La strage di Graz è la più grave sparatoria in territorio austriaco dal dopoguerra e una delle più atroci avvenute in una scuola in Europa. Artur A., 21 anni, ha ucciso dieci persone e ne ha ferite gravemente altre dodici. Aveva frequentato quella stessa scuola, ma era stato bocciato due volte e non aveva finito gli studi. Si è ucciso nel bagno. Ha lasciato una lettera ai familiari in cui ripete che era stato vittima di bullismo.
Le sparatorie nei luoghi in cui si fa educazione, dai nidi alle primarie ai licei e alle università, seguono un modello prestabilito, uno schema replicato di un genere di violenza, esplosiva e sistemica, che pensiamo faccia parte del nostro tempo, senza interrogarci davvero sulle ragioni e sulle possibilità di prevenirla.
Abbiamo ormai banche dati che conteggiano queste sparatorie, facendo bene attenzione alla definizione che possiamo darne. Il sito K-12 school shooting database, coordinato da David Riedman, ha messo insieme 2.400 episodi dal 1966. Quando parliamo di massacri scolastici pensiamo quasi sempre agli Stati Uniti, che effettivamente sono ancora il paese più colpito, e quello in cui si è più riflettuto sul fenomeno. Pensiamo facilmente a documentari come Bowling at Columbine di Michael Moore o a film come Elephant di Gus Van Sant.
I grafici mostrano un incremento costante e inquietante, con picchi che corrispondono alle stragi più note , quella di Columbine nel 1999 (16 morti e 23 feriti), Sandy Hook nel 2012 (28 morti e 2 feriti), Parkland nel 2018 (17 morti e 18 feriti), Uvalde nel 2022 (22 morti e 21 feriti), Appalachee nel 2024 (4 morti e 9 feriti). Anche il Washington Post ha una pagina in costante aggiornamento sulle stragi scolastiche. Sono censiti 428 episodi dal 1999 a oggi, e una stima di quasi 400mila studenti coinvolti (leggi: sopravvissuti).
Sono numeri impressionanti e in crescita consistente, secondo alcuni studi del 400 per cento in quarant’anni. È un fenomeno che non comprende solo le scuole statunitensi. In Europa, nel 1996 la strage di Dunblane in Scozia (18 morti e 12 feriti), nel 2002 quella di Erfurt in Germania (17 morti e un ferito), nel 2007 e nel 2008 le due stragi avvenute in Finlandia (a Jokela, 9 morti e 12 feriti; a Kahuajoki, 11 morti e 11 feriti), nel 2023 in un’università a Praga nella Repubblica ceca (18 morti e 25 feriti). In Giappone a Osaka nel 2001 (8 morti e 16 feriti), in Thailandia nel 2022 in un nido (37 morti, di cui 24 bambini), a Suzano in Brasile nel 2019 (10 morti e 11 feriti). Facendo le somme di queste vittime, si può arrivare a più di duemila, quasi tutti minori, spesso bambini, ed educatori e docenti. E questo senza contare la strage di Utøya, in cui Anders Breivik sparò a un gruppo di ragazzi che stavano facendo un campo estivo (69 morti e più di duecento feriti), o il massacro alla scuola di Beslan, in cui nel 2004 morirono 334 persone, tra cui 186 minorenni, e ne rimasero ferite più di settecento.
Metodi di ricerca accurati mostrano una serie di elementi ricorrenti in tutte, molte, alcune sparatorie. La scelta del luogo, delle armi, delle vittime appartiene a una gamma piuttosto definita che sembra citare e ricalcare gli omicidi di massa precedenti, per emulazione, per adesione a un genere macabro o per una terribile ragione della violenza che appare evidente: la vendetta. Una vendetta covata mesi come a Columbine, anni come a Graz, decenni come a Dunblane, assurta a progetto politico come a Beslan. Il 93 per cento delle sparatorie è stato pianificato con cura, secondo uno studio dell’associazione Sandy Hook Promise, nata dopo la strage del 2012, per indagare e prevenire la violenza armata nelle scuole. Non è raro che gli attentatori citino esplicitamente altri attentatori, e per questo occorre fare attenzione a non dare troppo risalto agli omicidi, per non farli diventare riferimenti o perfino martiri di un immaginario mortifero.
Ci sono altri fattori che saltano immediatamente all’occhio anche se non vengono subito focalizzati: la quasi totalità degli assassini è di genere maschile. Il 96 per cento secondo una statistica che analizza i casi dal 1982 a oggi. Il 95,4 per cento secondo un conteggio che comprende anche altre sparatorie di massa. In almeno metà degli episodi si tratta di maschi bianchi, di origine caucasica. Nella maggioranza dei casi l’attentatore è uno studente, un ex studente o qualcuno che conosce o ha frequentato l’ambiente scolastico preso di mira. In una percentuale molto alta, che secondo il Washington Post arriva al 79 per cento, dopo l’attentato l’autore uccide anche sé stesso, prima o dopo l’arrivo della polizia, o in un luogo isolato nelle ore successive. In più della metà dei casi la sparatoria finisce prima dell’arrivo delle forze dell’ordine. “È una prova diretta, indiscutibile, empirica che il luogo comune secondo cui ‘l’unica cosa che ferma un cattivo con la pistola è un bravo ragazzo con la pistola’ è sbagliato”, sostiene Adam Lankford, professore di criminologia all’università dell’Alabama, che ha studiato sparatorie di massa per più di un decennio. “È palesemente falso, perché spesso si fermano da soli”.
Non è difficile interpretare queste stragi come omicidi-suicidi. Per la dinamica delle stragi, anche quando non terminano con il suicidio dell’attentatore, è chiaro che chi spara si aspetta o addirittura cerca una fine nel massacro di cui è responsabile. Molto raramente vuole o riesce a fuggire.
Le cause di questi massacri scolastici sembrano essere la conseguenza di un disturbo mentale combinato con la disponibilità di armi. La seconda causa è sicuramente determinante. Statistiche del governo degli Stati uniti soprattutto in era non trumpiana ripetono più volte l’allarmante dato secondo cui la causa più comune di morte tra i minori dal 2000 a oggi è l’uso di armi da fuoco, con una diminuzione importante sotto le due presidenze Obama e una funesta inversione di tendenza durante il primo mandato di Trump. È stato importante il discorso accorato che Obama fece dopo la strage di Sandy Hook sulla responsabilità delle armi. È stato ripreso anche da un bel documentario del 2018, disponibile su Netflix, intitolato Lezioni da una strage a scuola: lettere da Dunblane, in cui due parroci – uno che ha assistito la comunità traumatizzata di Dunblane dopo l’attentato del 1996, uno che ha assistito quella di Sandy Hook nel 2012 – si scrivono e si confrontano su come elaborare il lutto di questi eventi (cosa vuol dire sopravvivere al trauma di un massacro scolastico è un aspetto poco raccontato, ma ci sono diversi studi interessanti).
Anche dopo la strage di Graz ci si è focalizzati sulla questione delle armi. L’attentatore aveva un fucile a pompa e una pistola semiautomatica. In più a casa aveva preparato una bomba rudimentale. Secondo i dati ministeriali aggiornati ad aprile, in Austria sono registrati 1,5 milioni di armi, legalmente detenute da circa 370mila persone. Un’arma ogni sei persone (l’Austria ha poco più di nove milioni di abitanti).
Ma non è facile avere statistiche su quante sono realmente le armi da fuoco possedute, e questo vale per tutti i paesi, compresa l’Italia, come evidenziava anche un articolo dell’Essenziale di tre anni fa. Recentemente il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha minimizzato la presenza di armi in Italia fornendo un dato molto scorretto: “Solo lo 0,02 per cento della popolazione adulta possiede un’arma da fuoco”. In realtà le armi, almeno quelle dichiarate, sono molte di più. Parliamo di almeno 1,2 milioni di licenze che corrispondono al 2,5 per cento della popolazione italiana adulta. Le stime approssimative per le armi da fuoco possedute si aggirano sui dieci milioni.
Nonostante questo in Italia non ci sono stati, per fortuna, casi di stragi scolastiche. Dopo la stagione della lotta armata, possiamo ricordare il triplice omicidio compiuto nel 1999 da un dipendente dell’università di Padova contro suoi colleghi nel giorno in cui si doveva discutere della sua situazione disciplinare. E l’attentato in una scuola di Mesagne, in provincia di Brindisi, nel 2012. Anche lì si trattò di una vendetta privata: un commerciante di carburanti agricoli, Giuseppe Avvantaggiato, si riteneva vittima di un’ingiustizia e voleva vederla riconosciuta in modo plateale.
