Negli Stati Uniti un politico può diventare popolare con una rapidità impensabile in qualsiasi altro paese. Un uomo dal nome insolito, che a fatica riesce a ottenere un accredito per una convention di partito, può ritrovarsi otto anni dopo alla guida del paese, diventando il primo presidente afroamericano. Un inverno una donna serve cocktail in un bar di Manhattan e pochi mesi dopo è in tv in prima serata mentre si prepara a entrare al congresso come la più giovane deputata della storia degli Stati Uniti. L’attuale presidente è la dimostrazione di cosa succede quando politica e celebrità si fondono per generare una forza distruttrice. È l’apoteosi della fama fine a se stessa: il sogno americano e l’incubo insieme.
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L’ultima ascesa folgorante è quella di Zohran Mamdani, 34 anni, che a giugno ha vinto le primarie del Partito democratico e, facendo entusiasmare la sinistra statunitense, è diventato il candidato favorito alla carica di sindaco di New York. Arrivato quasi dal nulla, Mamdani ha sconfitto nettamente Andrew Cuomo, ex governatore dello stato, che per mesi aveva dominato i sondaggi e poteva contare su solide alleanze e grandi risorse economiche.
È facile capire l’entusiasmo della sinistra. È come se un socialista dichiarato, con il carisma di Barack Obama e il magnetismo da outsider di Donald Trump, avesse spazzato via l’intero establishment politico, puntando tutto su un messaggio di riscatto per i lavoratori e per i poveri. O come se la deputata Alexandria Ocasio-Cortez non avesse vinto solo in un singolo collegio elettorale di New York ma avesse conquistato l’intera città, trionfando in elezioni primarie a cui hanno partecipato più di un milione di elettori. E possibile che i sogni della sinistra stiano improvvisamente diventando realtà?
Quasi sconosciuto fino a pochi mesi fa, oggi Mamdani è una celebrità nazionale e internazionale. Non può camminare per le strade di New York senza essere accerchiato da persone che vogliono farsi una foto con lui. Ci siamo incontrati nel retro di un caffè, vicino al piccolo appartamento in cui vive con la moglie, nel Queens. Subito dopo che ci siamo salutati una giovane donna l’ha riconosciuto e ha detto: “Oddio, è il nostro sindaco!?”. La folla lo ha circondato. Mamdani sorrideva. “È un’altra vita”, mi ha detto parlando dell’attenzione che riceve oggi. “Ormai impieghiamo tantissimo tempo per girare un video della campagna elettorale sul marciapiede, in strada… ora è tutto diverso, perché sono sempre di più le persone che sanno cosa stiamo facendo. Ora passo molto più tempo nei cimiteri che nei parchi, perché lì non c’è nessuno: posso camminare, fare telefonate, partecipare alle riunioni”.
Mamdani affronta tutto con il sorriso, ma la popolarità porta dei problemi. “Durante le primarie ci capitava spesso di perdere un treno e saltare su una bicicletta per arrivare a un evento. Ora non è più così semplice, visto il numero di minacce di morte che ricevo. Viaggio sempre con la scorta. Una volta ho detto a uno degli agenti: ‘Siamo in ritardo, possiamo prendere la bici?’. E lui mi ha risposto: ‘Cadrebbe la pistola dalla fondina’. Sono preoccupazioni di tutt’altro tipo”.
L’uccisione di Charlie Kirk, un attivista e influencer di estrema destra e alleato di Donald Trump, ha reso tutto ancora più evidente. La violenza politica negli Stati Uniti è in aumento: a giugno in Minnesota una deputata statale del Partito democratico è stata uccisa nella sua casa e lo scorso anno Trump è stato sfiorato da un proiettile. I sostenitori di Mamdani temono che possa diventare un bersaglio. Lui, che ha condannato l’omicidio di Kirk e ha fatto appello al “senso condiviso di umanità che ci unisce tutti”, sta cercando con fatica di trovare un equilibrio tra il contatto diretto con la gente e il rischio concreto di ritrovarsi una pistola puntata contro.
