Sono poche le barriere artificiali che possono eguagliare la Grande muraglia cinese per dimensioni, ambizione o semplice presenza mitica. Queste mura sono così imponenti nell’immaginario collettivo che secondo alcuni sarebbero visibili dallo spazio, anche se in realtà non è così. Sembra un’affermazione plausibile, perfino intuitiva, in virtù delle sue grandiose proporzioni: un muro che attraversa montagne, valli e altipiani desolati. La mente resta sgomenta di fronte a un’opera simile.

Tuttavia, la Grande muraglia non è unica. In Australia c’è una manifestazione altrettanto impressionante dell’ingegno umano, e forse perfino di maestria tecnica. Quello che gli manca in termini di raffinatezza, comunque, è abbondantemente compensato dalla sua estensione. La Grande muraglia non ha mai fortificato tutta la Cina, mentre l’enorme Dingo fence (barriera anti-dingo) protegge un quarto del continente, percorrendolo ininterrotta quasi da una costa all’altra, attraverso uno dei paesaggi più inospitali al mondo. Eretta a protezione del sudest australiano, questa recinzione parte da un punto intermedio tra le città di Jandowae e Jimbour, nel Queensland meridionale, e si estende per più di 5.600 chilometri, terminando dopo la penisola di Eyre, sulla Grande baia australiana.

È interessante notare che la barriera più lunga del mondo è stata costruita ed è gestita al solo scopo di proteggere la pastorizia dell’entroterra australiano dalle predazioni di un canide. Il dingo, il famoso cane selvatico del continente del sud, è un animale complesso, capace di scatenare emozioni contrastanti. Questo canide rossiccio, di taglia media, con la pelliccia corta e liscia e un potente morso, è il più grande predatore dell’outback (entroterra) australiano e l’unica minaccia per ovini e altri animali da pascolo. Sono rare le notizie di episodi in cui ha attaccato anche gli esseri umani.

Sui dingo si dicono molte cose diverse: prezioso autoctono dell’outback, specie invasiva, feral dog (cane ferale o inselvatichito). È stato inserito nelle liste della “fauna autoctona” sulla base del Nature conservation act del 1992, e allo stesso tempo è classificato come “animale invasivo soggetto a restrizioni” dalla legge sulla biosicurezza del 2014. La situazione quindi è irrimediabilmente confusa, e un osservatore perplesso potrebbe ragionevolmente chiedersi perché.

Di tutti i continenti del mondo (a eccezione dell’Antartide), l’Australia è quello più isolato ecologicamente. Per 35 milioni di anni è andato alla deriva nei mari del sud, separato da tutte le altre masse continentali e senza quasi nessun contatto con le specie che le abitavano. Oltre agli inevitabili pipistrelli e alle foche che pullulano nei cieli e sulle coste di ogni terra emersa, gli unici mammiferi ad aver mai raggiunto il continente sono state alcune specie di piccoli roditori. Ne risultò una fauna al tempo stesso strana e meravigliosa: rettili giganti, uccelli che non volano e la quasi totale assenza di mammiferi placentati vivipari. Questo fino a quando un certo primate privo di pelliccia mise piede sulla costa, circa cinquantamila anni fa.

Di tutti i continenti l’Australia è quello più isolato dal punto di vista ecologico. Per 35 milioni di anni è andato alla deriva nei mari del sud

Il bilancio delle vittime nei millenni successivi è incommensurabile. Ogni singolo grande predatore terrestre sul continente fu spazzato via, tranne uno: un marsupiale striato, simile a un cane, chiamato tilacino. Unico tra i grandi carnivori australiani, questa specie ha tenuto duro, sopravvivendo sul continente e in Nuova Guinea fino a 3.500 anni fa. All’epoca gli austronesiani, un popolo di naviganti, avevano già intrapreso la loro grande espansione attraverso l’Oceania. Fu molto probabilmente questa cultura a portare con sé una particolare razza di cani primitivi che avrebbe spazzato via il tilacino ovunque tranne che in Tasmania. I discendenti di quegli antichi cani selvatici avrebbero continuato a consolidare la loro posizione nel continente al punto che in epoca coloniale il dingo era diventato l’unico predatore apicale dell’outback australiano. Fin da quando sono venuti a conoscenza di questa storia complessa, ecologi e biogeografi hanno avuto difficoltà a interpretarla. È vero che gli antenati del dingo hanno spazzato via il tilacino nel continente, ma ne hanno anche preso il posto; se dovessero sparire pure loro resterebbe un vuoto ecologico. Quali che siano la loro nicchia e la loro influenza, c’è un consenso generale sul fatto che questi cani sono i discendenti di un’antica introduzione domestica, cosa che di solito vale a una specie l’etichetta di “ ferale”, cioè non propriamente selvatica. La Field guide to mammals of Australia (Guida pratica ai mammiferi dell’Australia) di Peter Menk­horst e Frank Knight, in genere eccellente, considera il dingo una comune specie non autoctona, infilandolo tra le voci dei gatti e delle volpi invasive, e negandogli il diritto a uno status di conservazione. Si tratta di un aspetto molto importante, perché tale stato – “rischio minimo”, “vulnerabile” o “in pericolo”, secondo la lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) – è riconosciuto solo a specie “autentiche”. L’assenza dell’animale dalla lista rossa equivale quindi a negarne il valore in sé. Il caso del dingo, insomma, centra in pieno il dilemma ecologico del cambiamento ecosistemico, relativo a cosa significhi appartenere a un luogo in natura. In sostanza il dingo ci costringe a mettere in discussione la coerenza e la rilevanza del concetto di “autoctonia”.