Per quello che riguarda invece i disturbi mentali, dobbiamo fare attenzione a cosa intendiamo. Una ricerca del 2022 che esamina il Columbia mass murder database, rivela che “anche se gli omicidi di massa avvenuti in ambito accademico, soprattutto con l’uso di armi da fuoco, sono fonte di grave e crescente preoccupazione per l’opinione pubblica, l’identificazione di modelli coerenti per favorire la prevenzione si è rivelata difficile. Alcune caratteristiche, come il sesso maschile, sono state associate di routine a questi eventi, ma un altro fattore di rischio ipotizzato, un disturbo mentale grave, si è rivelato meno predittivo in modo affidabile”.
È vero che in diversi casi è evidente la presenza di un disturbo psichiatrico o c’è stato un tentativo di suicidio precedente alla strage; ma quello che conclude l’équipe di studiosi coordinata da Rory Girgis è che, invece di analizzare le diagnosi individuali, dovremmo ragionare su diagnosi sociali, dalla tendenza all’isolamento al rifiuto della scuola.
Due giorni fa in Francia una collaboratrice scolastica è stata accoltellata a morte da un quindicenne, e questo episodio ha aggiunto allarme in un governo che aveva già reagito con dichiarazioni prevedibili di fronte alla strage di Graz. Per esempio, si è puntato il dito in modo pavloviano sull’uso dei telefoni e dei social media tra gli adolescenti. Il primo ministro Bayrou ha ipotizzato l’introduzione sperimentale di portali di sicurezza all’ingresso degli istituti scolastici. Un’emulazione delle misure che esistono negli Stati uniti. Per fortuna la sua proposta non ha riscosso molti consensi. In Italia il ministero dell’istruzione e del merito ha previsto un inasprimento delle pene per gli episodi di aggressione al personale scolastico, fino all’arresto in flagranza. La motivazione sarebbe l’aumento degli episodi di violenza all’interno delle scuole.
Come per tutto quello che accade nella scuola, i fatti dimostrano che le risposte repressive e paternaliste lasciano il tempo che trovano, provando inefficacemente a eliminare i sintomi, senza riconoscere né contrastare le cause, soprattutto quelle sociali.
Qualche anno fa uscì un libro di Mark Ames, Going postal in inglese, pubblicato in Italia da Isbn con il titolo Social killer. Partiva dall’ondata di stragi commesse negli uffici postali da ex dipendenti che si armavano contro i loro vecchi capi e colleghi. Avvenne dopo le privatizzazioni di Ronald Reagan, provocando decine di morti. Ames intervistò molti di questi mass shooter e non riusciva a trovare credibili le spiegazioni che si riducevano a follia individuale, violenza diffusa, armi facili da procurare, emulazione di cattivi modelli. Invece di considerare solo i disturbi individuali, Ames riconobbe qualcosa di nuovo: una frustrazione diffusa causata dai nuovi modelli sociali imposti dalla reaganomics. Questa frustrazione aveva creato umiliazione e risentimento, che a loro volta avevano determinato gli esiti violenti, e spesso sanguinari, degli attentati agli uffici postali: istituzioni pubbliche viste come luoghi dove la mortificazione si era legittimata e sclerotizzata, fino a diventare esclusione attraverso demansionamenti, prepensionamenti, licenziamenti, dismissioni.
Ad ascoltare le testimonianze degli attentatori o di chi sceglie la scuola come luogo di violenza, spesso si trovano tracce simili. L’attentatore di Graz parla di un costante bullismo a cui era stato sottoposto. L’attentatore di Erfurt, Robert Steinhäuser, compì la sua vendetta nell’istituto scolastico da cui era stato espulso anni prima a causa della falsificazione di un certificato medico. Quell’espulsione gli aveva impedito di avere un impiego, secondo la sua versione, relegandolo alla marginalità sociale. Nelle lettere d’addio, nei video di spiegazione delle stragi, spesso si trovano espressioni simili.
Maschi, soprattutto adolescenti e postadolescenti, fragili e incapaci di trasfigurare in modo collettivo una rabbia sociale se non pianificando una delirante terribile vendetta personale.
È impressionate che l’attentatore di Graz, nel messaggio lasciato alla madre, le chieda di prendersi cura del gatto.
Dovremmo provare a sovvertire allora il nostro punto di vista: invece di cercare fuori dalla scuola le ragioni di una violenza che sembra un deflagrante corpo estraneo, dovremmo ammettere che quella violenza è generata dalle relazioni stesse, di potere, di dominio, esercitate spesso in modo invisibile all’interno delle istituzioni scolastiche, come specchio della violenza sociale che avviene fuori. E dovremmo ragionare sugli effetti, oltre che sulle cause, di questa violenza nello sviluppo psichico dei ragazzi.
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