Noi siamo cresciuti con internet e su internet. È questo a renderci diversi, è questa la differenza fondamentale, per quanto sorprendente dal punto di vista di chi ha qualche anno di più: noi non navighiamo e internet per noi non è un luogo o uno spazio virtuale. Internet per noi non è qualcosa di esterno alla realtà, ma ne è una parte, uno strato invisibile ma sempre presente e strettamente intrecciato all’ambiente fisico. Noi non usiamo internet, viviamo su internet e ci muoviamo con lei. Siamo la generazione digitale.

Se dovessimo narrare il nostro romanzo di formazione a voi, la generazione analogica, potremmo dire che ogni esperienza che ci ha formato ha naturalmente qualche aspetto legato a internet. In rete abbiamo incontrato amici e ci siamo fatti dei nemici, abbiamo scopiazzato per gli esami, abbiamo organizzato feste e gruppi di studio, ci siamo innamorati e lasciati. Il web per noi non è una tecnologia che abbiamo dovuto imparare a conoscere e di cui ci siamo impadroniti.

Il web è un processo che c’è e si trasforma costantemente sotto i nostri occhi, con noi e attraverso di noi. Le tecnologie appaiono per poi dissolversi ai margini, i siti nascono, prosperano e muoiono, ma il web continua, perché il web siamo noi, che comunichiamo nella maniera che ci è naturale, con un’intensità e un’efficienza senza precedenti nella storia dell’umanità.

Abbiamo imparato ad accettare che troveremo molte risposte anziché una sola, e a scartare quelle che ci sembrano meno credibili

Cresciuti sul web, noi pensiamo in modo differente. Per noi la capacità di trovare informazioni è elementare quanto lo è per voi quella di trovare una stazione ferroviaria o un ufficio postale in una città sconosciuta. Quando vogliamo sapere qualcosa – i primi sintomi della varicella, i motivi dell’affondamento dell’Estonia, o perché la bolletta dell’acqua è troppo cara – prendiamo le misure con la certezza di chi guida un’auto con navigatore satellitare. Sappiamo che troveremo l’informazione che cerchiamo su molte fonti, sappiamo come arrivarci, sappiamo come valutare la loro attendibilità.

Abbiamo imparato ad accettare che troveremo molte risposte anziché una sola, e da queste possiamo dedurre la versione più probabile scartando quelle che ci sembrano meno credibili. Selezioniamo, filtriamo, ricordiamo e siamo disposti ad abbandonare le informazioni che abbiamo in favore di altre aggiornate e migliori, se ne troviamo.

Per noi il web è una sorta di memoria esterna condivisa. Non dobbiamo ricordare dettagli superflui: date, calcoli, formule, nomi di strade, definizioni particolareggiate. Ci basta avere un riassunto, l’essenziale per elaborare le informazioni e riferirle ad altri. Se ci servono i dettagli, possiamo recuperarli nel giro di pochi secondi.

Cultura globale
In modo simile, non dobbiamo essere esperti di tutto, perché sappiamo dove trovare persone di cui ci fidiamo, specializzate in quel che non conosciamo. Persone che metteranno a disposizione il loro sapere non per profitto, ma per la convinzione condivisa che l’informazione esiste come flusso, che vuole essere libera e che tutti ricaviamo un beneficio dal suo scambio ogni giorno studiando, lavorando, risolvendo problemi, coltivando degli interessi. Sappiamo competere e ci piace farlo, ma la nostra competitività, il nostro desiderio di distinguerci, si basa sulla conoscenza e sulla capacità di interpretare ed elaborare le informazioni, non sul loro monopolio.

Partecipare alla vita culturale per noi è una cosa normale: la cultura globale è alla base della nostra identità e serve a definirci più delle tradizioni, delle narrazioni storiche, dello status sociale, delle genea­logie e perfino della lingua che usiamo.

Dall’oceano degli eventi culturali peschiamo quelli che ci piacciono di più, interagiamo con loro, li recensiamo, salviamo le nostre recensioni su siti creati per questo e che ci danno suggerimenti su altri dischi, film e giochi che potrebbero piacerci. Alcuni film, telefilm e video li guardiamo insieme a colleghi e amici di tutto il mondo, e il piacere che ne ricaviamo è condiviso soltanto con un gruppo ristretto di persone che forse non incontreremo mai di persona. Per questo sentiamo che la cultura sta diventando allo stesso tempo globale e individuale. Per questo vogliamo che ci lasci libero accesso.

Siamo capaci di mostrare gratitudine all’artista e anzi vogliamo ricompensarlo, ma gli obiettivi di vendite delle multinazionali non c’interessano

Questo non significa pretendere che tutti i prodotti culturali siano disponibili gratis, anche se noi, quando creiamo qualcosa, di solito ci limitiamo a metterla in circolazione. Anche se le tecnologie di qualità audio e video una volta riservate ai professionisti sono sempre più accessibili a tutti, sappiamo che la creatività richiede sforzi e investimenti.

Siamo disposti a pagare, ma i prezzi imposti dai distributori ci sembrano esorbitanti. Perché dovremmo pagare per la distribuzione di informazioni che si possono copiare facilmente e in modo perfetto, senza perdere nulla della qualità originale? Se stiamo comprando solo le informazioni, vogliamo che il prezzo sia onesto.

Siamo disposti a pagare di più, ma in quel caso ci aspettiamo un valore aggiunto: una confezione interessante, un gadget, una qualità più alta, la possibilità di riprodurla immediatamente, senza aspettare che il file si scarichi sul nostro computer. Siamo capaci di mostrare gratitudine all’artista e anzi vogliamo ricompensarlo (da quando il denaro non è più fatto di banconote e si è trasformato in una serie di numeri sul monitor, i pagamenti sono diventati una sorta di scambio simbolico che dovrebbe far contente entrambe le parti), ma gli obiettivi di vendite delle multinazionali non c’interessano. Non è colpa nostra se la loro industria ha perso senso nella sua forma tradizionale, e se invece di accettare la sfida e cercare di raggiungerci con qualcosa di nuovo, hanno deciso di difendere le loro idee anche se sono invecchiate.

C’è un’altra cosa importante: non vogliamo pagare per avere i nostri ricordi. I film che ci ricordano l’infanzia, la musica che ci ha accompagnato dieci anni fa e cose simili, nella memoria della rete sono semplici ricordi. Ricordarli, scambiarli e svilupparli per noi è naturale quanto per voi ripensare a Casablanca. In rete troviamo i film che guardavamo da bambini e che facciamo vedere ai nostri figli, proprio come voi ci avete raccontato le favole di Cappuccetto Rosso e di Ric­cioli d’oro. Riuscite a immaginare che qualcuno possa dirvi che raccontandole avete infranto la legge? No. Neanche noi.

Nuova democrazia
Siamo abituati a pagare le bollette automaticamente, se il nostro conto in banca ce lo permette, sappiamo che per aprire un conto o cambiare l’operatore del cellulare basta compilare un modulo online e firmare un accordo consegnato da un corriere, e che perfino un viaggio dall’altra parte dell’Europa per una breve visita a una città straniera si può organizzare in due ore.

Siamo utenti dello stato, e per noi la sua interfaccia arcaica è sempre più insopportabile. Non capiamo perché la dichiarazione dei redditi richieda tanti moduli: solo nel primo ci sono più di cento domande. Non capiamo perché sia obbligatorio comunicare ufficialmente ogni volta che cambiamo indirizzo, come se i municipi non potessero comunicare tra loro senza il nostro intervento, e come se non fosse già abbastanza assurdo l’obbligo di avere un indirizzo permanente.

In noi non c’è traccia della deferenza passiva nei confronti dello stato che è ovvia per i nostri genitori, convinti che le questioni amministrative fossero della massima importanza, e che considerano l’interazione con lo stato qualcosa da celebrare. Non proviamo quel rispetto, che è radicato nella distanza tra il cittadino e le vette maestose in cui risiedono le classi dirigenti, a malapena visibili fra le nuvole. La nostra idea della struttura sociale è diversa: la società è una rete, non una gerarchia.

Siamo abituati alla possibilità di avviare un dialogo con chiunque, che sia un professore o una pop star, e non ci serve nessuna qualifica particolare legata al nostro status sociale. Il successo dell’interazione dipende solo dal fatto che il contenuto del nostro messaggio può essere considerato, da chi lo riceve, importante e degno di risposta. E se grazie alla collaborazione, al dibattito costante, alla difesa dei nostri punti di vista dalle critiche, siamo persuasi che le nostre opinioni possano essere semplicemente migliori, perché non dovremmo aspettarci un dialogo serio con il governo?

Non proviamo un rispetto quasi religioso per le istituzioni democratiche nella loro forma attuale, non crediamo che siano un veicolo di verità assolute e indiscutibili, come fanno quelli che considerano le istituzioni democratiche un monumento a se stesse, e anche a se stessi. A noi non servono monumenti. Ci serve un sistema che sia all’altezza delle nostre aspettative, fatto di trasparenza e competenza. E abbiamo imparato che il cambiamento è possibile: che ogni sistema inadeguato può essere, e di fatto è, sostituito da uno nuovo, più efficiente, più adatto ai nostri bisogni, più ricco di opportunità.

Quello a cui diamo più valore è la libertà: di parola, di accesso alle informazioni e alla cultura. Sentiamo che è la libertà a rendere il web quello che è, e che è nostro dovere proteggerla. Lo dobbiamo alle generazioni future tanto quanto la conservazione dell’ambiente.

Forse non gli abbiamo ancora dato un nome, forse non ne siamo ancora pienamente consapevoli, ma credo che ciò che vogliamo sia una vera, autentica democrazia. Qualcosa che, forse, è più di quanto sogni il vostro giornalismo.

(Traduzione di Francesco Graziosi)

Questo articolo è stato pubblicato il 16 marzo 2012 a pagina 96 di Internazionale con il titolo “Cresciuti con la rete”. Compra questo numero | Abbonati

La versione originale è uscita il 21 febbraio su The Atlantic con il titolo “We, the web kids”.

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