I numeri parlano chiaro. Da gennaio a settembre di quest’anno 72.700 neozelandesi si sono trasferiti all’estero, mentre il guadagno migratorio netto (la differenza tra il numero di immigrati e il numero di emigrati) a settembre era di 12.400 persone, il più basso dal 2013 (escluso il periodo della pandemia) e molto inferiore a quello registrato a settembre del 2024, pari a 42mila persone. Quest’esodo senza precedenti, che in un paese di 5,3 milioni di abitanti si fa sentire, sta attirando l’attenzione della stampa straniera, nota Stuff riportando i dati diffusi nei giorni scorsi dall’agenzia nazionale di statistica. Ma come mai i kiwi (il soprannome degli abitanti della Nuova Zelanda) se ne stanno andando a frotte da un paese considerato una destinazione turistica da sogno e scelto da molti australiani per godersi la pensione?
Le cause più immediate dell’accelerazione di una tendenza che dura da tempo sono l’economia in recessione, la disoccupazione in aumento e la crisi degli alloggi, che come in altri paesi pesa sempre di più. Ma tutto sommato i neozelandesi possono contare in generale su “uno standard di vita molto alto, un buon livello d’istruzione, governi stabili, un buon accesso ai servizi sanitari e una cultura relativamente ugualitaria”, spiega un video di Economics Explained.
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Perché trasferirsi, allora? L’opposizione laburista punta il dito contro il governo di centrodestra, dicendo che “i kiwi stanno votando con i piedi”, cioè andandosene. Ma le ragioni dell’emigrazione sono diverse, e hanno molto a che fare con alcune caratteristiche strutturali della Nuova Zelanda, che in proporzione al numero di abitanti oggi ha un tasso di emigrazione uguale a quello di alcuni paesi in via di sviluppo e in guerra, e il più alto tra i paesi dell’Ocse.
Innanzitutto la maggioranza dei neozelandesi che emigra si stabilisce in Australia, dove oggi vive il 10 per cento dei kiwi, sia per la vicinanza geografica sia perché Wellington e Canberra hanno rapporti molto stretti, tali da facilitare il libero movimento dei rispettivi cittadini. Chi se ne va ha in genere un alto livello d’istruzione ed è all’inizio della carriera lavorativa. Finora il vuoto lasciato dalla fuga di cervelli era stato compensato dall’accoglienza di immigrati dalla Cina e dall’India, ma ora il flusso in entrata di stranieri istruiti e in età lavorativa sta calando drammaticamente.
E non sono solo i neozelandesi ad andarsene in Australia, ma anche molti stranieri, arrivati in Nuova Zelanda grazie anche alla relativa facilità con cui, proprio per supplire alla carenza di forza lavoro, si concedono visti, permessi di residenza e cittadinanza.
L’economia neozelandese è legata alle dimensioni ridotte del paese e alla sua posizione geografica remota. A livello industriale non è competitiva, perché “qualsiasi cosa possa essere prodotta in Nuova Zelanda può essere prodotta in Asia su scala molto maggiore, a un costo decisamente inferiore e più vicino alle rotte marittime di distribuzione”, continua il video.
Questo non vale solo per l’industria pesante. Anche i servizi finanziari, di solito un prodotto d’esportazione chiave per i paesi avanzati come la Nuova Zelanda, non reggono il confronto con hub come Singapore, fisicamente più vicino alla gran parte dei centri del commercio e molto più integrato nel sistema finanziario globale, o Sydney. E il legame politico tra Canberra e Wellington è tale che chiunque voglia fare affari in Nuova Zelanda può benissimo farlo usando una base operativa in Australia.
Nel paese si trovano quindi industrie specifiche legate al territorio: turismo, finanza locale, servizi locali, operazioni marittime regionali, ed è una delle nazioni più produttive nel settore agricolo, cosa insolita per un’economia avanzata. L’agricoltura, infatti, è un’industria su cui tipicamente si basano le economie a basso reddito, ma la Nuova Zelanda ha usato il suo terreno incredibilmente fertile, l’abbondanza di acqua e le tecnologie moderne per produrre beni per l’esportazione molto redditizi (prodotti animali, vegetali, alimentari, chimici, legname, macchinari).
Il problema è che la maggior parte dei giovani istruiti che abitano nelle città non aspira a lavorare nelle fattorie, e comunque i posti di lavoro non sono molti, perché il settore è altamente meccanizzato. Così metà del pil nazionale oggi è prodotto dall’industria immobiliare: vendita, affitto, costruzione, finanziamento di case e governo di tutte queste attività. Questo ha portato il prezzo degli alloggi a livelli stratosferici, fuori dalla portata della maggior parte dei cittadini, in particolare dei giovani, che quindi decidono di andarsene.
Nelle città australiane la situazione abitativa non è migliore, ma le opportunità di lavoro sono maggiori e i neozelandesi che scelgono di studiare nelle università australiane pagano le stesse rette e hanno lo stesso accesso ai prestiti del governo per motivi di studio dei colleghi locali.
Invertire la rotta sembra quasi impossibile. Per il primo ministro Christopher Luxon, scrive l’Economist, la soluzione è “costruire una proposta a lungo termine per cui i neozelandesi scelgano effettivamente di rimanere. Ma finora non è stato facile. Nel 2009 il premier John Key si era prefissato di ‘raggiungere l’Australia entro il 2025’. Oggi a Wellington si scherza sul fatto che un obiettivo più realistico sarebbe ‘battere le Fiji entro il 2050’”.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.
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