Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 1995 nel numero 89 di Internazionale.
Al viaggio viene dato un prestigio sproporzionato. È stato sempre così. La maggior parte delle persone viaggia perché in questo modo – come con la Bmw e i raggi Uva – dimostra di aver raggiunto il livello economico o culturale di chi può vantare un abbassamento significativo del colesterolo e un album di fotografie che lo ritraggono con il Partenone alle spalle, o con un gruppo di bambini afri-cani che corrono dietro alla jeep sulla quale è salito per cacciare leoni con la Nikon.
È molto difficile trovare nella letteratura antica e moderna testimonianze contrarie al viaggio. Ma qualcuna ce n’è, senza dubbio. Madame de Staël, che da un salotto all’altro i suoi viaggi se li è fatti, affermava che attraversare paesi sconosciuti, in cui si sentono lingue incomprensibili e si contemplano volti completamente estranei al nostro passato o futuro, costituisce una perdita di dignità che sfocia nell’isolamento. E concludeva che “viaggiare è uno dei piaceri più tristi della vita”.
Il saggista statunitense del secolo scorso Ralph Waldo Emerson, anche lui tutt’altro che sedentario, sosteneva che viaggiare è il paradiso degli sciocchi. Quanto a William Hazlitt, che passò alla storia come il biografo inglese di Napoleone, meriterebbe comunque di essere ricordato per questa frase: “Mi piacerebbe dedicare ai viaggi tutta la vita, se qualcuno potesse poi prestarmene un’altra per restare a casa”.
Ma c’è un individuo curioso, anche lui inglese e del secolo scorso, un certo Sidney Smith, pubblicista e canonico della cattedrale anglicana di Londra: di lui si suole citare, stranamente, una frase enigmatica che demolisce tutte le critiche precedenti: “Considero che ogni sposa abbia pieno diritto a insistere per visitare Parigi”.
Personalmente, conosco una frase, nella quale mi sono imbattuto in occasione di uno dei miei primi viaggi all’estero, che non potrei fare a meno di citare. Viaggiavo verso la Grecia, molti anni fa, facendo il giro più lungo, per poter vedere il tramonto del sole a Patrasso, di cui mi aveva parlato una ragazza della facoltà che volevo sposare. Attraversando l’Italia con grandi disagi trovai, in una bancarella, un dizionarietto spagnolo-greco.
Il libro conteneva un repertorio di frasi greche, con la trascrizione in alfabeto latino, per arrangiarsi nelle situazioni più comuni: al ristorante, alla stazione, all’ospedale, al commissariato, eccetera. Cercai la sezione dell’albergo, e la prima frase citata era questa: “Buongiorno, vorrei una camera, ma per favore
che sia al pian terreno, perché il signore che è con me è paralitico e non può salire le scale”. Proprio così.
Più tardi, leggendo il libro più a fondo, vidi che c’era anche un capitolo dedicato
alle parti del corpo. Non erano elencate in ordine alfabetico né in qualsiasi altro ordine, e accanto alla lingua si poteva trovare il pancreas o la vescica dell’urina. Uno schifo. Ma il peggio era che questa lista inquietante si chiudeva con due parti del corpo a me sconosciute fino a quel momento: “il latte” e “il cadavere”.
Quando giunsi a Patrasso con la nave, da Brindisi, con una nausea da morire, perché, anche se non lo sapevo ancora, soffro di mal di mare, avevo già deciso di non sposare la mia compagna di facoltà. Ciononostante, salii correndo al monte da cui si vedeva il famoso tramonto, per compensare le sofferenze passate. La verità è che non vidi nulla, perché arrivai in cima senza respiro a causa del fumo, angosciato per colpa del latte e del cadavere, e del signore paralitico che non poteva salire le scale.
Fu così che non sposai quella ragazza. Ma, da allora, ogni volta che salgo su un aereo noto accanto a me la presenza immaginaria, ma non per questo meno solida, di quel paraplegico, che è diventato la mia coscienza viaggiatrice: quando decolla l’aereo, mi declama in tono perentorio le parti del corpo, che si concludono inevitabilmente con il latte e il cadavere.
Ma viaggiare non è stato sempre una sciocchezza. Ci fu un tempo in cui il
viaggio era associato al mito, senza il quale gli uomini non sarebbero stati capaci di comprendere quello che gli succedeva. Da viaggi come quello di Giasone e gli Argonauti alla ricerca del vello d’oro, o come quello di Ulisse di ritorno in patria dopo la guerra di Troia, o quello di Edipo che fugge il destino al quale va incontro proprio quando crede di allontanarsene, generazioni intere, compresa la mia, appresero il senso della vita.
Forse il viaggio è come il sentimento religioso: una condizione mentale, una dimensione dell’anima che si rinsecchisce se codificata. Come le religioni e le sette hanno codificato la religiosità, con i risultati catastrofici che sappiamo, così le agenzie turistiche hanno volgarizzato il sentimento del viaggio, spogliandolo di ogni significato trascendente.
Il turismo come falsificazione
Il viaggio, convertito in un’istituzione canonica e quindi in un’industria, comparve alla metà del secolo scorso in Francia, con la creazione di alcuni club di alpinismo, il cui modello si sarebbe esteso rapidamente al resto dell’Europa. A partire da quel momento, si smise di viaggiare per viaggiare e si cominciò a viaggiare per aver viaggiato, per citare la felice frase di Alfonso Karr.
Il turismo, in fondo, è la falsificazione del viaggio, il suo surrogato. È ormai talmente screditato che la classe più economica degli aerei porta il suo nome: turistica. L’alternativa a questa classe non è molto meglio, in realtà: si chiama business class. Solo che l’uomo d’affari non viaggia: va da un luogo all’altro, ma con la testa rimane sempre nello stesso posto. C’è anche una terza possibilità: la prima classe, dove gli iraniani gustano caviale e i capi degli uomini d’affari leggono indagini di mercato. Ma questi esseri sanno in che paese si trovano solo se gli si dice che giorno è della settimana. E comunque devono prima consultare l’agenda.
La verità è che il viaggiatore autentico è scomparso dalla mappa, sostituito dal turista, proprio come la margarina è riuscita a sostituire il burro. Ciononostante, e malgrado la mancanza di prestigio di cui sopra, il turismo è, come l’hamburger, un’industria fiorente: interi paesi vivono proprio di questo, perché l’essere umano ha bisogno di andare da un posto all’altro per avere la sensazione di esplorare se stesso. D’altra parte, come la margarina è riuscita a mantenere una qualche somiglianza con il prodotto che ha soppiantato, così anche nella tessitura del turista si può trovare qualche fibra di una tela che deriva dall’antico viaggiatore.
Ma c’è qualcosa di più: se dovessimo indicare il modello cui più si avvicina il moderno turista, diremmo che non è altro che l’eroe mitico che supera i limiti umani e riesce a tornare per raccontarlo. Si somigliano nelle pene che devono attraversare. Questo lo sa chiunque abbia dovuto sopportare un viaggio di otto o dieci ore nella classe turistica di qualunque compagnia, incastrato in una fessura chiamata sedile, dove dall’alto lo assalgono in ogni momento auricolari, pranzi, colazioni e merende di plastica, all’unico scopo di impedirgli di addormentarsi e sognare il ritorno a casa.
Turisti ed eroi tuttavia si differenziano. Il turista non avrà in premio una qualche verità fondamentale, ma un carrello di piatti assortiti con la salmonella in agguato, o un hotel a due stelle di meno di quelle promesse in origine. Il viaggiatore mitico tornava moralmente rinvigorito, mentre il turista di oggi torna di solito più stanco e infelice di quando è partito, soprattutto se pensa alla fattura che gli manderà nel giro di un mese la carta di credito.
Il turismo non cura ormai nemmeno il nazionalismo, che era invece un tempo una delle cose che ti passavano subito appena viaggiavi un po’. Quindi il turista deve subire altrettante prove dell’eroe del mito ma, alla fine, invece del vello d’oro, riesce a conquistare solamente, se gli dei sono favorevoli, una sdraio in un campo di concentramento chiamato spiaggia.
Sì, viaggiare è triste, quando non si sa dove si va, nonostante la guida illustrata messa in valigia. Il viaggio, nel senso più profondo, esige una strategia di avvicinamento che si trova solo sulla mappa morale costruita prima della partenza. Il problema è che queste mappe sono assenti dal pensiero contemporaneo. Occasionalmente, vi può capitare di incontrare qualcuno
che crede ancora di viaggiare. Se gli volete bene non lo contraddite, però non gli credete.
Ricordate il vostro ultimo viaggio in Egitto, o l’ ultima scalata alle guglie di Notre-Dame: vedrete che nella memoria compare prima la scritta del berretto del turista che avevate davanti, che l’immagine del monumento che in teoria eravate andati a visitare. Nel migliore dei casi, quello del berretto eravate proprio voi, o ero io. E voi e io eravamo anche quelli che mercanteggiavano, turisticamente, il prezzo di alcuni cinturoni artigianali con povere donne africane.
E quella signora orribile, con gli occhiali, che combatte con i topi volanti, chiamati
piccioni, di piazza San Marco, invece di mettersi a piangere per la bellezza del luogo, siamo voi ed io. Non abbiamo scampo.
Buon viaggio
Quindi non c’è salvezza nel turismo, ma fuori dal turismo non è possibile il viaggio. E viaggiare è necessario, non tanto per non perdere quella sensazione essenziale di andare da un lato all’altro di noi stessi, ma perché dà prestigio, e senza prestigio non si va da nessuna parte.
Bisogna continuare a muoversi, quindi. Per questo, niente di meglio della raccomandazione di Paul Morand, che sembra però una citazione da quel bel film intitolato Turista per caso: “Quando comprate una valigia, non dimenticate che, nel corso di un lungo viaggio, si presenterà un momento in cui sarete obbligati a portarvela da soli”.
Non lo dimenticate, quindi. Soprattutto se oltre a trascinare la valigia dovrete spingere la carrozzella di un paralitico immaginario, che si incaricherà ovunque andiate di ricordarvi che in fondo non siete altro che il latte e il cadavere. E buon viaggio in nessun posto.
(Traduzione di Caterina Donati)
Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 1995 nel numero 89 di Internazionale.
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