Nell’autunno del 2011 ero seduta in un ristorante di Atene con una mia vecchia conoscenza, un uomo cosmopolita che lavora nel mondo dell’arte. La crisi aveva cominciato a farsi sentire, anche se non avevamo idea di quanto sarebbe stata disastrosa. Da piazza Syntagma arrivavano gli slogan di una manifestazione. C’era uno sciopero generale contro il primo memorandum d’intesa con la troika. “Non mi sento vicino a queste persone”, disse il mio commensale. “È in corso una guerra civile. Ancora non si combatte nelle strade, ma ci arriveremo. E io non riconosco queste persone come miei connazionali”.

In questi giorni convulsi tutto è incerto. Le banche sono chiuse, i mercati stanno crollando e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha dichiarato il suo amore per il popolo greco.

Nel frattempo lo scontro interno al paese si inasprisce ora dopo ora. Se c’è una cosa che ha tenuto insieme la Grecia nella discesa agli inferi degli ultimi cinque anni è stata la speranza di una soluzione senza rotture, il sogno di un’Europa diversa. I greci si sono aggrappati a questa speranza anche se due governi (uno di centrosinistra e l’altro di centrodestra) sono caduti perché non erano riusciti ad applicare le misure imposte dai creditori. Certo, alcuni elettori di Syriza sono sempre stati pronti ad accettare la rottura, ma è stata la speranza di un compromesso a far vincere la sinistra radicale, che aveva promesso di mettere fine all’austerità.

Per quanto inefficaci e ingenui, i fallimentari tentativi di Syriza di arrivare a un compromesso hanno fatto capire che il sogno era solo un’illusione. Non c’è mai stata nessuna possibilità di compromesso. Le ultime proposte presentate dal governo greco sono tornate indietro piene di correzioni in rosso, come un compito in classe fatto male. E oggi perfino i commentatori moderati pensano che il vero obiettivo dei creditori sia sempre stato un cambio di governo ad Atene, e che l’unica via d’uscita sia l’uscita dall’euro.

Il fronte del no ha sposato la retorica del nazionalismo, con la sua idea romantica dell’eroica ribellione contro il più forte

Alla fine l’elastico si è rotto e il paese si è spaccato in due. Un paio di settimane fa due manifestazioni di segno opposto hanno cominciato a delineare i rispettivi campi. Da una parte Syriza ha chiamato a raccolta i nemici dell’austerità, molti dei quali hanno una posizione critica nei confronti del governo. Dall’altra parte il movimento per restare in Europa e favorevole a un accordo con i creditori internazionali si è rapidamente trasformato in una mobilitazione contro l’esecutivo, organizzata, tra gli altri, dai leader dell’opposizione. Schiacciato tra questi due schieramenti, il pensiero indipendente diventa sempre più difficile. Per alcuni la scelta è ovvia, ma altri si sentono scissi tra l’identità greca e quella europea.

Questa spaccatura non è facile da rappresentare. In parte è trasversale alle classi sociali: nel fronte del no all’accordo ci sono i poveri delle città e delle campagne, i disoccupati e i vecchi borghesi che sono stati colpiti dalla crisi e non hanno più niente da perdere, mentre il campo del sì è popolato dai ricchi, dalle persone con legami personali e commerciali all’estero, dai giovani laureati e dagli imprenditori. In un certo senso la frattura ignora anche le ideologie, separando chi pensa che la Grecia possa sopravvivere fuori dall’euro da chi è convinto che l’uscita sarebbe un disastro inimmaginabile. E segue misteriosi percorsi legati alla cultura e alla storia familiare, alle identità e alle appartenenze locali.

Il fronte del no ha sposato la retorica del nazionalismo, con la sua idea romantica dell’eroica ribellione contro il più forte. Dopo l’annuncio del referendum i ministri hanno usato parole come dignità, umiliazione, eroismo e orgoglio. Alla domanda di un giornalista sul significato del voto per il no, la presidente del parlamento Zoe Konstantinopoulou ha ricordando “lo storico no del popolo greco”, quello rivolto dal dittatore Ioannis Metaxas alla richiesta di Mussolini di acconsentire all’occupazione di alcune zone della Grecia. Panos Kammenos, ministro della difesa e leader del partito nazionalista Anel, al governo con Syriza, ha sottolineato che il nazionalismo è il terreno su cui destra e sinistra si possono incontrare.

I sostenitori del sì non temono solo di perdere i loro privilegi (come sostiene qualcuno a sinistra) ma anche di essere costretti ad abbandonare l’Europa e la sua stabilità per tornare nell’incubo della storia greca

Questa melodia marziale nasconde cinque anni di sofferenza, la vergogna della povertà, la disperazione per un futuro senza prospettive. La retorica è un’armatura da indossare prima di compiere il salto da un male noto a uno sconosciuto. Nei giorni scorsi una persona conosciuta solo su Twitter mi ha inviato una valanga di messaggi privati raccontandomi che ha paura per i suoi figli, che la moglie continua a svegliarsi di soprassalto nel cuore della notte e di un dipendente della scuola locale che ha chiesto al preside un aiuto per comprare da mangiare per il figlio. L’uomo mi ha detto che i greci sanno benissimo che il no avrà conseguenze negative, ma non riescono a pensare di votare sì.

Spinti dalla rabbia nei confronti di Syriza, i sostenitori del sì sono altrettanto spaventati. Non temono solo di perdere i loro privilegi (come sostiene qualcuno a sinistra) ma anche di essere costretti ad abbandonare l’Europa e la sua stabilità per tornare nell’incubo della storia greca. La tendenza a incolpare Syriza per tutto ciò che è andato storto e il rifiuto di ammettere le colpe dei creditori nasce in parte dalla paura di un ritorno a un passato violento: la guerra civile degli anni quaranta, i decenni di repressione, la dittatura. L’ingresso nell’Unione europea nel 1981 ha segnato la fine di quegli anni terribili e ha aperto le porte alla democrazia, ai valori dell’illuminismo, ai diritti umani. Il denaro arrivato dalle casse continentali ha guarito le ferite di quel lungo conflitto.

Pochi immaginavano che si sarebbe arrivati a questo punto. Ora, a meno di un miracolo, bisognerà fare una scelta drammatica: anni di lenta asfissia o un salto nel buio. Impossibile prevedere cosa succederà. L’Europa un tempo era un continente, una cultura, una tradizione. Nel tentativo di porre fine alle guerre interne, è diventata un club a numero chiuso. E oggi si comporta come tale, privilegiando i numeri rispetto ai popoli. Come in fondo al vaso di Pandora, una piccola speranza rimane: forse l’Europa imparerà da questa catastrofe. La Grecia, invece, resterà divisa per molti anni.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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