Nella fisica classica, che dovrebbe valere sempre e ovunque, c’è un buco. Anzi per la precisione ce ne sono quaranta miliardi di miliardi. Si stima che sia questo il numero di buchi neri nell’universo osservabile. Nel loro centro la teoria fisica crolla, non ha più senso. Sono molti i motivi per cui fin dai tempi di Albert Einstein i fisici cercano una nuova e più generale descrizione dell’universo. I buchi neri sono forse quello più evidente, ma si sono sempre sottratti a qualsiasi tentativo di spiegazione.
Il problema della fisica è che dispone di due teorie molto valide, la teoria dei quanti e la teoria della relatività generale, entrambe risalenti a più di un secolo fa. La teoria dei quanti descrive benissimo cosa succede nel mondo dell’infinitamente piccolo, per esempio quando le particelle collidono negli acceleratori. La teoria della relatività generale di Einstein spiega la gravità, cioè il mondo dell’infinitamente grande: per esempio il movimento di pianeti e galassie. Purtroppo, le due teorie non sono compatibili. La fisica quantistica spezzetta tutto in minuscoli pacchetti indivisibili, i quanti. Perfino la luce viene servita a porzioni, i fotoni. La gravità invece non può essere spezzettata. In più, secondo la teoria di Einstein il tempo è relativo, cosa che non va d’accordo con la meccanica quantistica. Per conciliare le due teorie ci vorrebbe una teoria unitaria, chiamata gravità quantistica. Già Einstein, nella seconda parte della sua vita, si dedicò alla ricerca di una teoria simile. Ma senza successo.
Con i buchi neri il fallimento della teoria della relatività e della teoria dei quanti diventa evidente. Ricercatori come Dieter Lüst, direttore dell’istituto Max-Planck per la fisica, a Monaco di Baviera, usano termini più positivi: “I buchi neri sono un vastissimo parco giochi per la fisica teorica”. Sarà anche così, però è un parco in cui gli scienziati finora si sono soprattutto procurati parecchi lividi.
Eppure queste entità misteriose sono composte da ingredienti molto semplici. Un buco nero non è altro che massa estremamente compressa. Così densa che nemmeno la luce può sfuggire alla sua gravità. Che ciò sia possibile risulta direttamente dalle equazioni di Einstein. Nel 1916, dopo soli due mesi dalla pubblicazione della teoria della relatività generale, l’astronomo Karl Schwarzschild dimostrò che simili oggetti possono esistere.
Solo che i buchi neri erano difficili da osservare, e per molto tempo alcuni li hanno considerati pura speculazione. Ora non è più così: da anni i rilevatori captano onde gravitazionali provenienti dalla fusione di buchi neri, e con i radiotelescopi è stato possibile mappare il gas caldo che li circonda e l’ombra nera nel centro. Reinhard Genzel, condirettore dell’istituto Max-Planck per la fisica extraterrestre, ha ricevuto il premio Nobel nel 2020 per essere riuscito a misurare Sagittarius A*, il gigantesco buco nero al centro della Via lattea. Che i buchi neri esistano oggi è fuori discussione. Ma ci sono voluti anni per comprenderne il funzionamento. La teoria generale della relatività ipotizza che ogni massa, per esempio una stella, deformi la struttura dello spaziotempo. In un buco nero si raggiunge un’intensità energetica infinita, e tutta la materia viene compressa in un punto. Ma qualcosa non torna. In matematica questo tipo di fallimento si chiama “singolarità”. Come spiega Genzel, “questo fa dei buchi neri una questione fondamentale della fisica”. Perché esiste solo un’altra singolarità in grado di mandare a monte la teoria, e gli scienziati vorrebbero tanto comprenderla: il momento del big bang. Se analizzando i buchi neri si arrivasse a una nuova teoria gravitazionale, si potrebbe forse anche spiegare l’origine dell’universo.
Informazioni evaporate
La singolarità non è l’unico problema. I buchi neri aspirano materia dallo spazio circostante. Nell’universo si tratta per lo più di gas, che si raccoglie intorno al buco nero formando un disco rotante che si surriscalda. Questo disco incandescente emette una radiazione che può essere rilevata dai telescopi. Ma tutto ciò che si avvicina oltre un certo limite non può più tornare indietro, neanche un raggio di luce. Questa soglia si chiama orizzonte degli eventi. “Ovviamente c’è chi sostiene che dovremmo entrare dentro un buco nero”, dice Genzel. “E io rispondo: auguri! Forse è possibile entrarci, però poi sarebbe difficile pubblicare qualcosa a riguardo e vincere il Nobel”. Perché tutto ciò che succede in un buco nero rimane nascosto.
