I luoghi che abitiamo condizionano un bel po’ il nostro spazio mentale e l’immaginario che orienta le nostre scelte. Per questo, a chi è capitato di nascere in un quartiere che somiglia a un ghetto o in un territorio isolato e degradato, pensare con libertà al proprio futuro risulta assai difficile, perché il paesaggio che lo circonda sembra ricordargli ogni giorno che il suo destino non può che essere da cittadino di serie b.
La scuola pubblica, che costituzionalmente dovrebbe garantire a tutte e tutti le maggiori opportunità di crescita e una libertà di scelta più vasta possibile, da sola non ce la fa. “Quello che faticosamente costruiamo la mattina, spesso il territorio lo disfa il pomeriggio e la sera”, dice Antonella Di Bartolo, dirigente scolastica nel quartiere dello Sperone a Palermo. Ma poiché per etica e carattere non accetta le ingiustizie, afferma convinta che “la scuola ha bisogno delle collaborazioni più diverse perché istruire ed educare ragazze e ragazzi non basta, se non si innescano processi di trasformazione della città, perché ci sono quartieri in cui la scuola è l’unica piazza, altre non ce ne sono”.
Questa estate, per la prima volta, un documento del ministero dell’istruzione auspicava la creazione dei Patti educativi di comunità. Una proposta dettata probabilmente dall’urgenza di reperire nuovi spazi per affrontare la difficile riapertura delle scuole in tempo di pandemia, che ha tuttavia una ricca storia alle spalle e che secondo molti è una prospettiva necessaria per tentare di arginare e contrastare la crescita delle povertà educative.
Ne parlo con Andrea Morniroli della cooperativa Dedalus di Napoli, coordinatore del gruppo che ha dato vita al forum Disuguaglianze e diversità e creatore con altri della rete che mette insieme altre nove reti di associazioni. Realtà assai diverse ma con in comune l’obiettivo di migliorare le condizioni dell’infanzia e dell’adolescenza, del tutto trascurate nei mesi della reclusione domestica.
Cinque punti imprescindibili
“Durante il lockdown, con Raffaela Milano, che dirige i programmi Italia-Europa di Save the Children, ci siamo accorti che associazioni diverse avevano prodotto documenti che in gran parte si sovrapponevano. Abbiamo pensato dunque che era possibile concentrarci su ciò che le univa per raccogliere forze sufficienti a far sentire la nostra voce oltre i luoghi dove interveniamo direttamente, intrecciando idee ed esperienze con l’ambizione di provare a dare suggerimenti e incidere sulle scelte politiche”.
A fine primavera è nata così la “rete delle reti”. EducAzioni raccoglie oltre cinquecento associazioni, sindacati e soggetti della società civile e degli ordini professionali impegnati nei territori. Si va dall’Azione cattolica ad ActionAid, da Libera a Legambiente. Tra le reti ci sono l’Alleanza per l’infanzia, il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza, il forum Education alla Convention on the rights of the child, il tavolo Saltamuri.
Al termine di un lavoro di scambio e di sintesi le nove reti hanno ritenuto imprescindibile cinque punti: il rafforzamento dei nidi e dell’educazione precoce, la promozione di comunità in grado di farsi carico dell’educazione per sostenere l’apertura in ogni senso delle scuole, il contrasto alla dispersione scolastica, investimenti cospicui in istruzione, formazione e ricerca per arrivare, infine, a elaborare e sostenere un piano strategico nazionale per l’infanzia e l’adolescenza.
Un’alleanza contro le discriminazioni
Nei mesi di non scuola l’aumento delle discriminazioni è stato impressionante. Il numero di bambine e bambini che vivono in stato di povertà assoluta supera il milione e duecentomila. E poiché nei quartieri dove è più difficile vivere tanti si perdono, ci sono numerose associazioni di base che con le scuole e i servizi territoriali lavorano da anni per arginare il fenomeno, sperimentando relazioni integrate da cui oggi si può imparare. Se le si osserva e valorizza si possono trovare metodi e azioni per permettere ai Patti educativi comunitari di non restare una petizione di principio.
“Oltre alla dispersione vera e propria c’è da considerare anche una dispersione che non compare nelle statistiche. In certi istituti tecnici o professionali capita che nelle prime classi delle superiori risultino iscritti in 25 – perché c’è l’obbligo fino a 16 anni – ma che a frequentare realmente non siano più di tredici o quattordici ragazzi. Questo vuol dire che la dispersione scolastica reale supera di gran lunga il quattordici rilevato e che in troppi territori del nostro paese, non solo al sud, arrivi a cifre spaventose che sfiorano il quaranta o cinquanta per cento”.
Ascoltando la denuncia di Morniroli, ciò che più sconforta è l’intollerabile aspetto ereditario della povertà educativa. Anche tra le ragazze e i ragazzi che ottengono i risultati migliori la selezione di classe rimane implacabile: tra i più ricchi il 60 per cento accede ai licei, tra i più poveri ci arriva meno del 40 per cento.
A volte si tratta di una forma di autoghettizzazione perché troppo spesso nella testa di genitori e insegnanti – e di conseguenza in quella di ragazze e ragazzi – è profondamente introiettata l’idea che per nascita non si sia adatti a un certo tipo di scuola. “Questo ci ha portato a intensificare il nostro impegno nell’orientamento, che non va limitato a informazioni da dare alla fine della terza media. Bisogna coinvolgere i genitori il prima possibile, aiutandoli a essere più aperti nel seguire inclinazioni e capacità dei loro figli. È stato anche utile coinvolgere i docenti delle superiori, perché siano loro ad andare nelle scuole medie, rompendo muri apparentemente invalicabili”.
Interrompere un’eredità pesante
Ora, poiché la dispersione dipende da molti fattori, è su diversi fronti che bisogna intervenire, creando nei quartieri più opportunità possibili di fruizione e creatività culturale, perché laddove si produce o registra musica, si fa teatro e si possono sperimentare diversi linguaggi, è più facile coinvolgere ragazze e ragazzi, e dare senso alla costruzione di una comunità operosa.
Ma per realizzare tutto questo la scuola deve essere un luogo aperto, capace di costruire con pazienza, giorno dopo giorno, comunità educanti, contando sulle più ampie collaborazioni in modo non strumentale.
C’è chi guarda con sospetto a questi intrecci, temendo una crescente privatizzazione dell’offerta educativa, com’è accaduto con pezzi significativi della sanità in Lombardia e non solo. Ma con pragmatismo dobbiamo riconoscere che là dove volontariato, privato sociale e terzo settore hanno saputo collaborare con la scuola, si sono ottenuti i risultati migliori.
La scuola pubblica deve restare il centro di ogni azione, certo, ma non può che giovarsi di un intreccio proficuo tra istruzione formale e non formale, capace di arginare la desertificazione culturale. Patti di collaborazione efficaci si possono stipulare solo tra soggetti che riconoscono pienamente i ruoli reciproci. Anche perché, precisa Morniroli, “le reti sono fiori di serra, non fiori di campo, e hanno bisogno di continua cura e manutenzione”.
“Qui a Napoli, grazie all’intuizione dell’assessore alla scuola del comune Annamaria Palmieri, con cui collaboro da sette anni, abbiamo dato vita a un lungo percorso di coprogettazione attraverso laboratori nelle aree più segnate da fenomeni di povertà educativa e da fallimenti formativi. Le scuole, i servizi sociali del comune, il terzo settore e le famiglie sono state chiamate a definire in modo condiviso finalità degli interventi, modalità operative, metodi di lavoro e uso delle risorse, declinando il tutto sulla base dei bisogni che emergevano nelle lunghe discussioni”.
Gli esempi del passato
Andrea Morniroli lavora a Napoli dal 1995 ma viene da Ivrea e si è formato sul campo, cominciando a 19 anni a lavorare in un progetto sperimentale di integrazione scolastica rivolto a ragazzi portatori di disabilità. Promosso dalla provincia di Torino, il piano si fece carico di aiutare ottocento famiglie, assumendo operatori che permettessero ai loro figli di frequentare la scuola, quando ancora non c’erano insegnanti di sostegno a sufficienza.
Ascoltando le sue parole risuona l’eco della militanza cristiana di base e dell’utopia concreta che Adriano Olivetti sperimentò efficacemente a Ivrea nel dopoguerra, costruendo una fabbrica trasparente ricca di una biblioteca sempre aperta agli operai e riqualificando luoghi della città improntandoli alla bellezza e alla costruzione di comunità di base fondate su un’attenzione all’arte e alla cultura.
“In verità non stiamo inventando niente”, prosegue Morniroli. “Nei rioni e nei quartieri dove c’è più povertà educativa dobbiamo ripartire da consultori popolari capaci di non lasciare sole le famiglie schiacciate da bisogni materiali urgenti. Bisogna anche costruire presidi territoriali e azioni sociali in grado di accompagnare i più fragili nel percorso scolastico. C’è bisogno di più nidi e dell’apertura di spazi che favoriscano la socialità e il sostegno all’infanzia e all’intera comunità”.
Napoli è la città dove si è sviluppata di più la generosa sperimentazione dei maestri di strada, promossa da Marco Rossi Doria e Cesare Moreno, la cui tensione a ripensare gli spazi dell’educare è testimoniata da un libro imprescindibile di Carla Melazzini, protagonista di quella esperienza. Nelle pagine di Insegnare al principe di Danimarca, Melazzini racconta della necessità di dar vita a “una didattica itinerante lungo strade che non sono quelle della propria nicchia antropologica, ma sono tutte le strade della città. Nessun percorso mentale di conoscenza fatto su libri e quaderni può essere innescato dentro aule scolastiche – almeno per i ragazzi come i nostri, ma non solo – se il cammino di piedi materiali su strade non conosciute non sblocca le emozioni da una paura paralizzante. (…) La didattica itinerante diventa (nel progetto Chance) materia curricolare per costruire competenze di cittadinanza, competenze professionali e competenze cognitive. In quest’ordine, perché le prime sono condizione e motore delle altre”.
La lunga strada della progettazione dal basso
“Per contrastare la povertà educativa il comune di Napoli investe ormai da tre anni 400mila euro all’anno nei laboratori di coprogettazione. L’aspetto più interessante sta in una cessione di potere da parte dell’amministrazione e nella capacità di accompagnare processi complessi. Nel bando che abbiamo elaborato in sei mesi di lavoro con riunioni ogni due settimane, non abbiamo fissato gli obiettivi a monte, ma attivato un percorso di progettazione partecipata che ha coinvolto in una relazione di pari dignità tutti i diversi attori, pubblici e privati, che abitano e vivono la scuola e allo stesso tempo costruiscono la comunità educante intorno a essa, definendo insieme le azioni da intraprendere ma anche l’uso delle risorse”.
L’esperimento di Napoli è particolarmente significativo e andrà monitorato con attenzione perché, per garantire un uso intelligente dei fondi che speriamo arrivino in quantità nei territori più a rischio, è necessario calibrare i progetti a partire dai bisogni concreti dei residenti, specialmente quelli di bambine e bambini, e delle persone più fragili, più che dalle aspettative delle associazioni e delle cooperative.
Il contrario della città non è la campagna, ma il deserto. E nel deserto culturale che caratterizza troppe periferie e zone interne del nostro paese non c’è possibilità di sconfiggere la povertà educativa se non si comincia a smuovere e rendere fertile il terreno sociale, intrecciando le azioni e le attività più diverse. Ecco perché dare vita e continuità a Patti educativi di comunità sensati ed efficaci è una delle maggiori sfide culturali, politiche e sociali per chi creda all’educazione come motore di crescita e conversione ecologica, oggi più che mai necessaria.
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