Natura mutevole

Cosa significa per una specie essere autoctona o meno? Le origini di questa idea risalgono a un tempo lontano. Le grandi trasformazioni ecologiche – processi lenti e laboriosi – sfuggono quasi sempre alla portata dell’osservazione di qualche generazione. Anche laddove esistono alcune forme di memoria in grado di rievocare epoche molto lontane, gli elementi più generali della natura tendono a essere considerati essenzialmente come dati di fatto.

Senza una comprensione culturale di concetti come il tempo profondo, la storia geologica o l’evoluzione, in passato era perfettamente ragionevole presupporre la fissità della natura alla luce delle evidenze disponibili. La filosofia greca delle origini avrebbe alla fine cristallizzato queste premesse primordiali sull’immutabilità della natura nel quadro di un intricato e più robusto sistema cosmologico. L’idea della scala naturae, la “grande catena della vita”, postulava un ordine del mondo organizzato secondo una scala di perfezione decrescente. La grande catena era necessariamente inalterabile e i particolari di quell’ordine naturale diventarono un assoluto.

Da questa visione filosofica abbiamo tratto parecchi vantaggi. L’idea della fissità della natura, della sua coerenza e razionalità è stata fondamentale per la nascita della scienza moderna. Armati di questa fede nell’intelligibilità e nella continuità dell’ordine del creato, i primi naturalisti si proposero di esplorarne e catalogarne ogni angolo. Grazie a ciò sono state raccolte molte conoscenze, ma anche i campi fertili possono produrre erbacce. I primi esploratori non operavano nell’ambito delle nostre moderne definizioni di autoctonia e non autoctonia (alloctonia), ma le circostanze alla fine li costrinsero ad adeguarsi. La parola “nativo”, che deriva dalla radice latina natus (relativo alla nascita), in origine indicava ciò che era semplicemente naturale, inalterato, incolto, non addomesticato. In altre parole: una terra incontaminata.

Non sempre ai naturalisti era chiaro se una data specie avesse avuto origine nella regione in cui era stata documentata o se vi fosse stata portata artificialmente, magari da quegli stessi esploratori che per primi ne avevano registrato l’osservazione. Si sviluppò quindi la pratica di apporre un asterisco (*) per segnalare l’incertezza di una data voce.

Con il tempo sono emerse pratiche più elaborate per tenere traccia della “validità” di queste osservazioni, e l’asterisco degli inizi ha ceduto il posto a complesse definizioni. Qui sta l’embrione di tutto il moderno concetto di autoctonia: l’idea che determinate osservazioni abbiano documentato la natura come dovrebbe essere mentre altre ne abbiano annotato le deviazioni. In ogni luogo c’erano alcune specie che ne facevano parte, altre che erano fuori posto.

Alla fine, quando la disciplina dell’ecologia si è sviluppata per studiare le dinamiche degli ecosistemi sulla scala del paesaggio, la pratica di dividere il mondo in specie definite è stata allargata anche al livello delle comunità ecologiche. Nel suo libro epocale del 1998 Chance and change: ecology for conservationists (Opportunità e cambiamento: ecologia per biologi conservazionisti), William H. Drury ha scritto che molti osservatori “concepiscono il paesaggio, la vegetazione e altri organismi un’entità che esiste nel tempo e acquisisce una propria identità”.

Tutto ciò è di grande importanza, perché se le specie esistono come entità totalmente discrete organizzate in uno schema assoluto e preordinato, e se allo stesso modo le comunità ecologiche di cui fanno parte consistono di sistemi statici, allora non c’è alcun margine per il movimento di popolazioni, né per l’insediamento di nuovi arrivati. Significherebbe che la natura è essenzialmente fissa, e che ogni cambiamento rispetto alla condizione di partenza (qualunque esso sia) sarebbe solo deleterio. Questa idea generale, secondo cui la natura dovrebbe essere in un modo specifico, è perdurata a lungo anche dopo l’abbandono della grande catena della vita e della cosmologia che essa comportava.

New South Wales, Australia, dicembre 2023. La barriera contro i dingo (Andrew Merry, Getty)

La visione moderna delle comunità ecologiche intese come sistemi statici è direttamente riconducibile a quell’idea: la natura deve essere fondamentalmente inalterabile. Essere “nativo” vuol dire occupare il posto giusto in uno schema grandioso e fisso, e quelle popolazioni che non si conformano – per esempio, una certa razza di cani selvatici dell’outback australiano – non hanno quindi diritto a rivendicare alcuna autenticità ecologica e, di conseguenza, protezione.

Ci sono molti altri casi come quello del dingo. Alcuni potrebbero essere riconoscibili a causa del loro impatto ecologico deleterio, ma c’è tutta una schiera di altre specie che sono molto più difficili da separare dai paesaggi in cui vivono oggi. I biologi hanno introdotto il termine “archeofita” per indicare una pianta introdotta in un passato talmente lontano che nei millenni il suo status di non nativa è stato completamente eclissato. Gli esempi abbondano, e tra questi figurano alcuni elementi distintivi delle campagne inglesi, come il gittaione, l’artemisia e anche l’iconico papavero selvatico. Per gli animali non esiste un termine equivalente, eppure ce ne sono tanti: il dingo, naturalmente, ma anche i conigli in Inghilterra, il cervo rosso in Irlanda, i mufloni (ovini selvatici) a Cipro, il cusco (un genere di marsupiale) nelle isole melanesiane. Questi animali furono introdotti millenni fa. Il muflone di Cipro è riconosciuto come una sottospecie a sé, Ovis orientalis ophion, pur essendo un discendente dell’antica pecora domestica. Vale la pena notare che un’origine assolutamente analoga ha impedito al dingo di ottenere un riconoscimento come specie.

In realtà alcuni hanno affermato che il dingo, a prescindere dalle sue origini, è ormai un animale pienamente selvatico, parte integrante del suo ecosistema, che quindi non può essere considerato alla stregua del bestiame, o condannato come un semplice cane randagio. Tuttavia, la categoria di “inselvatichito” comporta per definizione di non poter essere superata. Quella tra selvatichezza e domestichezza è una dicotomia netta, ontologica, e la condizione di “feralità” è un’etichetta generica per qualsiasi membro della seconda categoria colto nel tentativo di sfuggire al peccato originale dell’amicizia con l’essere umano. Il tocco di Mida della nostra specie, che con una sua pennellata tramuta inevitabilmente la natura in artificio, può rimuovere alcuni lignaggi dalla vita selvatica, ma non può riportarveli. Una volta domestica, una specie resterà per sempre tale. Non c’è riscatto per il cane randagio.

Il problema si complica rapidamente: oltre i casi di movimenti assistiti, recenti o antichi, ci sono anche tutte quelle migrazioni apparentemente non assistite, puramente “naturali” avvenute in tempi storici. Quando la pressione umana in epoca coloniale causò un declino delle popolazioni di pinguino minore blu (Eudyptula minor) in Nuova Zelanda, il suo parente australiano, E. novaehollandiae, prese il sopravvento nella regione intorno a Otago. Oggi le due specie coesistono in zone diverse dell’Isola del Sud. La domanda sorge spontanea: quale delle due popolazioni è quella “legittima”? Gli intrusi australiani stanno forse impedendo ai loro cugini “più autoctoni” di riconquistare il loro areale di un tempo? Oppure il loro arrivo non assistito ne legittima la presenza?

Analogamente, prendiamo il caso dell’airone guardabuoi, che si è rapidamente diffuso nelle Americhe dopo il suo arrivo dall’Europa intorno agli anni settanta dell’ottocento, apparentemente di sua spontanea volontà, ma comunque in risposta a condizioni favorevoli create dagli esseri umani. Questa è una migrazione naturale o artificiale?

Queste popolazioni sono talvolta definite “neonative”, per rendere conto del dinamismo intrinseco dell’areale di una specie. Tuttavia le difficoltà non finiscono qui, perché questi movimenti non assistiti ma facilitati non sono solo una caratteristica del presente e del futuro, ma anche del passato. Pure un animale archetipico come l’alce, simbolo del Canada e del grande nordovest, sembrerebbe essere arrivato in Nordamerica solo alla fine dell’ultima era glaciale. Essere costretti a concludere che l’alce sia in qualche modo non nativo del Canada e dell’Alaska sembra quasi una perfetta reductio ad absurdum dell’intero concetto di rigida indigenità. L’autoctonia e l’alloctonia sono in ultima analisi concetti circoscritti da definizioni umane, mentre la differenza tra non nativo e neonativo è un giudizio che non ha niente a che fare con il reale impatto ecologico. Su un pianeta instabile, in movimento e dai confini porosi le cose cambiano e le nostre definizioni devono essere in grado di adattarsi alla realtà. Al tempo stesso, rifiutare le categorie di autoctonia e alloctonia sembra pericolosamente vicino a un invito all’anarchia ecologica.

Ordine in un mondo che cambia

Come scriveva Drury, in riferimento al pensiero di Aristotele: “Se si parte da premesse false, il dialogo e la logica non porteranno necessariamente alle giuste conclusioni”. Il disturbo e la perturbazione, se interpretati attraverso la lente di un mondo naturale essenzialmente fisso e inflessibile, sono scarsamente distinguibili dal “danno”. Se la causa di questa perturbazione è una specie nativa, deve trattarsi di una situazione di sovrappopolazione, che quindi richiede un “controllo”. Se la causa è un ingresso alieno, il suo impatto è la prova decisiva della sua malignità.

Nessuno negherebbe l’indigenità dei maori in Nuova Zelanda, eppure quando i loro antenati la raggiunsero erano nuovi in quelle terre

Raramente ci si domanda se il caos e il dinamismo possano in realtà trovare posto nello stadio originario di un ecosistema. La vera anomalia non sarà forse l’inerzia osservata in tempi storici recenti, prodotta dalla castrazione delle forze della natura? E soprattutto, il discorso politico e conservazionista a proposito di “autoctoni” e “invasivi” distingue in modo adeguato tra preoccupazioni essenzialmente estetiche ed ecologiche? Prendiamo il dingo: che si tratti di un discendente di un antico canide selvatico o di una sua emanazione parzialmente addomesticata, da un punto di vista ecosistemico è una questione irrilevante. L’unico luogo in cui la classificazione del dingo ha importanza è nelle menti dei funzionari statali australiani e dei biologi conservazionisti. Per loro la posta in gioco è stabilire se l’animale debba essere considerato una specie genuina, legittima, con un suo valore intrinseco, o un semplice cane randagio, neppure definibile come una specie a sé stante.

Drury rispose alla grande variabilità e mutevolezza della natura e alla mancanza di definizioni funzionali della sua epoca negando la sostanziale rilevanza del concetto di “comunità ecologiche”: le comunità, concludeva lo studioso, sono semplici cornici interpretative che noi imponiamo al caos del mondo naturale come ausili per la comunicazione e la comprensione. In questo Drury è essenzialmente una sorta di “concettualista ecologico”. Questo effettivamente risolverebbe le questioni, e forse anche gli aspetti pratici, sull’autoctonia delle specie: niente è davvero nativo, perché in definitiva non esistono reali comunità di cui essere nativi.

Ma forse non abbiamo bisogno di spingerci fino a questo punto. In quanto insiemi discreti di particolari specie, le comunità non sono totalmente autorganizzate o permanenti, come osserva Drury. Questi insiemi di organismi che a noi capita di trovare associati tra loro in natura sono di frequente il risultato di una buona dose di casualità e contingenza. Se viaggiassimo con una macchina del tempo avanti o indietro di tremila anni, l’assortimento di alberi in una data foresta probabilmente ci apparirebbe molto diverso.

Esiste, tuttavia, una differenza tra comunità ed ecosistemi. La validità degli ecosistemi in quanto genuini fenomeni naturali sembra salvabile se li concepiamo correttamente. Qui ci è utile il concetto di tratto funzionale. Secondo una delle definizioni, un tratto funzionale è “una proprietà misurabile, ben definita, degli organismi, solitamente misurata al livello individuale e usata comparativamente tra specie” che, in base a un’altra definizione, potrebbe corrispondere a “caratteri morfologici, biochimici, fisiologici, strutturali, fenologici o comportamentali… che ne influenzano le prestazioni o l’idoneità”.