Eppure qualcosa può emergere. Nel 1974 il famoso astrofisico Stephen Hawking calcolò che i buchi neri non durano in eterno. Hawking descrisse il processo nel modo seguente: nello spaziotempo distorto intorno a un buco nero si formano spontaneamente coppie di particelle e antiparticelle. In prossimità dell’orizzonte degli eventi, una delle particelle può essere inghiottita dal buco nero, portando con sé energia negativa. L’altra particella, per esempio un fotone, può sfuggire al buco nero sotto forma della cosiddetta radiazione di Hawking. Ciò provoca una graduale erosione del buco nero, che perde energia. Dall’esterno la radiazione di Hawking ha l’aspetto di una radiazione termica. Per comprenderne la problematicità, bisogna considerare le acconciature dei buchi neri.
Negli anni sessanta il fisico John Wheeler coniò il motto: “I buchi neri non hanno capelli”. Intendeva descrivere una peculiarità delle voragini cosmiche, cioè che non possiedono altre proprietà oltre a massa, carica elettrica e momento angolare. “È pazzesco”, dice Harald Pfeiffer dell’istituto Max-Planck per la fisica gravitazionale di Potsdam, in Germania. “Se di un pianeta sapessimo solo che ha una certa massa e che una volta al giorno compie una rotazione sul proprio asse, rimarrebbero molte altre incertezze: è roccioso? Ha un’atmosfera? È molto caldo?”.
Invece i buchi neri sono tutti uguali. Qualsiasi cosa inghiottano – raggi x, neutroni, una piccola stella o una pizza surgelata – può cambiare solo la massa, il momento angolare e la carica elettrica del buco nero. Tutte le altre informazioni – quali atomi, molecole e radiazioni componevano il materiale assorbito – vanno perdute, al più tardi quando il buco nero evapora nella radiazione di Hawking. E questo è un problema. Perché nella fisica quantistica vale il principio di reversibilità. Se distruggiamo un dizionario, dal mucchio di pezzetti di carta potremmo risalire, almeno in teoria, alla collocazione originaria di ogni singolo frammento, e così ricostruire l’intero dizionario. Questo non vale per i buchi neri. Tutto diventa radiazione termica. Gli scienziati chiamano questo problema paradosso dell’informazione.
Ciò che Hawking predisse sui buchi neri, quindi, è altamente contraddittorio. Ma secondo Dieter Lüst “tutti i fisici teorici sono d’accordo sul fatto che un buco nero emetta la radiazione di Hawking”.
Finora questa radiazione non è stata dimostrata in maniera sperimentale, ma c’è una speranza: i buchi neri in miniatura. Quando l’universo era ancora molto giovane, in alcuni punti la materia potrebbe essere stata così compressa da formare minuscoli buchi neri, alcuni pesanti solo come una palla da bowling. In cosmologia sono chiamati buchi neri primordiali. Oggi, invece, è necessaria molta più materia, più di 23 volte la massa del Sole, affinché una stella morente possa diventare un buco nero.
I piccoli buchi neri emettono una radiazione di Hawking più intensa. Se ce ne sono abbastanza, in futuro i telescopi potrebbero rilevare questa radiazione. Gli astrofisici stimano che questi oggetti dovrebbero avere dimensioni simili a quelle di un asteroide, pesare tra uno e dieci miliardi di tonnellate ed essere distribuiti in tutto l’universo, quindi anche nel nostro sistema solare. Alcuni stanno cercando di individuarli osservando se le orbite dei pianeti sono deviate da masse di questo tipo.
Se si scoprissero dei buchi neri primordiali, sapremmo molte più cose sulla storia dell’universo. Ma i buchi neri stessi rimarrebbero un mistero. “Non possiamo studiare in modo diretto cosa succede oltre l’orizzonte degli eventi”, spiega Hermann Nicolai, direttore emerito all’istituto Max-Planck per la fisica gravitazionale.