È difficile trovare qualcuno con soldi o potere che non speri nella sua sconfitta
Fare il sindaco di New York è considerato il secondo lavoro più difficile per un politico negli Stati Uniti; ma potrebbe essere, a modo suo, il più difficile in assoluto. Sparatorie in strada, deragliamenti in metropolitana, esplosioni dovute a fughe di gas, maltempo: la colpa è sempre del sindaco. Per sopravvivere deve essere dappertutto, come un Superman municipale o, più prosaicamente, un padre sfinito alle prese con otto milioni di figli urlanti.
Ma il sindaco di New York ha anche un profilo nazionale. È l’incarnazione dell’ideale progressista urbano: un modello scintillante o una distopia, a seconda dell’epoca o del punto di vista dominante nel paese (Mamdani sarebbe un potenziale candidato alla presidenza, ma non potrà mai correre per la Casa Bianca perché non è nato negli Stati Uniti).
Priorità locali
Durante la campagna elettorale per le primarie, Mamdani ha promesso di bloccare gli affitti degli appartamenti su cui la città ha qualche controllo, di rendere gratuiti gli autobus e i servizi per l’infanzia e di aprire negozi di alimentari gestiti dal comune, con prodotti a prezzi calmierati. È un programma che si concentra quasi esclusivamente sull’accessibilità economica. Il suo obiettivo, se eletto, è rendere almeno un po’ più vivibile per i lavoratori con redditi bassi la città più cara del paese.
“Se diventasse sindaco, sarebbe la vittoria più clamorosa nella storia della sinistra statunitense”, dice Maurice Isserman, che insegna storia della politica statunitense all’Hamilton college di New York. “È vero che ci sono già dei socialisti al congresso, ma un deputato, per quanto influente, non ha neanche lontanamente la visibilità del sindaco di New York”.
Mamdani resta fedele al suo messaggio: le questioni locali sono la priorità. I suoi modelli non sono le grandi icone ideologiche della sinistra mondiale ma i cosiddetti sewer socialists (socialisti delle fognature), i riformatori del Wisconsin del primo novecento: Daniel Hoan, ex sindaco di Milwaukee, o Victor Berger, deputato statale, che cercarono di migliorare concretamente la vita delle persone, combattendo la corruzione e rafforzando la rete di sicurezza sociale. Mamdani ha anche modelli più vicini a casa, come Fiorello La Guardia, il sindaco populista di New York che negli anni trenta e quaranta lavorò a stretto contatto con Franklin D.
Roosevelt e realizzò molte opere pubbliche, tra cui nuovi complessi residenziali e parchi. Quando gli ho chiesto cosa stesse leggendo, Mamdani mi ha risposto Can socialists be happy? (I socialisti possono essere felici?), un saggio di George Orwell. “Lo spero”, ha detto sorridendo.
Negli ultimi anni molti socialisti hanno vinto elezioni locali e per il congresso, ma raramente sono riusciti ad allargare il loro consenso oltre una ristretta fascia di elettori di sinistra con un’istruzione universitaria. Quando Mamdani si è candidato a sindaco, molti dubitavano che sarebbe riuscito a trovare sostegno al di fuori dei quartieri gentrificati di Brooklyn e del Queens. Si sbagliavano.
Come ha fatto a sfondare? “Bisogna parlare un linguaggio che tutti possano capire e in cui possano riconoscersi, e bisogna parlare delle difficoltà che riguardano la vita di tutti i giorni”, dice Mamdani. “Spesso i leader del Partito democratico denunciano gli attacchi alla democrazia, ma se le persone non possono permettersi di vivere nella loro città, non hanno tempo per preoccuparsi dei grandi valori. La Guardia diceva che non si può parlare di autogoverno e di libertà a chi muore di fame”.
Secondo Mamdani, la battaglia contro l’autoritarismo dipende dalla capacità – o dall’incapacità – della democrazia di “soddisfare i bisogni della gente che lavora”. Dice che l’anno scorso i democratici hanno perso le elezioni presidenziali non per i “bagni e le squadre sportive” (un riferimento al dibattito sui diritti delle persone transgender), ma perché “hanno smesso da tempo di occuparsi dei lavoratori. Così molti di loro si sono convinti che la proposta di Donald Trump – per quanto ipocrita, grottesca e inquietante – fosse l’unica risposta alla loro preoccupazione per l’aumento del costo della vita”.
