Quando Umberto Eco ha cominciato a immaginare il suo primo romanzo, quello che sarebbe diventato Il nome della rosa, sapeva che sarebbe stato un giallo e che i gialli hanno bisogno di essere ambientati in un luogo chiuso, come nei libri di Agatha Christie. Forse non un luogo angusto come il treno di lusso di Assassinio sull’Orient Express o la feluca di Poirot sul Nilo, ma qualcosa di simile alla villa isolata di Soldier Island di Dieci piccoli indiani.

All’inizio Eco pensava a un monastero di oggi, isolato da una contemporaneità violenta e convulsa (lavorava al Nome della rosa in pieni anni di piombo), poi si è fatta largo l’idea del medioevo, un periodo storico che come studioso conosceva bene e che gli permetteva di sperimentare livelli di lettura diversi, gustosi giochi linguistici ed erudite digressioni.

La sua abbazia Eco l’ha immaginata e disegnata, poi come in uno storyboard o in un fumetto ha disegnato anche i vari personaggi del suo giallo: il suo Sherlock Holmes, il monaco Guglielmo da Baskerville, e il suo Watson, il giovane Adso da Melk; e poi Abbone da Fossanova, l’abate; Jorge da Burgos, l’anziano e cieco custode dei segreti dell’abbazia; il miniatore Adelmo, il primo morto; e Venanzio, Berengario, Severino… via via fino all’inquisitore Bernardo Gui e l’anonima (ma importantissima) ragazza del villaggio che finirà processata come strega.

Il nome della rosa nasce dunque come un teatrino, una scatola magica in cui tutti questi personaggi inventati e disegnati a penna da Eco si muovono, parlano, agiscono, tramano, uccidono e sono uccisi. La scrittura fa il resto e il giallo alla Dieci piccoli indiani diventa un’impalcatura per parlare di linguaggio (Eco era anzitutto un semiologo), libri, trasmissione del sapere, religione, misticismo medievale, delicati equilibri di potere, politica, passioni, gelosie e peccato. Il romanzo, uscito nel 1980 per Bompiani (e oggi edito dalla Nave di Teseo) fu un successo editoriale senza precedenti.

Tutti nei primi anni ottanta hanno comprato Il nome della rosa e in molti lo hanno anche letto: questo divertente e a tratti ostico thriller medievale è diventato un po’ a sorpresa un grande romanzo popolare. La vocazione teatrale, cinematografica e televisiva del Nome della rosa è chiara da subito: nel 1986 il regista francese Jean-Jacques Annaud ne ha tratto un film di successo con Sean Connery e nel 2019 è stata realizzata una miniserie tv con John Turturro nel ruolo di Baskerville e Rupert Everett in quello dell’inquisitore. E poi Il nome della rosa è diventato anche una graphic novel di Luciano Manara, un videogame spagnolo e un pezzo metal degli Iron Maiden (The sign of the cross). Insomma il libro-labirinto di Eco, romanzo postmoderno per eccellenza, è diventato anche la prima opera letteraria consapevolmente multipiattaforma: chissà se senza il nobile precedente del Nome della rosa la saga di Harry Potter avrebbe avuto lo stesso tentacolare sviluppo.

Il trailer del Nome della rosa di Francesco Filidei in scena al Teatro alla Scala di Milano

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Il successo dell’opera lirica di Francesco Filidei, andata in scena il 27 aprile in prima assoluta, al Teatro alla Scala chiude un cerchio. O forse, meglio, apre un’altra fase del ciclo vitale del Nome della rosa. Francesco Filidei (52 anni) ha cominciato a lavorare a un’opera lirica liberamente tratta dal romanzo di Eco nel 2020. Filidei dice che quello che lo affascinava come compositore e come operista (Il nome della rosa è la sua terza opera lirica) era lavorare su un testo così popolare. L’Italia non ha mai avuto un vero, grande romanzo popolare – ci ha spiegato – abbiamo avuto I promessi sposi, certo, ma non abbiamo avuto romanzieri come Victor Hugo o Alexandre Dumas. Però abbiamo avuto il melodramma, che è stato il nostro vero, grande epos popolare. Rossini, Verdi e Puccini sono stati non solo grandi compositori ma anche grandi narratori.

Filidei, che è stato allievo del compositore siciliano Salvatore Sciarrino, si considera un convinto pucciniano. Il giorno della conferenza stampa per Il nome della rosa, nel ridotto del Teatro alla Scala, era seduto sotto a un enorme busto del compositore di Tosca e Turandot, e prima di prendere posto si è voltato e ha rivolto un buffo cenno di saluto, appena percettibile per chi era lì, al suo ingombrante predecessore. Il nome della rosa ha poco di pucciniano nella musica (qualche interpolazione o citazione qua a là, per rimanere fedele alla vocazione ipertestuale e postmoderna del romanzo di Eco), ma ha molto di pucciniano nella struttura del racconto e nella gestione del tempo.

Dal libro-labirinto Filidei ha creato un’opera-labirinto: i due atti sono speculari e divisi ciascuno in dodici scene più un prologo del primo atto e un Ultimo folio del secondo. Le scene si sviluppano a ventaglio per poi richiudersi sul finale, e ognuna è dominata da una nota: questa struttura ha costretto i librettisti (lo stesso Filidei con Stefano Busellato, Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti) a prendersi diverse libertà sul testo di Eco, ma il risultato è una partitura avvincente e priva di lungaggini: la musica riesce ingegnosamente sia a seguire il filo dell’indagine di Guglielmo e Adso sia a rendere atmosfere e carattere dei personaggi.

La prima del Nome della rosa, Milano, 27 aprile 2025. (Marco Brescia e Rudy Amisano, Teatro alla Scala)

La grande domanda che si è posto Filidei al momento di mettere mano all’opera è: perché questi monaci cantano? Perché Il nome della rosa è materia per un’opera lirica? La risposta la danno l’ambientazione medievale e la partitura: l’abbazia è un luogo di preghiera e la preghiera è canto. Filidei scrive meravigliosamente sia per il coro – quasi sempre presente in scena in una sorta di cantoria che sovrasta i personaggi – sia per le voci soliste. E con le voci si è decisamente divertito: Il nome della rosa ha un cast all-star in cui ogni personaggio ha un suo timbro e un suo colore: Guglielmo da Baskerville è il baritono Lucas Meachem e Adso è un mezzosoprano en travesti, forse la parte vocalmente più impervia della partitura, affrontata con grazia, pathos ed eleganza da Kate Lindsey, soprattutto nelle scene del risveglio sessuale del giovane frate con l’anonima ragazza del villaggio.

La voce di Adso da vecchio invece è evocata da un coro misto dietro le quinte che sembra parlarci da una distanza siderale. La terza vittima, l’aiuto bibliotecario Berengario da Arundel, è il controtenore Carlo Vistoli, anche lui alle prese con un’aria virtuosistica e impegnativa e l’inquisitore ha la voce di contralto di Daniela Barcellona. Non mancano poi i bassi buffi (Fabrizio Beggi nel ruolo di Abbone), i tenori (Giorgio Berrugi nel ruolo di Remigio e Leonardo Cortellazzi in quello di Venanzio).

Particolarmente interessante la vocalità del baritono Roberto Frontali nel difficile ruolo di Salvatore, il dolciniano pentito che parla quello strano latino maccheronico ibridato con i vari dialetti che ha incontrato nei suoi vagabondaggi di eretico braccato. Al suo personaggio corrisponde anche una musica sghemba, grottesca e piena di astrusi abbellimenti percussivi. In generale la musica del Nome della rosa è ricchissima di colori e di dettagli strumentali. L’organico delle percussioni è variegatissimo: sentiamo crotali, raganelle, nacchere e fruste ma anche fogli di plexiglass, campane di bambù, pagine di giornale, libri, posate, piatti e perfino un giocattolo di gomma, immagino una paperella, che non sono riuscito a distinguere nella buca dell’orchestra.

Ai colori dell’orchestra corrispondono i colori del bello spettacolo di Damiano Micheletto che ci immerge in un medioevo fantastico, in cui i fregi dei portali e le miniature dei codici si animano e prendono vita, con demoni che sembrano un ibrido tra Hieronymus Bosch e il Giotto della Cappella degli Scrovegni, e danzatori, mimi e macchinisti vestiti di nero che animano una scena in grado di essere sempre mobile e varia, come la musica.

I ricchi costumi di Carla Teti contribuiscono a rendere l’idea così cara a Umberto Eco di un medioevo tutt’altro che buio ma pieno di bagliori, di colori e di meraviglia. La scenografia di Paolo Fantin e le luci di Fabio Barettin riescono a rendere l’idea dell’abbazia e soprattutto della biblioteca come labirinto immaginato, ma mai davvero esplorato in concreto. La struttura esagonale del labirinto la vediamo in alto ed è fatta di tubi luminosi da cui calano sulla scena pareti impalpabili di velo, che delimitano spazi, corridoi, celle e sale.

Quella del 27 aprile è stata una serata importante: gli oltre dieci minuti di applausi di un teatro tutto esaurito per un’opera contemporanea in prima assoluta dimostrano che i teatri d’opera non sono destinati, come teme qualcuno, a trasformarsi in musei o, peggio, in parchi tematici di lusso per turisti. Basta credere, come fanno Francesco Filidei, Damiano Micheletto e tutti gli artisti coinvolti in questa operazione, nell’opera lirica come grande racconto. Si può fare.

Il nome della rosa
di Francesco Filidei
Direttore: Ingo Metzmacher
Regia: Damiano Micheletto
Milano Teatro alla Scala, in scena fino al 10 maggio 2025

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