Tyler, the Creator è sempre stato prolifico. Guardando alla sua discografia solista, il rapper di Los Angeles ha fatto in media un disco ogni due anni. Stavolta, però, ha accorciato i tempi, dato che il nuovo album Don’t tap the glass è arrivato a meno di un anno dal precedente Chromakopia. Don’t tap the glass ha tutta l’aria di un disco registrato d’impulso, o perlomeno è questa l’impressione che si ha ascoltandolo. Se Chromakopia era un concept album con una linea narrativa e un’iconografia ben precisa, il nuovo lavoro sembra andare più a briglia sciolta. In realtà Tyler, come vuole la tradizione, interpreta un personaggio, Big Poe, un rapper festaiolo ma tormentato che gli somiglia molto.

Il concetto di fondo alla base di Don’t tap the glass – il titolo rimanda alla frase che si mette sul vetro degli acquari per chiedere alle persone di non disturbare gli animali e fa pensare al rapporto tra artista e pubblico – sembra quello della celebrazione del ballo come forma di espressione di sé, dato che molti pezzi (Big Poe, Sucka free, la titletrack) sono costruiti su beat molto ballabili e Tyler invita gli ascoltatori a muovere il loro corpo il più possibile.

Lo fa a partire da quella frase affidata a una voce robotica che si sente nei primissimi secondi del disco. Poi, come sempre, introspezione, frecciate ai detrattori e violenza (neanche troppo latente) sono onnipresenti nei testi dei brani. Ma tutto sembra venire fuori senza filtri, come se Tyler fosse a una festa con gli amici.

La musica del rapper nasconde come al solito riferimenti e chicche più o meno nascoste. In Big poe Tyler campiona Pass the Courvoisier part II di Busta Rhymes e Pharrell, ma cita anche Roked, brano registrato dal chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood insieme al compositore israeliano Shye Ben Tzur e al collettivo indiano the Rajasthan Express per il disco Junun. Il rapper di Los Angeles dimostra ancora una volta di avere una cultura musicale notevole.

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I pezzi di Don’t tap the glass sono brevi: nessuno arriva ai quattro minuti, alcuni superano di poco i tre. Ma la varietà di stili, il flow multiforme di Tyler, the Creator e la sua capacità di creare una narrazione affascinante all’interno del disco rendono comunque piacevole l’ascolto di questo lavoro apparentemente minore. E poi il musicista ha tante frecce al suo arco.

Per capirlo basta soffermarsi un attimo sul brano finale, Tell me what it is: un soul distorto nel quale Tyler (da sempre ambiguo sulla sua sessualità, una rarità nel mondo machista dell’hip-hop) descrive in modo struggente la fine di una storia d’amore e nel finale si chiede “Why can’t I find love?”, perché non riesco a trovare l’amore? Subito dopo, una voce robotica (la stessa dell’inizio) ringrazia ironicamente per l’ascolto, e dà appuntamento “alla prossima volta”. Sipario.

Questo testo è tratto dalla newsletter Musicale.

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