A questo punto devo chiarire il mio rapporto con Mamdani. Non è il primo politico che ho seguito a essere passato dall’anonimato alla notorietà mondiale (nel 2017 ho intervistato Ocasio-Cortez poco dopo l’inizio della sua prima campagna per il congresso), ma Mamdani è il primo con cui ho stretto un rapporto di amicizia. L’ho conosciuto nel 2017, quando era un giovane militante di 26 anni alla ricerca di una nuova sfida.
Quella sfida sarebbe stata anche la mia. Avevo deciso, con sorpresa di molti, di mettere momentaneamente da parte la carriera giornalistica e candidarmi per una carica locale. Puntavo al senato dello stato di New York, e il primo collaboratore che ho assunto è stato proprio Mamdani. Aveva lavorato a un’altra campagna elettorale nella stessa zona di Brooklyn in cui mi candidavo, e aveva ottime referenze.
Il Mamdani di oggi non è molto diverso da quello che ho conosciuto anni fa: un oratore carismatico, con quella sicurezza tranquilla tipica di chi è cresciuto nel privilegio. È figlio di Mira Nair, importante regista indo-statunitense, e di Mahmood Mamdani, studioso ugandese della Columbia university. In passato ha fatto anche il rapper – si faceva chiamare Young Cardamom – ed è un appassionato di calcio: nel nostro ufficio in campagna elettorale aveva appeso un poster di Mo Salah, calciatore egiziano del Liverpool. In campagna elettorale era instancabile: ha bussato personalmente a centinaia di porte, cercando di convincere anche i democratici più riluttanti a sostenermi.
Io non ce l’ho fatta, ma lui sì: nel 2020 si è candidato e ha vinto. È stato eletto alla camera bassa del parlamento statale. Nessuno, partendo da quella posizione, è mai diventato sindaco di New York. Ma è quello che potrebbe succedere il 4 novembre, quando ci saranno le elezioni. Come candidato del Partito democratico, Mamdani è nettamente favorito su Andrew Cuomo, che ha deciso di candidarsi da indipendente dopo la sconfitta alle primarie.
Se Mamdani diventerà davvero il sindaco più giovane degli ultimi cent’anni, dovrà affrontare sfide enormi. Si troverà a guidare il più grande corpo di polizia e il più vasto sistema scolastico degli Stati Uniti. Avrà la responsabilità di un bilancio superiore ai 115 miliardi di dollari, in un momento in cui l’economia sta rallentando. Trump sicuramente cercherà di mettergli i bastoni tra le ruote, mandando in città agenti dell’immigrazione e forse anche la guardia nazionale (il principale corpo di riservisti dell’esercito statunitense). E poi c’è l’imprevedibilità di tutto ciò che può succedere – tensioni, emergenze, tragedie grandi e piccole – nella città più popolosa del paese.
Il candidato e gli ebrei
L’ex sindaco di New York Bill de Blasio – orgoglioso esponente dell’ala progressista del Partito democratico, ma non uno che si definirebbe socialista – ha dato qualche consiglio a Mamdani. Avendo guidato la città dal 2014 al 2021, un periodo che ha coinciso con l’inizio della pandemia, De Blasio è uno dei pochi politici ancora in attività che sa davvero quali ostacoli potrebbe dover affrontare un giovane sindaco progressista. “Diventare sindaco è un’esperienza profondamente destabilizzante per chiunque”, mi ha detto De Blasio. “Su di lui ci saranno pressioni e attenzioni ancora maggiori, a causa della sua età e della scarsa esperienza. Dovrà affrontare l’islamofobia in mille forme e sarà una sfida costante, così come il timore che suscita in molti il fatto che si definisca socialista”.
L’élite economica di New York detesta Mamdani: è difficile trovare qualcuno con soldi o potere che non speri nella sua sconfitta. Negli ultimi cinquant’anni nessun candidato a sindaco ha vinto con così poco sostegno di immobiliaristi, banchieri e dirigenti del mondo tecnologico, cioè quelli che, da dietro le quinte, hanno spesso indirizzato le scelte politiche della città.
Mamdani si è trovato a sfidare una delle principali dinastie politiche del paese
Oggi questi settori sono molto preoccupati, perché per la prima volta nella storia sembra che i loro soldi non contino. Quasi trenta milioni di dollari – di cui almeno otto da Michael Bloomberg, il miliardario che ha governato New York per dodici anni – sono finiti in un comitato politico che durante le primarie ha finanziato settimane di spot televisivi a favore di Cuomo e contro Mamdani. Il candidato socialista è stato dipinto come un estremista che avrebbe tagliato i fondi alla polizia e scatenato ondate di criminalità. Dato che è musulmano e sostiene la causa palestinese (New York non ha mai eletto un sindaco musulmano né uno di origine sudasiatica) è stato più volte accusato di antisemitismo. Per molti è impensabile che un candidato democratico favorevole ai boicottaggi e alle sanzioni contro Israele possa vincere le elezioni nella città più ebraica del paese.
Durante la campagna elettorale per le primarie Mamdani è intervenuto in un podcast, difendendo lo slogan “globalizzare l’intifada” come un’espressione della lotta per la liberazione palestinese (e non, come sostengono molti ebrei, un invito al massacro degli israeliani). A quel punto i suoi avversari, Cuomo in testa, si sono scatenati, accusandolo di essere una minaccia per gli ebrei di New York e attaccandolo senza sosta con spot televisivi e propaganda online. In quel momento è sembrato che Mamdani potesse perdere consensi. Ma gli ebrei di sinistra, sconvolti dalla guerra di Israele nella Striscia di Gaza, sono rimasti dalla sua parte.
La base elettorale di Mamdani è composta soprattutto da persone sotto i quarant’anni, attirate da un politico apertamente filopalestinese, secondo il quale Benjamin Netanyahu dovrebbe essere arrestato se dovesse mettere piede a New York. Nel Partito democratico sono cresciute le critiche a Israele, e il successo di Mamdani potrebbe spingere altri politici del partito a mettere in discussione il tradizionale sostegno degli Stati Uniti a Israele, soprattutto vista la situazione catastrofica di Gaza.
Bradley Tusk, un investitore che ha guidato la campagna elettorale di Bloomberg, sostiene che le preoccupazioni a proposito di Mamdani si devono “in parte al fatto che è musulmano, in parte alla sua età e al suo essere apertamente socialista, e anche a quello che ha detto su Israele”. A differenza di molti colleghi, Tusk è più aperto all’idea di un’amministrazione Mamdani. “È troppo intelligente per governare in modo totalmente dogmatico”.
Il fattore Sanders
Per capire il significato storico del successo di Mamdani, bisogna ricostruire brevemente la parabola della sinistra radicale statunitense, dividendola in tre fasi: la crisi dopo i movimenti degli anni sessanta, la rinascita con Bernie Sanders e l’attuale momento di disperazione. Dagli anni settanta al 2015, la sinistra è stata sempre in ritirata, estromessa un po’ alla volta dal Partito democratico mentre l’alleanza nata intorno al new deal di Roosevelt si sgretolava e i sindacati perdevano forza. L’epoca del big government era finita, e l’eredità della guerra fredda ha reso il socialismo una parola tabù negli Stati Uniti per decenni.
Poi nel 2015 Sanders, un senatore sconosciuto del Vermont, si è candidato alla presidenza. Non era iscritto al Partito democratico e si definiva orgogliosamente un democratico socialista. Nessuno nell’establishment politico lo prendeva sul serio. Proponendo di introdurre un sistema sanitario universale, Sanders ha raccolto milioni di voti e per un momento è sembrato che potesse battere Hillary Clinton alle primarie del Partito democratico. Alla fine non ha vinto, ma è riuscito a mobilitare un numero enorme di volontari, per lo più ventenni.
Molti di quei giovani si sono iscritti ai Democratic socialists of America (Dsa), un’organizzazione nazionale fondata dal sociologo Michael Harrington che, a differenza dei precedenti movimenti socialisti, puntava a far eleggere candidati socialisti con il Partito democratico, invece di presentarli con altri partiti. In quel periodo anche Mamdani è entrato nei Dsa.
Nel 2018 Ocasio-Cortez, un’altra giovane sostenitrice di Sanders, ha stupito tutti battendo Joe Crowley, potente deputato del congresso e dirigente del Partito democratico. Poi ci sono state altre vittorie della sinistra, i Dsa hanno visto crescere gli iscritti e nel 2020, mentre Sanders si preparava a candidarsi di nuovo alla presidenza, l’alba socialista sembrava vicina. Nel 2019, durante un comizio di Sanders a New York, Mamdani, ancora sconosciuto sulla scena politica, era già alla ricerca di volontari per la sua candidatura.
Nonostante la pioggia di donazioni e la grande attenzione – e i sondaggi che, in diversi momenti, lo davano in testa – nel 2020 Sanders ha perso la corsa per la nomination democratica contro Joe Biden, prendendo molti meno voti rispetto al 2016. Una volta alla Casa Bianca, Biden ha mostrato una maggiore apertura verso i progressisti rispetto ai presidenti democratici del passato, ma la sinistra ne è uscita profondamente demoralizzata. I centristi hanno rialzato la testa e respinto l’assalto dell’ala sinistra del partito, e i Dsa hanno cominciato a perdere iscritti. Quando Trump è tornato alla Casa Bianca, la sinistra era ormai molto indebolita. Per usare le parole di Waleed Shahid, stratega progressista vicino a Ocasio-Cortez, il 2024 è stato un anno “molto difficile”, perché “la maggior parte di noi si sentiva molto depressa”. Sei mesi dopo, Mamdani ha ribaltato la situazione. “È un terremoto politico”, ha detto Krystal Ball, commentatrice di sinistra e conduttrice del popolare programma online Breaking points. “Credo abbia indicato un modello per il futuro: un’attenzione costante alla questione dell’accessibilità economica, alle questioni concrete della politica”.
Un confronto aperto
Molti militanti di sinistra, negli Stati Uniti e in Europa, si chiedono se il “modello Mamdani” sia davvero esportabile. La risposta, un po’ deludente, è forse. Di certo l’attenzione alle questioni economiche e all’accessibilità, unita alla sua abilità nell’evitare i temi più divisivi delle guerre culturali, hanno contribuito ad allargare il suo consenso.
All’inizio della campagna elettorale Mamdani si è confrontato con gli elettori della classe operaia newyorchese che avevano votato per Trump alle presidenziali. Come in tutte le candidature di successo, il suo messaggio era facile da ricordare e assimilare. Nel complesso non c’è niente di particolarmente radicale nella sua proposta. Non ha promesso di espropriare i mezzi di produzione. E ha abilmente fatto dimenticare le posizioni più discutibili prese in passato: oggi non dice più, per esempio, di voler tagliare i fondi della polizia, ma si limita a proporre la creazione di un’unità disarmata nel dipartimento di polizia che gestisca le crisi legate alla salute mentale; e non vuole più neanche depenalizzare la prostituzione, una sua battaglia da deputato statale.
◆ Il 4 novembre 2025 gli abitanti di New York voteranno per eleggere il nuovo sindaco. Si sfideranno Zohran Mamdani, socialista musulmano di 34 anni, Andrew Cuomo, ex governatore dello stato, e Curtis Sliwa, attivista conservatore e conduttore radiofonico. Eric Adams, il sindaco uscente molto impopolare, si è ritirato dalla corsa a fine settembre. Secondo il sondaggio condotto dalla Quinnipiac university a inizio ottobre, Mamdani ha un vantaggio di 13 punti percentuali su Cuomo. Il 17 ottobre c’è stato il primo dibattito tv tra i candidati. Cuomo e Mamdani si sono scontrati soprattutto su come rispondere agli eventuali attacchi del presidente Donald Trump, che negli ultimi mesi ha preso di mira molte città governate da politici del Partito democratico, mandando la guardia nazionale e ordinando retate contro gli immigrati.
L’insegnamento che i politici e i partiti di sinistra – compresi i laburisti britannici – possono trarre da Mamdani è un altro: bisogna proporre agli elettori un programma politico capace di entusiasmare e una visione chiara del futuro. Se il premier britannico Keir Starmer a volte sembra confuso e indeciso, Mamdani dà sempre l’impressione di sapere cosa vuole. Sia chi lo sostiene sia chi lo critica sa esattamente cosa rappresenta.
Più difficili da replicare sono il carisma di Mamdani e la sua capacità di usare i social media. Con i suoi video brevi e divertenti – una volta si è tuffato nell’oceano gelido indossando un completo elegante per promuovere il blocco degli affitti – si è creato un grande seguito su Instagram e TikTok grazie al suo fascino spontaneo e alla sua disinvoltura, caratteristiche che per certi versi ricordano Obama. Abile nel costruire alleanze, è riuscito in qualcosa che per la sinistra statunitense è sempre sembrato un sogno: allargare il consenso coinvolgendo giovani ed elettori occasionali, cosa che gli ha permesso di battere un candidato dell’establishment. La sua macchina organizzativa è stata la più imponente mai vista in una campagna elettorale a New York, con decine di migliaia di volontari mobilitati in tutta la città per bussare alle porte e distribuire volantini.
Per certi versi il successo di Mamdani somiglia alla prima vittoria di Trump. Entrambi i partiti sono molto impopolari, ma il sistema elettorale, un maggioritario a turno unico, gli permette di sopravvivere. Trump ha preso il controllo del Partito repubblicano e lo ha plasmato a sua immagine, ma gli indici di gradimento sono molto bassi. I leader del Partito democratico sono sempre più contestati dagli elettori della base.
A New York il socialismo potrebbe vincere, ma sarebbe anche la vittoria di un candidato che si è trovato a sfidare una dinastia politica: Cuomo è il figlio di Mario Cuomo, governatore dello stato tra gli anni ottanta e novanta, è stato sposato con una Kennedy ed è stato tra i maggiori esponenti dell’élite democratica, fino alle dimissioni, quattro anni fa, dopo uno scandalo per molestie sessuali. Per quanto affascinati da Mamdani, i newyorchesi potrebbero aver fiutato che qualcosa non andava nella candidatura di Cuomo, e la sua sconfitta sarebbe la logica conseguenza. Mamdani incarna la frustrazione per un sistema politico ormai logoro.
I leader del Partito democratico restano tiepidi, se non freddi, di fronte alla prospettiva di un sindaco socialista. Né Chuck Schumer, capogruppo dell’opposizione al senato, né Hakeem Jeffries, capogruppo alla camera, hanno dato il loro sostegno a Mamdani, anche se vengono da New York. Entrambi sono noti per le loro posizioni fortemente filoisraeliane (la stessa Ocasio-Cortez, che ora è una convinta sostenitrice di Mamdani, ha aspettato fino a poche settimane prima della fine delle primarie per apparire al suo fianco a un comizio).
Ma la realtà è che probabilmente Mamdani non avrà bisogno del loro sostegno per battere Cuomo e il candidato repubblicano Curtis Sliwa. In una città saldamente progressista, il candidato del Partito democratico vince quasi sempre, anche se, come in questo caso, è un socialista musulmano. In vista delle elezioni di novembre, molti ex elettori di Cuomo stanno convergendo su Mamdani, e alcuni sindacati che gli si erano opposti alle primarie ora gli mettono a disposizione fondi e volontari.
Senza limiti
Un possibile ostacolo per Mamdani potrebbe essere Trump: Cuomo e altri esponenti dell’élite politica locale hanno chiesto aiuto al presidente per convincere l’attuale sindaco Eric Adams e Sliwa a ritirarsi dalla corsa. Adams, che si è fatto da parte alla fine di settembre, avrebbe dato disponibilità ad accettare un incarico nell’amministrazione Trump, dopo che il presidente lo ha aiutato a far cadere le accuse di corruzione nei suoi confronti all’inizio dell’anno. Sliwa, invece, ha dichiarato che andrà avanti fino alla fine. L’inerzia però resta dalla parte di Mamdani. Dopo l’omicidio di Kirk, Trump ha minacciato nuove misure repressive contro la sinistra. Non è da escludere che possa mobilitare la Cia e l’Fbi, come fece una volta Richard Nixon, per intimidire i militanti di sinistra. Il presidente ha già mostrato apertamente la sua ostilità verso Mamdani, mettendo in guardia contro una presunta “conquista comunista” di New York.
Se Mamdani vincerà, la sfida più difficile comincerà l’anno prossimo, quando ci sarà da governare. Sa che la sinistra, negli Stati Uniti e altrove, segue con interesse la sua parabola. “Molti scriveranno che una cosa del genere può succedere solo a New York, ma sono gli stessi che dicevano che non sarebbe mai potuta succedere nemmeno qui”, dice Mamdani. “Io credo che non ci siano limiti a quello che la politica può fare parlando direttamente ai lavoratori”. ◆ fas
Ross Barkan è un giornalista di New York. Ha scritto per il New Yorker, il New York Magazine e The Nation.
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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati