appiccicati dei fogli di carta. Sono consumati, si muovono al ritmo del vento. Ognuno contiene una parola e insieme compongono la frase: “Non temere non è la fine del”. Manca l’ultima parola, il foglio è volato via da chissà quanto tempo. Letta oggi, quella frase monca pare un auspicio per il futuro di un luogo simbolo della storia milanese.

Il 21 agosto, in una Milano vuota, le camionette delle forze dell’ordine sono arrivate in via Watteau, alla sede del centro sociale. L’ufficiale giudiziario era atteso il 9 settembre, ma evidentemente il governo guidato da Giorgia Meloni, per la sua propaganda sulla sicurezza, ha voluto anticipare la procedura. Dopo cinquant’anni di vita, 133 tentativi di sgombero e anni di trattative, il Leoncavallo è sparito dalla mappa milanese. “È stata una prova di forza”, spiega davanti a un caffè Marina Boer, 74 anni, presidente dell’associazione Mamme antifasciste del Leoncavallo. “Vogliono dimostrare che si può fare piazza pulita di queste realtà, ma si sbagliano. È morto il luogo Leoncavallo, ma non è morta l’idea. Ora sta a noi e alle altre realtà solidali fare fronte comune per dimostrarlo”.

Il Leoncavallo nasce nel 1975 in un edificio dismesso nel nordest della città. Come spiegava Primo Moroni, libraio e intellettuale, erano gli anni delle contestazioni studentesche, delle occupazioni operaie in fabbrica e della comparsa in periferia di generazioni di giovani in cerca di spazi di espressione.

Nascono numerosi centri sociali e il Leoncavallo diventa uno spazio di grande fermento, tra corsi di teatro, scuole popolari e altre attività. Nel 1978 Fausto Tinelli e Lorenzo Iaio Iannucci, frequentatori del centro sociale, sono uccisi da estremisti di destra. L’associazione Mamme antifasciste del Leoncavallo si forma e si batte per avere verità e giustizia, e per difendere lo spazio dalla stagione repressiva contro i movimenti, innescata dall’omicidio Moro.

Il Leoncavallo resiste e amplia la sua platea, aprendo le porte a realtà nuove come i punk del centro sociale sgomberato Virus. I proprietari dell’immobile occupato, il gruppo immobiliare Cabassi, ottiene però il via libera allo sgombero dell’immobile. Il primo avviene nel 1989, ma una strenua resistenza porta alla rioccupazione e ricostruzione dello spazio abbattuto dalle ruspe. Lo sgombero definitivo arriva nel 1994. Il Leoncavallo si stabilisce allora in via Watteau, occupando un edificio dismesso sempre di proprietà del gruppo Cabassi.

“Lo stabile era vuoto da vent’anni quando lo abbiamo occupato”, sottolinea Marina Boer. “Lo abbiamo riqualificato e trasformato in un punto di riferimento per il quartiere e la città”. Nascono nuove attività e laboratori, aumentano i servizi a sostegno delle persone più povere, mentre i sotterranei diventano un tempio della street art, sottoposti a tutela dalla soprintendenza. A Milano intanto cominciano a germogliare i semi della trasformazione urbanistica fatta di grattacieli, gentrificazione e speculazione edilizia. E la minaccia di un nuovo sgombero si fa sempre più concreta. “Per anni la proprietà non si è mossa. Eravamo in un’area industriale dismessa, non interessava”, spiega Boer. “Le cose sono cambiate quando il quartiere ha iniziato a rivalutarsi”. Così, dopo 133 tentativi andati a vuoto, si arriva allo sgombero del 21 agosto.

L’evento Happening international underground (Hiu) al Leoncavallo. Milano, 2003. (Dino Fracchia, Buenavista)

Da anni era in corso una trattativa tra il Leoncavallo e il comune di Milano. “L’occupazione è sempre stata un mezzo per arrivare alla regolarizzazione, non un fine”, continua Boer. “Sono decenni che lavoriamo per seguire questa strada, che sia un riconoscimento del valore del Leoncavallo per la città”. Il comune ha individuato un’area dismessa dall’altra parte di Milano e in questi giorni ha avviato una procedura pubblica per raccogliere manifestazioni d’interesse. Tra bonifiche dall’amianto e farraginose procedure burocratiche i tempi potrebbero essere lunghi, mentre gli spazi ristretti sembrano impedire molte delle attività di via Watteau.

Uno degli appuntamenti fissi era la fiera La terra trema. Dal 2005 richiamava vignaioli e produttori agricoli da tutta Italia, che tra degustazioni e incontri davano vita a un racconto collettivo e partecipato delle loro attività. “La fiera era un’opportunità per far conoscere al grande pubblico un certo modo di fare agricoltura e forme di produzione sostenibili. Ma anche per avvicinare la cittadinanza al Leoncavallo, farglielo scoprire e abbattere gli stereotipi”, spiega Paolo Bellati, uno degli organizzatori di La terra trema. “Ora perderemo questo patrimonio. Proveremo a costruire eventi diffusi altrove, ma mancherà il contenitore”.

Nei mesi scorsi, ogni volta che si presentava l’ufficiale giudiziario, il Leoncavallo ha organizzato presidi con le varie anime legate al centro. Forme di resistenza collettiva che hanno impedito lo sfratto. La prova di forza del governo, che ha anticipato il blitz ad agosto, ha impedito un nuovo confronto.

Organi vitali

“Con lo sgombero del Leoncavallo questa città ha preso l’ennesima batosta dopo che negli ultimi tempi avevano chiuso altri spazi simili. Le grandi città non possono fare a meno della controcultura e quando si perdono luoghi così è come se si perdesse un organo vitale”, spiega Venerus, cantautore nato e cresciuto a Milano, presente a uno dei presidi. “C’è un grande errore di fondo, pensare che una città che funziona è quella dove tutto è sotto controllo, tutto è in ordine. Ma, quando si chiudono gli spazi in cui si lavora propositivamente per migliorare le condizioni di chi ha più bisogno e per proporre cultura dal basso, si snatura il senso stesso della città. Qui protagoniste dovrebbero essere le persone, non forme di legalità usate come pretesti dal potere”.

Negli anni settanta, quando è nato il Leoncavallo, e poi negli anni novanta, anche sulla spinta del movimento studentesco della Pantera, si sono moltiplicate le occupazioni, le autogestioni e i centri sociali in tutta Italia, compresa Milano. Con il nuovo secolo il terreno per queste esperienze è diventato meno fertile e resistere in quegli spazi è stato più difficile. Gli strascichi della durissima repressione delle manifestazioni contro il G8 di Genova hanno avuto un ruolo decisivo, ma hanno pesato anche le dinamiche predatorie dello sviluppo urbano a Milano e altrove.

“La Milano della deindustrializzazione aveva visto fiorire in aree dismesse e capannoni vuoti tutta una serie di esperienze di autogestione, in risposta all’assenza di spazi e di luoghi dove esprimersi”, spiega Alberto Di Monte, geografo con una lunga esperienza nella cascina occupata Torchiera, centro sociale nato nel 1993 nella periferia ovest della città.

La Torchiera negli anni è diventata un punto di riferimento nel quartiere, con un’offerta artistica, culturale e creativa molto ricca, iniziative di supporto alle persone fragili e battaglie civiche. “A un certo punto i cosiddetti processi di riqualificazione e rigenerazione urbana hanno interessato tantissimi luoghi della deindustrializzazione”, continua Di Monte. “Così le varie realtà che vi si erano insediate, scomode per il mercato e per i valori immobiliari, sono state progressivamente contenute, marginalizzate e represse”.

Una manifestazione organizzata dal centro sociale Leoncavallo contro lo sfratto. Milano, 2003. (Dino Fracchia, Buenavista)

Nei primi anni duemila Milano ha vissuto una stagione di sgomberi che è ancora in corso. Sono stati colpiti centri sociali storici e i luoghi chiave della rigenerazione urbana, come il Cox18 sui Navigli, poi rioccupato, o il Bulk, la Pergola, il Garibaldi e la Stecca degli artigiani a Porta Nuova. La Torchiera era finita in un pacchetto di cascine che dovevano essere ristrutturate per l’Expo 2015 e ha vissuto momenti di forte pressione, riuscendo però a resistere.

Anche il centro sociale occupato T28, in zona Loreto, che ospita un ambulatorio medico popolare e un consultorio autogestito, è al centro di campagne stampa denigratorie e insistenti minacce di sfratto. Il centro sociale Cantiere, creato dai collettivi studenteschi nel 2001 in una palazzina del quartiere San Siro, oggi è minacciato di sfratto dall’azienda proprietaria, la Monterosa 84, che lì vorrebbe costruire degli appartamenti di lusso.

Una fragile stabilità

Nell’aprile 2012 un gruppo di persone decise di occupare quattro palazzine in piazza Ferravilla, nella parte orientale della città. Gli edifici erano di proprietà dell’Aler, l’ente regionale che gestisce l’edilizia pubblica, ed erano in stato di abbandono da tempo. Un problema diffuso a Milano, dove oggi circa sedicimila case popolari sono vuote. Da quell’occupazione nacque il centro sociale Lambretta, che è diventato un importante spazio di attivismo culturale, sociale e politico, con un forte impegno per la solidarietà e il mutualismo. E che ha vissuto una storia travagliata, fatta di cinque occupazioni e quattro sgomberi.

“Quando ci hanno mandato via l’ultima volta ci siamo interrogati sul da farsi. Il Lambretta era diventato una cosa complessa, avevamo bisogno di dare stabilità alle nostre attività mutualistiche”, spiega Federico, uno dei ragazzi del collettivo. Si è deciso allora di fondare un’associazione, Mutuo soccorso Milano, e di partecipare ai bandi per l’assegnazione di spazi. Dopo una lunga trattativa con il comune, il Lambretta ha preso in affitto uno spazio in via Rizzoli, dove ha riaperto in primavera.

“Oggi è sempre più difficile trovare luoghi rispetto all’epoca d’oro dei centri sociali, quella della città industriale che si ritirava. I privati si stanno riprendendo quegli spazi per creare valore e per le realtà come noi è sempre più difficile fare dei progetti”, continua Federico. “Quella della sede regolarizzata è la strada migliore per noi, quella che ci ha permesso di continuare a esistere. Ma non è necessariamente l’unica via possibile per i centri sociali”.

Chi ha smesso di esistere, a Milano, è Macao. Nato nel 2012 dall’occupazione della Torre Galfa, poi trasferito in viale Molise, è stato uno degli spazi di aggregazione e condivisione più importanti in città. Nell’area dismessa lì vicino è nato nel tempo un grosso insediamento di lavoratori sfruttati, migranti irregolari e altre persone provenienti da contesti di fragilità, e l’area si è trasformata in uno spazio di conflitto, con violenze e furti, mentre politici come Matteo Salvini arrivavano lì davanti per denunciare la situazione e fare campagna elettorale. Per Macao non ci sono state più le condizioni per andare avanti, ma in realtà le difficoltà arrivavano già da prima, con minacce di sgombero sempre incombenti.

“Quella di Macao è un po’ la stessa storia del Leoncavallo, una storia sospesa”, spiega Emanuele Braga, tra i fondatori del centro. Negli anni Macao ha partecipato alle manifestazioni d’interesse per prendere in gestione lo spazio e perfino per comprarlo. Ma la situazione non si è mai sbloccata. “Abbiamo sempre proposto accordi al comune, ma la condizione per noi è che i centri sociali non siano considerati attività commerciali”, continua. “Serve una politica pubblica che tratti questi spazi come un valore per la città, alla pari di un museo, mettendoli nelle condizioni di funzionare attraverso la propria autorganizzazione. Se si fosse ragionato in questo modo si sarebbero sbloccate un sacco di cose a Milano”.

Tra i centri sociali milanesi c’è chi negli anni ha continuato a resistere scegliendo la via dell’occupazione, come forma di riappropriazione di spazi abbandonati sottratti alla cittadinanza e senza cercare compromessi. C’è chi invece ha scelto la via della regolarizzazione, cercando o trovando accordi con le istituzioni e con le proprietà in modo da stabilizzare le sue attività. E c’è chi ha immaginato nuove forme di appropriazione degli spazi, con il metodo dell’acquisto collettivo già sperimentato altrove. Strategie differenti per un unico fine, garantire la sopravvivenza di luoghi chiave nel tessuto urbano.

“I centri sociali probabilmente cambieranno e questo a Milano in parte già si sta vedendo”, spiega Marco Philopat, scrittore e tra i fondatori negli anni ottanta del centro sociale Virus. In città ne sono nati sempre meno e oggi a resistere sono una quindicina, mantenendo la funzione storica di contenitore in cui far dialogare le persone. “I centri sociali continueranno a essere un punto di riferimento. Allo stesso tempo si svilupperanno altre e inedite forme di resistenza a partire dalle periferie, quelle che tengono in piedi questa città. Se la repressione avanza, bisogna in qualche modo reinventarsi e ora ci sarà da trovare alleanze più orizzontali e più larghe possibile”.

Il 6 settembre centri sociali, associazioni, sindacati e tante altre realtà da tutta Italia sfileranno a Milano in risposta allo sgombero del Leoncavallo, in difesa degli spazi pubblici e sociali autogestiti e contro la speculazione edilizia. Una manifestazione che si annuncia storica, come quella dopo lo sgombero del centro sociale nel 1994, da cui nacque poi l’esperienza di via Watteau. A dimostrazione che possono morire i luoghi, ma non le idee.

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