I tratti determinano l’impatto che il loro portatore ha sul proprio ambiente, e le sue mutevoli capacità di rispondere a esso. Tra i vari esempi di tratti possiamo citare la capacità delle piante di disperdere i semi, l’appetibilità, i tassi di crescita, la taglia. Negli animali regolano il pascolamento, la caccia e tutte le altre forme di comportamento. Ricerche recenti hanno dimostrato che la diversità funzionale e le differenze in alcuni tratti essenziali tra piante introdotte e comunità di piante ospitanti forniscono il miglior indicatore del successo di una pianta invasiva. Ancor più significativo è quanto emerso da un articolo del 2024, il quale ha dimostrato che sono i tratti, e non una “indigenità” (pre)istorica, ad aver determinato gli effetti ecologici dei grandi mammiferi erbivori.

Predatore primario

Messa adeguatamente in evidenza, la preminenza di questi tratti sul relativo vettore diventa autoevidente: una determinata specie da preda non è interessata al genoma o alla morfologia del suo predatore primario, se non nella misura in cui queste cose ne influenzano il comportamento. Se esistesse una specie senza alcun legame di parentela ma con le stesse capacità e inclinazioni predatorie, la differenza filogenetica sarebbe piuttosto irrilevante per l’antilope destinata a diventarne il pasto. Malgrado ciò, non possiamo escludere i portatori dei tratti e la prospettiva del livello di specie dalle considerazioni ecologiche, perché tutte le creature sono portatrici non di uno, due o pochi tratti ecologici, ma di decine se non centinaia di caratteri.

I tratti – taglia, dieta, metabolismo, tassi riproduttivi – si presentano aggregati in un unico pacchetto e quindi è estremamente raro trovare due specie che siano in realtà perfettamente equivalenti l’una all’altra. Un bufalo d’acqua e un marsupiale estinto potrebbero essere sostanzialmente paragonabili in alcuni dei loro tratti ecologici, ma saranno sempre differenti per altri. La domanda decisiva, quindi, è quale possa essere il grado di affinità sufficiente. Il dingo non è un tilacino; i suoi effetti ecologici non corrispondono esattamente a quelli del suo parente estinto. Analogamente, i tratti dei leopardi o delle tigri non sono equivalenti a quelli dei leoni marsupiali, né il drago di Komodo è equiparabile ai suoi parenti australiani ormai scomparsi. Tuttavia, è “più innaturale” avere il predatore apicale australiano “sbagliato” o non avere affatto un predatore?

Una volta integrati, questi concetti potrebbero fornire una base flessibile e praticabile per pensare ai sistemi naturali. Un ecosistema è più della somma delle sue parti. È un sistema emergente la cui stabilità si fonda sui ruoli ricoperti dalle specie che lo compongono. Le singole specie potrebbero essere sostituite o andare perdute, ma finché i tratti chiave, e le interazioni tra essi, sussistono, l’ecosistema potrebbe sopravvivere in una sorta di “omeostasi”. L’autoctonia al livello di specie forse si comprende meglio se intesa come una condizione di integrazione in un intreccio preesistente e sovraordinato di ruoli e funzioni

Gli antichi greci hanno scritto e cantato molto sul tema del nostos, il “ritorno a casa”. Dovremmo riflettere sul concetto del “diventare casa”. Oggi nessuno penserebbe di negare l’indigenità dei maori in Nuova Zelanda, eppure quando i loro antenati raggiunsero le coste erano nuovi in quella terra. Appartenenza, patria e idoneità a un luogo non sono concetti che possiamo schivare in toto senza mettere a rischio il mondo, e la nostra comprensione di esso. Chiaramente, il legame tra il panda gigante e la Cina o tra il kiwi e la Nuova Zelanda non è puramente una questione di percezioni arbitrarie. Eppure, non possiamo tenere alla larga con una barriera tutti i dingo e i loro simili, né insistere sull’imporre alla natura criteri più statici dello stesso mondo naturale.

I sistemi ecologici, e le connessioni che li costituiscono, sono reali e cruciali. La questione è che nel nostro mondo in continua trasformazione non possiamo essere rigidi fino alla cecità, altrimenti rischiamo di non riuscire più a comprendere proprio quelle cose che stiamo cercando di salvaguardare. ◆ fdl

Tristan Søbye Rapp è cofondatore
di The Extinctions, un sito che studia la scomparsa delle specie animali.

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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati