Oggi la musica vi sembra tutta uguale? Molti ascoltatori (e artisti) la pensano così. La preoccupazione generale è che i grandi successi siano sempre più banali, prevedibili e indistinguibili tra loro. E probabilmente è tutta una questione di soldi.

Le piattaforme di streaming come Spotify hanno trasformato la produzione, la distribuzione e l’ascolto della musica. Da tempo sembra che questi strumenti, invece di favorire l’espressione individuale, si concentrino interamente su obiettivi economici.

In una recente ricerca pubblicata dalla Cambridge university press abbiamo scoperto che negli ultimi vent’anni le canzoni più popolari hanno seguito una tendenza verso la standardizzazione e la ripetitività.

Negli anni quaranta filosofi come Theodor Adorno e Max Horkheimer sostenevano che la musica, come le catene di montaggio di Henry Ford, fosse ormai diventata un prodotto di massa pensato per un consumo passivo. All’inizio del nuovo millennio i supporti fisici continuavano a generare guadagni, mentre le grandi etichette discografiche controllavano gran parte del mercato e il potere promozionale era concentrato nelle mani delle radio, dei canali musicali televisivi e delle classifiche. Eppure, nonostante tutto, la musica era ancora varia dal punto di vista stilistico e geografico.

Nell’ultimo decennio, invece, c’è stata una trasformazione profonda. L’avvento delle piattaforme di streaming e il ruolo sempre più importante della finanza hanno stravolto l’industria culturale, cambiando non solo il modo in cui la musica è distribuita ma anche quello in cui è giudicata e prodotta.

Oggi l’industria musicale non si preoccupa più di vendere album o biglietti, ma si concentra solo sull’obiettivo di creare asset finanziari sotto forma di ascolti e abbonamenti, che promettono di generare dei guadagni. Questo cambiamento è innescato da due forze, conosciute come “piattaformizzazione” e “finanziarizzazione”. La piattaformizzazione si riferisce al dominio dei servizi di streaming, che sostanzialmente determinano il modo in cui la musica è prodotta e consumata. La finanziarizzazione, invece, consiste nel privilegiare i flussi di guadagni futuri rispetto a quelli immediati.

In questo nuovo panorama, il valore non è creato dalle vendite, ma dal controllo sui guadagni futuri. La conseguenza è che le canzoni, le playlist e le piattaforme diventano asset finanziari. Questa tendenza ha trasformato la musica in un prodotto d’investimento, mentre le playlist sono diventate strumenti per estrarre valore, curati nei minimi dettagli.

Spotify, per esempio, raramente genera profitti. Il suo modello di business si basa sulle aspettative di un aumento dei guadagni futuri. Questo aumento sarebbe il risultato di una crescita degli ascolti, con abbonamento e senza, e di conseguenza dei ricavi pubblicitari o di quelli generati dall’aumento delle tariffe mensili.

Gli investitori premiano Spotify non per quanto riesce a guadagnare oggi, ma per la sua ipotetica capacità di crescere. Per mantenere questo potenziale, però, la piattaforma deve massimizzare le riproduzioni e gli abbonamenti e rendere l’ascolto facile e senza interruzioni. È qui che entrano in gioco le playlist.

In passato la radio ricopriva un ruolo cruciale nel plasmare i gusti musicali del pubblico. Oggi lo stesso compito spetta alle playlist. Con circa sedici milioni di follower, l’influente playlist dell’artista hip hop Rap Caviar non si limita a riflettere i gusti degli ascoltatori, ma li influenza.

Per un musicista finire con una sua canzone in una playlist popolare può significare guadagnare migliaia di dollari, mentre restarne fuori equivale all’oblio. Questa pressione ha cambiato radicalmente il modo in cui è prodotta la musica.

Per cercare di essere inserita in una playlist, una canzone deve rispettare una serie di regole non scritte: dev’essere breve, contenere melodie orecchiabili e avere ritmi prevedibili. Le canzoni che si allontanano troppo da questo canone rischiano di essere saltate durante l’ascolto e dunque di non generare guadagni. Il risultato è che le playlist sono ottimizzate per l’ascolto prolungato e create per un consumo continuo.

Per verificare l’ipotesi secondo cui queste dinamiche stanno rendendo la musica tutta uguale, abbiamo condotto un’analisi comparativa sui contenuti della musica hip-hop di due diverse epoche.

Per il periodo precedente allo streaming abbiamo preso in considerazione la playlist della Apple che contiene i più grandi successi hip hop e rnb del 2002. E poi la playlist di Rap Caviar su Spotify del 2022.

Entrambe contenevano cinquanta canzoni, che abbiamo esaminato in base a cinque categorie: forma e struttura, campionamenti, ritmo, stile vocale e testo. I risultati sono stati sorprendenti.

Lunghezza della canzone. La durata media è passata da 4 minuti e 19 secondi del 2002 ai 3 minuti e 3 secondi del 2022.

Tempo e tonalità. Le canzoni del 2022 avevano tempi e tonalità molto più simili tra loro, dunque c’era una minore varietà.

Campionamenti. I pezzi dei primi anni duemila traevano ispirazione da molti generi e culture locali, mentre nel 2022 quasi tutti si affidavano a motivi generici di piano e chitarra, spesso ottenuti con software di produzione come Landr.

Ritmo. Mentre le vecchie canzoni hip-hop usavano spesso ritmi diversi, il 90 per cento delle canzoni del 2022 conteneva ritmi quasi identici prodotti con la 808 (una drum machine).

Voce. Nel 2022 l’autotune era quasi ovunque e dava alle voci una consistenza uniforme e artificiale.

Testi. Nel 60 per cento delle canzoni del 2022 i testi erano più simili tra loro rispetto al 2002, nonostante usassero un vocabolario più ampio.

In generale queste tendenze suggeriscono che i suoni e lo stile per cui l’hip-hop era un tempo famoso sono stati sostituiti da elementi scelti per essere compatibili con gli algoritmi dietro le piattaforme. Nel 2002 in cima alle classifiche hip-hop c’erano canzoni come Make it clap di Busta Rhymes, Lose yourself di Eminem o Work it di Missy Elliot, mentre oggi le canzoni scelte da Rap Caviar sembrano molto più simili tra loro.

L’hip-hop, una musica un tempo caratterizzata dalla cultura di strada, dalla resistenza e dall’espressione individuale, oggi è influenzata dal capitalismo delle piattaforme.

Tutto questo fa parte di una trasformazione più generale del modo in cui i prodotti culturali sono realizzati, valutati e diffusi. La musica e altre forme d’arte sono prodotte sempre più spesso all’interno di piattaforme progettate per essere scalabili. In questo contesto, la logica dei guadagni sostituisce spesso la libertà artistica, mentre la prevedibilità soffoca l’originalità.

Le piattaforme di streaming sostengono di aver democratizzato l’industria musicale, ma in realtà hanno rafforzato il dominio delle grandi etichette discografiche e le tendenze precedenti.

Anche i musicisti che hanno approfittato enormemente di questi sistemi stanno cominciando a ribellarsi ai loro vincoli. Queste riflessioni appaiono particolarmente importanti davanti all’ascesa dell’intelligenza artificiale generativa e alla possibilità che in futuro ognuno possa crearsi la sua musica o che sia composta su richiesta.

Se la musica vuole riappropriarsi del suo potere critico, creativo ed espressivo, deve interrompere i legami con la logica finanziaria che oggi la governa. Il primo passo è sicuramente quello di capire come funziona questa logica, e quali interessi serve.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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