◆ Un gruppo di scienziati ha stabilito che un segnale di onde gravitazionali captato dall’osservatorio Ligo il 23 novembre del 2023 è stato prodotto della più grande fusione tra buchi neri mai registrata, scrive New Scientist. I due oggetti coinvolti avevano una massa pari rispettivamente a 140 e cento volte quella del Sole, troppo grande perché fossero stati formati direttamente dal collasso di una stella, quindi i ricercatori ipotizzano che fossero il risultato di fusioni precedenti. Nei dieci anni da quando è in funzione Ligo ha registrato più di cento di questi eventi, ma i tagli ai fondi per la scienza proposti dal governo statunitense potrebbero ridurre drasticamente la sua operatività.
Ma si stanno facendo comunque dei tentativi. Con la teoria delle stringhe, per esempio, che descrive il mondo materiale attraverso un modello altamente complesso secondo cui le particelle elementari, come gli elettroni, nascono dalle vibrazioni di corde oscillanti. Queste stringhe rappresenterebbero i nuovi mattoni dell’universo. Le diverse configurazioni di vibrazioni danno origine alle particelle elementari conosciute. E nella teoria delle stringhe sono concepibili anche particelle elementari nuove.
Tuttavia, il modello ha un limite di natura matematica: “Per produrre le particelle elementari servono almeno dieci dimensioni”, afferma Lüst. Il che complica le cose, perché le dimensioni in eccesso devo essere riposte da qualche parte, un po’ come i calzini arrotolati nel cassetto della biancheria. Solo che esistono infinite possibilità per farlo.
La teoria delle stringhe offre in linea di principio molte soluzioni per la singolarità del centro dei buchi neri. Osservato da vicino, un buco nero sarebbe costituito da un groviglio di stringhe senza singolarità né orizzonte degli eventi. Anche se suona del tutto assurdo, questo modello produce risultati in accordo con altri calcoli. Perfino il problema della omogeneizzazione della materia potrebbe essere risolto: la radiazione di Hawking, che nella teoria dei quanti è solo radiazione termica, potrebbe rivelare molte più cose sulle particelle originarie. In questo modo si potrebbero ricostruire le informazioni apparentemente perdute.
Ma gli scienziati lavorano alla teoria delle stringhe da più di quarant’anni, e tra i suoi sostenitori si sta diffondendo una certa disillusione. Più si approfondiscono gli studi, più si scoprono modi in cui le dimensioni extra potrebbero essere compattate. Quindi, tra tutte le possibili versioni della teoria delle stringhe, quale descrive davvero il nostro universo? Finora il modello non ha prodotto previsioni verificabili. “I teorici delle stringhe volevano spiegare perché il mondo esiste in questo modo e non in un altro”, dice Nicolai. “Quest’obiettivo è stato in gran parte abbandonato. Ancora una volta scopriamo che la natura è molto più sofisticata di quanto pensassimo”.
Nessuna sorpresa
Forse una svolta potrebbe arrivare da una misurazione sperimentale che contraddica le teorie convenzionali. Nel 2015 il rilevatore Ligo ha osservato per la prima volta delle onde gravitazionali, che si creano per esempio quando due buchi neri si avvicinano fino a entrare in collisione. “Osservando questi processi di fusione potremmo trovare fenomeni che vanno oltre la teoria della relatività generale”, spiega Lüst.
Pfeiffer sta cercando discrepanze tra le previsioni della relatività generale e ciò che suggeriscono le onde gravitazionali a proposito dei buchi neri. Ancora però non ne ha trovate: “Le misurazioni delle onde gravitazionali non hanno cambiato i fondamenti della fisica”, spiega Pfeiffer.
Nicolai continua a sperare in nuove osservazioni. Per esempio, se si scoprisse di cosa è fatta la materia oscura, il misterioso collante delle galassie, la teoria potrebbe fare un balzo in avanti. Genzel è convinto che nei prossimi vent’anni le osservazioni astronomiche ci porteranno a un maggiore livello di conoscenza. “Ma ci sono due cose che non chiariranno: che succede all’interno dei buchi neri, e cosa c’era prima del big bang”, afferma.
Per il momento, quindi, i buchi neri sono destinati a rimanere un grande mistero, e allo stesso tempo una grande occasione per comprendere meglio l’universo. ◆ ct
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Questo articolo è uscito sul numero 1623 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati