In una gelida notte di dicembre del 2024, un uomo che chiamerò Bilal Ahmed era a letto, circondato dal silenzio degli alberi di mele intorno alla sua casa a due piani. Non aveva particolari preoccupazioni per la testa, ma una notte di riposo tranquillo è un lusso a Kadder, un villaggio nel distretto di Kulgam, nel Kashmir. I suoi abitanti, che si guadagnano la giornata lavorando nei frutteti, vivono nel costante terrore delle incursioni dell’esercito indiano. Per le strade non passa quasi giorno senza che le truppe svolgano operazioni di “perquisizione e messa in sicurezza”, con l’obiettivo dichiarato di localizzare e uccidere i guerriglieri presenti nella zona. Quando l’esercito ritiene di aver scovato un bersaglio, prima crivella di colpi una casa e poi la fa saltare in aria con l’esplosivo – una punizione che mira a scoraggiare altri kashmiri disposti a concedere ospitalità ai combattenti armati.

Queste dure misure antiguerriglia non hanno avuto un grande successo: la resistenza continua. Ma le forze indiane, indifferenti alla tenacia del popolo kashmiro, sono altrettanto determinate a soffocare ogni sfida. All’inizio di quel dicembre un grande contingente di soldati, forze paramilitari e polizia ha messo sotto assedio il villaggio di Bilal, prendendo posizione dietro mitragliatrici montate su torrette. Passata la mezzanotte una potente esplosione ha scosso l’area, facendo tremare le finestre di vetro con gli infissi in legno, ricoperte di ghiaccio. Al buio, nelle loro case di mattoni rossi con tetti di lamiera spioventi, gli abitanti terrorizzati si sono raggomitolati sul pavimento. Quando gli spari hanno squarciato l’aria fredda della notte, Bilal è balzato giù dal letto, è corso nella stanza accanto e ha preso in braccio la figlia, che dormiva con i nonni. La bambina soffre d’ansia, e lui sperava di consolarla, ma questa era l’ultima delle sue preoccupazioni in quel momento. Bilal ha portato tutta la famiglia — la moglie, i tre figli e i genitori anziani — in una stanza al piano terra, in modo che l’alto muro di cinta li proteggesse dai proiettili.

Fuori gioco

Nei trentacinque anni di resistenza contro l’India, le forze indiane hanno aperto il fuoco contro i non combattenti in numerose occasioni. Chi ha la fortuna di sopravvivere deve comunque sopportare il peso psicologico di una vita fianco a fianco con 700mila soldati ostili, stanziati nel territorio conteso. La famiglia di Bilal quella notte è sopravvissuta, ma ad altri non è andata così bene. Bashir Ahmad Malla, un maestro con tre figli, durante l’attacco ha avuto un infarto ed è morto. Era un uomo sano, si era svegliato alle tre del mattino per andare in bagno e poi era tornato a letto. Non si è più svegliato.

Nella lunga storia di lutti e asservimento del Kashmir, vittime come queste non compaiono nelle statistiche ufficiali del conflitto. Dal 1989 – l’anno in cui è esplosa la rivolta contro il dominio indiano – sono morte quasi 70mila persone tra civili, combattenti ribelli e soldati indiani. La maggior parte delle vittime è stata uccisa dalle forze indiane.

Quando gli spari a Kadder si sono placati sui social media ha cominciato a circolare la notizia che i militari avevano ucciso cinque combattenti dell’Hizbul mujahideen, la più antica formazione armata del Kashmir, fondata nel 1989 con il sostegno del Pakistan per indebolire il controllo dei militari sulla regione. In una conferenza stampa dopo lo scontro i funzionari indiani hanno dichiarato che Kulgam e la vicina regione di Shopian erano libere dai ribelli. I guerriglieri, hanno detto, per il momento erano fuori gioco.

Avrò partecipato a una decine di simili conferenze stampa improvvisate sui luoghi degli scontri. Circa 17 anni fa, quando dirigevo la redazione del Kashmir per Times Now, il più noto canale televisivo indiano in lingua inglese, seguii una battaglia a Yaripora, una cittadina pochi chilometri a nordest di Kadder. Per tre giorni insieme alla mia troupe, con un camion satellitare al seguito, raccontammo come un gruppo di combattenti kashmiri male armati riuscì a resistere per quasi 70 ore prima di essere sopraffatto da una pioggia di bombe e raffiche di mitragliatrice. All’epoca gli alti funzionari della sicurezza che coordinavano l’operazione militare dichiararono con toni trionfalistici che nella zona la lotta armata contro l’India era finita. Quella spavalderia si rivelò di breve durata: nel giro di cinque anni una nuova generazione di giovani prese le armi, dando il via a un altro sanguinoso capitolo della saga. E lo scorso maggio i ribelli hanno lanciato il loro attacco più sanguinoso, uccidendo 28 turisti indiani nella località di villeggiatura di Pahalgam.

Eppure, nonostante decenni di resistenza accanita, New Delhi si rifiuta di riconoscere le richieste di autodeterminazione dei kashmiri. Anzi, continua a essere convinta che, esercitando la necessaria forza militare, alla fine riuscirà a consolidare il suo potere mettendo a tacere l’irrequieta popolazione. E negli ultimi anni il governo di Narendra Modi ha aggiunto una nuova tattica: un progetto per insediare cittadini indiani nella regione e modificarne la demografia a maggioranza musulmana.

Al di sopra di una collina di frutteti si estende un enorme campo militare che domina Kadder. Istituito più di una trentina di anni fa, è più vecchio di molti abitanti della zona. Tutti hanno paura di attraversarlo: i soldati controllano ogni movimento sulla strada che lo costeggia, un corridoio delimitato da una recinzione di fil di ferro e sorvegliato da videocamere. A maggio con un amico giornalista abbiamo deciso di andare a dare un’occhiata.

Il ritmo dettato dalle armi

Salire in auto lungo la strada stretta e tortuosa che collega Kadder a Behibagh, un villaggio a tre chilometri di distanza, è come attraversare la frontiera tra due nazioni nemiche. Poco oltre l’ingresso del campo ci ferma un soldato con un fucile automatico. “Kahaan jaa rahe ho?, dove siete diretti?”, chiede con tono burbero al mio collega. “Behibagh”, risponde lui.

Il soldato fissa la sua carta d’identità: un giornalista. Poi alza gli occhi e mi lancia uno sguardo. “Yeh kaun? E lui chi è?”, domanda. “Un amico”. Ci ordina di non ricevere o fare chiamate dai nostri telefoni, di chiudere i finestrini e di procedere a passo d’uomo. Obbediamo. Voltandomi a sinistra, vedo un busto su un piedistallo: un monumento a Umar Fayaz, un tenente dell’esercito indiano originario di Kulgam che nel 2017 fu sequestrato dai guerriglieri durante un matrimonio, picchiato e poi ucciso a colpi d’arma da fuoco. Agli occhi degli insorti Fayaz aveva commesso un errore imperdonabile unendosi al nemico contro il suo stesso popolo. Meno di un anno dopo l’esercito si vendicò, uccidendo i responsabili della sua morte. Dopo altri dieci mesi i ribelli a loro volta risposero ammazzando Aman Thakur, un agente di polizia. Da allora è stato versato molto altro sangue da entrambe le parti. Il ciclo di morte continua.

Più tardi, tornando a Kadder per la stessa strada, rispettiamo le regole accertandoci di arrivare prima delle cinque del pomeriggio, quando i soldati chiudono il cancello per la notte. Dopo quell’ora gli abitanti dei villaggi sui due lati sono costretti a una deviazione che richiede il doppio del tempo. Le loro vite sono nelle mani dei soldati, il ritmo e l’umore delle giornate dettati dalle armi.

Anche se il conflitto è di lunga data, i recenti tentativi di mettere a tacere i kashmiri sono senza precedenti. Negli ultimi anni il governo Modi ha intensificato la repressione politica fino a raggiungere, a detta degli esperti, livelli vicini al totalitarismo. Ha incarcerato leader e attivisti del movimento azaadi (libertà), come pure avvocati, giornalisti, imprenditori, studenti, religiosi e difensori dei diritti umani, incriminandoli in molti casi con accuse di terrorismo. Centinaia di giovani uomini sono stati sottoposti a torture nei campi militari. Video trapelati mostrano soldati che con i manganelli colpiscono le natiche nude dei ragazzi. Nel 2019 a Pulwama, nel Kashmir meridionale, il quindicenne Yawar Ahmad Bhat si è tolto la vita per gli abusi subiti mentre si trovava sotto la loro custodia.

Una casa colpita dall’artiglieria pachistana a Poonch, Jammu e Kashmir, 14 maggio 2025  (Atul Loke, The New York Times/Contrasto)

Da allora lo stato indiano, indifferente alle condanne delle organizzazioni internazionali per i diritti umani, è diventato anche più impudente. Nel novembre scorso le famiglie di cinque uomini arrestati nelle incursioni notturne a Kishtwar hanno accusato le forze di sicurezza di averli sottoposti a feroci torture. Negli ultimi anni le aride pianure al confine con il Kashmir hanno visto aumentare la violenza dei ribelli, con decine di soldati uccisi in agguati sui pendii boscosi delle montagne, spingendo l’India a prendere di mira i civili sospettati di connivenza con i combattenti. Ma la repressione non ha dissuaso i tanti kashmiri che continuano a sostenere l’obiettivo degli insorti di liberare il territorio dall’occupazione, anche se oggi devono esprimere il loro dissenso in silenzio: dal 2019 l’attività politica che in passato si svolgeva sui social media o con proteste e raduni agli angoli delle strade è stata azzerata. A guidare la repressione è un progetto d’insediamento coloniale cominciato più di cinque anni fa.

Stato di emergenza

Nei primi giorni dell’agosto 2019 il Jammu e Kashmir piombò nel caos. Il partito del primo ministro Modi, il Bharatiya janata party (Bjp), aveva ordinato a più di un milione di lavoratori migranti, vacanzieri e pellegrini indù di lasciare la regione. Poi aveva inviato nuovi contingenti di truppe a rafforzare i 700mila effettivi già di stanza nel territorio conteso. Anche senza conoscere il motivo di questa mobilitazione, i kashmiri fecero scorte di generi alimentari, medicinali e carburante per le auto. La frenesia del giorno lasciava spazio all’incertezza della notte. Decine di migliaia di soldati armati uscirono dalle basi militari indiane e si riversarono nelle case di tutta la regione. Arrestarono leader politici, attivisti del movimento azaadi e chiunque ritenessero in grado di istigare una rivolta. Migliaia di kashmiri finirono nelle carceri indiane, a centinaia di chilometri da casa.

Poi, la mattina del 5 agosto, il governo indiano annunciò lo stato d’emergenza, confinando in casa più di dieci milioni di persone. Internet e i telefoni non funzionavano; noi non riuscivamo a capire cosa ci stesse succedendo. Sulle strade regnava il silenzio, rotto solo dal rumore degli stivali dei soldati. Ero sopraffatto dalla paura, da un senso di impotenza e di rabbia. I miei genitori, fragili e malati, vivevano a una cinquantina di chilometri. Erano riusciti a procurarsi una scorta sufficiente delle medicine di cui avevano bisogno? Non c’era modo di saperlo.

Ci rivolgemmo ai notiziari tv. Di solito non guardiamo la tv indiana – i reportage sul Kashmir raramente sono imparziali, ripetono a pappagallo la linea del governo e descrivono ogni espressione di resistenza dei kashmiri come un atto terroristi­co, ma stavolta avevamo bisogno di informazioni. Scoprimmo che, riuniti nella lok sabha (una delle due camere del parlamento indiano) a New Delhi, i deputati avevano approvato la “risoluzione” del governo per abrogare l’articolo 370, una norma costituzionale che dal 1949 permetteva ai parlamentari del Kashmir di emanare leggi a tutela della loro terra, dei posti di lavoro e della cultura. Da anni il governo nazionalista indù cercava un modo di infliggere un duro colpo al Kashmir. Ora aveva trovato la risposta: privarlo del suo status di autonomia parziale. L’articolo 370, tra le altre cose, proteggeva le terre dello stato, vietando ai non kashmiri di acquistare proprietà nella regione. Ma dopo la sua abrogazione il governo Modi ha emanato leggi che consentono ai cittadini indiani di votare, presentare domanda di lavoro e acquistare terreni. Per i kashmiri era un passo verso la realizzazione del vecchio sogno revanscista dei nazionalisti indù: trasformare il Kashmir in uno stato a maggioranza indù.

Le terre confiscate

I loro timori erano fondati. Dopo l’approvazione della risoluzione, il governo Modi ha gettato le basi per una futura espropriazione delle terre del Kashmir. Nel gennaio 2023 ha scatenato una campagna di sfratti in tutto il territorio, requisendo terre statali dai cosiddetti abusivi, un termine usato con disinvoltura che nasconde la vera natura della campagna: espellere migliaia di kashmiri dai campi che le loro famiglie coltivavano da decenni. I nomadi indigeni sono stati cacciati dalle foreste dove vivevano, mentre case e attività commerciali sono state rase al suolo. Il governo ha dichiarato di aver confiscato, complessivamente, più di 42mila ettari di terreni. In un rapporto del 2024 la Federazione internazionale per i diritti umani, un’organizzazione francese, ha rilevato che l’India ha espropriato i kashmiri di una superficie pari a quella di Hong Kong. Le nuove leggi, dice il rapporto, hanno permesso “alle autorità indiane di sfrattare con la forza e privare delle loro case migliaia di kashmiri, senza seguire le regole e in violazione degli obblighi internazionali in materia di diritti umani”.

Gradualmente il piano di Modi per rimodellare il Kashmir ha cominciato a delinearsi con chiarezza. Parlando di sviluppo e “trasformazione” dello stato in un “territorio industrializzato”, il governo di New Delhi ha venduto terreni ai capitalisti indiani. Tra questi figura Sajjan Jindal, un imprenditore alla guida del conglomerato Jsw group e aperto sostenitore dell’abrogazione dell’articolo 370: appena sono decadute le restrizioni sulla proprietà ha acquistato un terreno di tre ettari e mezzo per costruire un’acciaieria a Pulwama. Negli ultimi anni sono state assegnate terre a più di 1.800 aziende, e il governo dichiara di aver ricevuto proposte d’investimento per un valore di dieci miliardi di dollari. Com’era prevedibile, sono molti in Kashmir a considerare questo cosiddetto sviluppo – una curiosa sintesi di politica d’occupazione e neoliberismo – solo un espediente per azzerare la maggioranza musulmana del territorio. In risposta a questo progetto i guerriglieri hanno preso di mira i civili, uccidendone circa 130 negli ultimi anni. Molti degli uomini assassinati erano migranti provenienti da vari stati dell’India, considerati coloni dai gruppi ribelli.

Un solo colpevole

Quando i combattenti del Kashmir attaccano i soldati o i civili indiani, New Delhi punta sistematicamente il dito contro un solo colpevole: il Pakistan. Secondo l’India, fornendo addestramento e armi ai ribelli, il Pakistan sponsorizza una “guerra per procura” contro il suo vicino. Naturalmente Islamabad respinge l’accusa, sostenendo di assicurare ai kashmiri solo un sostegno morale, politico e diplomatico per il loro movimento di liberazione. La verità sta nel mezzo. È ben noto che negli ultimi trent’anni ufficiali dell’Inter services intelligence (Isi), i servizi segreti pachistani, hanno inviato uomini oltre il confine per aiutare i ribelli kashmiri. E storicamente il Pakistan è sempre stato convinto che il Kashmir – una regione a maggioranza musulmana – sarebbe dovuto entrare a far parte del suo territorio nel 1947, al momento della partizione del subcontinente secondo le appartenenze religiose. Dopo la revoca dell’articolo 370, l’Isi ha cominciato a rafforzare le file dei ribelli con uomini più duri ed esperti.

Come il Pakistan, anche la Cina non ha accolto favorevolmente la revoca dello status di semiautonomia del Kashmir

E il Pakistan rimane aggrappato al sogno di liberare il Kashmir dal suo grande rivale. In soli quattro giorni, nell’ottobre 2024, gli insorti hanno attaccato alcuni operai al lavoro a un progetto infrastrutturale e un convoglio militare, uccidendo dodici persone, fra cui tre soldati. A Gagangeer, nel distretto di Ganderbal, 70 chilometri a nordest di Srinagar, almeno due ribelli armati hanno aperto il fuoco contro degli operai edili nei loro alloggi uccidendo sei indiani e un medico kashmiro. Gli operai, che lavoravano per una ditta di costruzioni indiana, stavano scavando un tunnel nell’Himalaya su un terreno impervio e innevato per un’autostrada che, come auspica il governo di New Delhi, dovrebbe garantire tutto l’anno ai suoi soldati l’accesso al confine con la Cina in una regione nell’estremità orientale del Kashmir. Qualche giorno dopo un gruppo di guerriglieri sulle montagne vicine alla frontiera pesantemente militarizzata con il Pakistan ha teso un’imboscata a una colonna di veicoli provenienti da una grande base militare indiana a Gulmarg, una cinquantina di chilometri a ovest di Srinagar, per poi sparire nelle foreste di pini. Un attacco che, ancora una volta, portava chiaramente il segno del Pakistan. Nell’agguato sono morti tre soldati e due civili. Entrambi gli attacchi hanno colto impreparato l’apparato della sicurezza indiano. Per anni, infatti, quelle due aree remote erano rimaste in larga misura estranee alle azioni dei ribelli. Ma la crescente abilità dell’offensiva guerrigliera, rafforzata dal sostegno di cui godeva sul territorio, ha lasciato la rete di sicurezza in difficoltà.

Dichiarazione d’intenti

Una mattina del novembre 2024 gli abitanti di Khanyar, un vecchio quartiere di Srinagar, la capitale del Kashmir, si sono svegliati al suono di spari che squarciavano il silenzio dei vicoli. Un alto comandante della guerriglia originario del Pakistan era stato localizzato all’interno di una casa. Braccato e senza via di fuga, si è preparato a combattere. Nello scontro sono rimasti feriti quattro soldati, e c’è voluto un giorno intero perché le forze di sicurezza riprendessero il controllo della zona. Subito dopo le armi hanno risuonato anche in altre zone della valle. Ad Anant­nag, 55 chilometri a sud di Khanyar e a Bandipora, nel nord del Kashmir, dove gli insorti hanno aperto il fuoco contro i soldati prima di ritirarsi nella foresta. I loro spari erano un’esplicita dichiarazione d’intenti: fermare i coloni in arrivo dall’India.

L’illusione della pace si è infranta di nuovo alla fine di aprile, sugli alti pascoli di Pahalgam, una cittadina in un angolo remoto del Kashmir meridionale. Mentre centinaia di turisti indiani si godevano la vista dei picchi torreggianti e la brezza fresca che arrivava dalle creste innevate, tre uomini armati di fucili automatici sono sbucati da un fitto bosco di pini su un pendio sovrastante. I tre si sono avvicinati ad alcune coppie ignare, anche con bambini, e a gruppi di uomini e donne. Chiedendo i loro nomi hanno separato gli uomini e ne hanno uccisi 26, ferendone gravemente molti altri davanti agli occhi atterriti delle donne e dei bambini, che hanno fortunatamente risparmiato. Basandosi sui loro nomi, gli assalitori si erano assicurati che le vittime fossero indù e non musulmani (l’unico musulmano ucciso è stato uno degli accompagnatori kashmiri che si era scagliato contro un aggressore). Questo massacro a sangue freddo ha sconvolto molti nella regione: nei 35 anni della sanguinosa storia della resistenza armata contro l’India i turisti non erano mai stati attaccati in modo così atroce. Ma i tentativi dell’India di colonizzare la regione non erano mai stati così spudorati.

Attentati e rappresaglie

Qualche ora dopo la sparatoria il gruppo ribelle The resistance front (Trf) ha rivendicato la carneficina sul suo canale Telegram. Qualche giorno dopo, però, ha ritrattato sostenendo che il messaggio era stato pubblicato senza autorizzazione a causa di una “intrusione informatica”. I ribelli hanno accusato gli “agenti del ciberspionaggio” indiano di aver hackerato le loro piattaforme social nella speranza di screditare la resistenza kashmira.

Da parte sua, il governo Modi era convinto che la responsabilità andasse imputata al Pakistan e ai gruppi che sostiene con armi e addestramento. Islamabad ha negato, sfidando New Delhi a fornire prove della sua complicità – e a sua volta ha accusato l’India, senza fornire prove, di aver inscenato il massacro per mettere in cattiva luce il paese proprio mentre il vicepresidente degli Stati Uniti, J D Vance, si trovava in visita diplomatica in India.

La vasta caccia all’uomo lanciata dalle forze indiane sulle pendici boscose dell’Himalaya non ha dato alcun risultato. Ma molti kashmiri vedono il nuovo giro di vite – e il nuovo ciclo di sofferenze che ha innescato – come una forma di rappresaglia collettiva: decine di case sono state demolite; più di 1.500 giovani uomini sono stati arrestati e uno di loro, secondo la famiglia, è stato ucciso mentre era in custodia; decine di donne di origine pachistana sposate con uomini kashmiri, alcune da più di quarant’anni, vengono riportate a forza nel loro paese.

Due settimane dopo la strage di Pahalgam l’ostilità tra i due vicini si è aggravata perché il governo Modi ha ordinato attacchi con missili e droni contro il Pakistan, sostenendo di aver colpito “campi di addestramento” e ucciso “più di cento terroristi”. Secondo i pachistani hanno colpito i civili, uccidendone 31, tra cui alcuni bambini, e moschee, non terroristi. L’aeronautica pachistana ha detto di aver abbattuto cinque aerei da guerra indiani. In un primo momento New Delhi non ha confermato. Il braccio di ferro è andato avanti e solo per le pressioni degli Stati Uniti (a detta di Donald Trump, ma New Delhi non è d’accordo) la deriva verso una guerra è stata fermata. Ma la possibilità che la crisi degeneri resta.

Quasi cinquecento giovani sono stati portati via dalle forze governative per “interrogatori”, un eufemismo per tortura

L’aggressione cartografica

In una fredda giornata di gennaio a Ganderbal, pochi mesi prima dell’attacco di Pahalgam, Modi appariva sorprendentemente calmo. Il presidente si trovava nel distretto per inaugurare un progetto infrastrutturale per migliorare i collegamenti stradali, destinato a partire tre mesi dopo l’uccisione dei sei operai edili avvenuta in un vicino cantiere di scavo di un tunnel. Ma nel suo discorso Modi ha accennato appena all’attacco dei ribelli. E non ha citato un altro episodio che rannuvolava il suo progetto di sviluppo della regione: il sanguinoso scontro avvenuto anni prima tra gli eserciti indiano e cinese sull’altopiano del Ladakh.

Come il Pakistan, anche la Cina non aveva accolto favorevolmente la revoca dello status di semiautonomia del Kashmir. Aveva definito l’atto “unilaterale”, accusando minacciosamente New Delhi di aver “compromesso la sovranità territoriale della Cina”. A irritare particolarmente Pechino è stata la divisione dello stato in due entità separate: Jammu e Kash­mir da una parte, e Ladakh dall’altra, entrambe amministrate direttamente da New Delhi. Peggiorando ulteriormente la situazione, la nuova mappa di Modi rappresentava l’Aksai Chin – una regione a est del Kashmir amministrata dalla Cina – come territorio indiano, un atto che Pechino si era affrettata a definire “aggressione cartografica”. Preso dalla preoccupazione di una rivolta nella valle del Kashmir, il governo Modi non aveva saputo leggere le intenzioni della Cina nel La­dakh­. Nel maggio 2020 i suoi soldati notarono enormi distaccamenti dell’esercito cinese che occupavano postazioni indiane non presidiate nella valle di Galwan e nella zona nordorientale del Ladakh. Secondo gli esperti indiani di difesa, la Cina si era appropriata di circa 80 chilometri quadrati di terra inabitabile nella zona. Ma il governo Modi continuò a insistere di non aver perso alcun territorio. Un mese dopo c’è stata una rissa tra i due eserciti nella valle di Galwan, in cui i soldati cinesi hanno ucciso a colpi di bastone e mazze chiodate almeno venti militari indiani, perdendo cinque commilitoni. Dopo quell’episodio i rapporti tra i due paesi – già logorati da decenni di dispute irrisolte – sono precipitati. Il governo Modi ha aumentato la pressione sulle aziende cinesi, impedendogli di investire in alcuni settori. Ha addirittura bandito decine di applicazioni cinesi di commercio online e videogiochi. Ma Pechino è rimasta sulla sua posizione, mantenendo il controllo del territorio conquistato.

Prima di quella prova di forza, l’India aveva dovuto fare i conti solo con il movimento di resistenza sostenuto dal Pakistan. Ma secondo Wang Shida, esperto di Asia meridionale dei China institutes of contemporary international relations, con sede a Pechino, l’abrogazione dell’articolo 370 “ha costretto la Cina a entrare nella controversia sul Kashmir”. Lo scorso ottobre, tuttavia, i due paesi, dopo mesi di discussioni, hanno concordato un disimpegno militare nel Ladakh.

A Ganderbal la retorica di Modi ha fatto da cassa di risonanza delle azioni volte a rafforzare il controllo militare attraverso la costruzione di un’ampia rete di progetti infrastrutturali. “Qui si sta costruendo il tunnel più alto del mondo”, ha detto, aggiungendo che il Kashmir ora vanta anche “il ponte ferroviario più alto” e che la popolazione “è contenta dei lavori di sviluppo”. In realtà è riuscito solo a suscitare paura e odio.

Abitanti di Uri, vicino al confine con il Pakistan, scappano dopo gli attacchi delle forze pachistane, 9 maggio 2025 (Yawar Nazir, Getty)

Una mattina di quello stesso gennaio ho guidato fino a Bijbehara, una cittadina 45 chilometri a sud di Srinagar, lungo un’autostrada a quattro corsie che si snoda tra campi di riso e zafferano, frutteti, foreste, montagne e ruscelli, collegando il Kashmir all’India. Era una giornata invernale insolitamente luminosa; in lontananza vedevo la neve sull’Himalaya scintillare al sole. Ma questo non sollevava l’umore degli abitanti di Dirhama, una comunità di 150 famiglie vicino a Bijbehara che viveva da mesi con la sensazione di una calamità imminente. L’anno prima il ronzio di un drone che sorvolava il villaggio aveva turbato un tranquillo quartiere di case in cemento, con ampie finestre e tetti di lamiera spioventi. Un gruppo di funzionari delle imposte stava esaminando frutteti e campi arati per progettare la costruzione di una linea ferroviaria in una zona confinante con una riserva naturale e un torrente alimentato dallo scioglimento delle nevi. Gli agricoltori di Dirhama erano stati informati che i loro terreni sarebbero stati espropriati per un gigantesco progetto di sviluppo: una linea di 77 chilometri fino a Pahalgam, dove i ribelli avevano attaccato i turisti un mese prima. Non c’era mai stata una richiesta pressante della popolazione locale per una linea ferroviaria tra le due città. E allora, si chiedono gli abitanti, perché costruirla?

Il treno come vendetta

Ghulam Mohammad Bhat, un robusto settantenne dall’espressione solenne, possiede poco meno di un ettaro di terra dove coltiva mele e riso, la cui vendita serve a mantenere una famiglia di sette persone. Nel corso degli anni i Bhat sono riusciti a vivere dignitosamente, ma ora che ogni centimetro della proprietà è destinato a essere requisito per la ferrovia, si trovano di fronte a un futuro incerto. “Non gli permetteremo di costruire la ferrovia”, dice Bhat con decisione. Gli agricoltori, mi dice, rischieranno la vita pur di difendere la terra: la maggior parte di loro non ha altre fonti di reddito. Abdul Rashid, un suo vicino, si ferma a chiacchierare con noi sul bordo della strada, posando il suo carretto carico di letame. Con quattro figli piccoli, Rashid, laureato in lettere, aveva lasciato il lavoro di insegnante per dedicarsi a tempo pieno all’agricoltura. Se il progetto della ferrovia andrà avanti, dovrà cedere almeno duemila metri quadrati della sua piccola proprietà.

A una trentina di chilometri, gli abitanti di Shopian aspettano con angoscia l’arrivo di un’altra linea ferroviaria da Pulwama alla loro cittadina. È già stato fatto il rilievo, sono stati individuati i terreni e avvisati gli agricoltori. La ferrovia attraverserà campi di mele, pere e mandorle, distruggendo vaste aree che producono parte della frutta di migliore qualità del Kashmir. Per le migliaia di famiglie che vivono lungo i due tracciati e perderanno le loro terre coltivabili la ferrovia non è altro che una vendetta del governo nazionalista indù per privarli dei loro mezzi di sostentamento, condannare l’economia locale e ridurre l’intera regione in miseria.

L’esproprio dei terreni agricoli nei villaggi di Dirhama e Shopian è solo un esempio dell’implacabile assalto alle terre del Kashmir in corso da anni. Secondo il ministero dell’ambiente, delle foreste e del cambiamento climatico a New Delhi, tra il 2021 e il 2024 più di 576 ettari di foresta sono stati destinati a “progetti infrastrutturali e commerciali”. Con quasi tutta la leadership della resistenza in carcere dal 2019 e il dissenso politico criminalizzato al punto che esprimere sostegno alla resistenza comporta il rischio di prigione o peggio, il compito di dar voce all’opposizione è ricaduto sui partiti filoindiani del Kashmir – paradossalmente, gli stessi che per decenni hanno fornito a New Delhi la copertura politica per rafforzare il suo controllo.

Provocazione nel santuario

◆ Il 5 settembre 2025 un gruppo di manifestanti ha vandalizzato una placca con l’emblema dello stato indiano che era stata apposta dentro il santuario Hazratbal di Srinagar, un luogo sacro ai musulmani perché contiene una reliquia del profeta Maometto. In seguito all’azione vandalica la polizia ha arrestato tra le venti e le cinquanta persone. “Quello che era cominciato come la presentazione del restauro del santuario si è trasformato in una controversia sull’identità, le sensibilità religiose e l’autorità politica”, scrive il Kashmir Times. “Il simbolo dell’India dentro la principale sala per le preghiere del santuario non solo ha provocato una rara dimostrazione di rabbia tra i fedeli ma ha anche dato il via a detenzioni, diffamazione tra politici e accuse di provocazione deliberata”.


Uno di questi nuovi dissidenti è Aga Ruhullah Mehdi, deputato della lok sabha per il National conference (Nc), che rappresenta il collegio di Srinagar. Pur convinto che il Kashmir non debba separarsi dall’India, ritiene che il territorio debba riottenere lo status di semiautonomia. Critico dichiarato della politica di Modi in Kashmir, Mehdi all’inizio dell’anno ha fatto infuriare molti nazionalisti indù con le sue dichiarazioni sul massiccio afflusso di turisti indiani nel Kashmir, definendo i quasi tre milioni di visitatori del 2024 “un’invasione culturale intenzionale e programmata”. Lo scorso marzo Mehdi si è alzato alla lok sabha per denunciare il governo Modi che ha “imposto” al Kashmir le linee ferroviarie. “Distruggerà frutteti e terreni agricoli”, ha detto. “L’orticoltura è una grande fonte di reddito per noi ed è anche parte della nostra identità e del nostro patrimonio. Non vogliamo perderla”.

Allo stesso tempo i kashmiri sentono attaccata la loro identità musulmana. Il giorno dell’Eid al Fitr, la festa che segna la fine del mese sacro del digiuno, questa sensazione si è intensificata. Tradizionalmente i musulmani kashmiri celebrano le preghiere dell’Eid in un’ampia spianata a Srinagar, l’Eid Gah. Ma il 31 marzo New Delhi, temendo che l’occasione potesse alimentare manifestazioni antindiane su vasta scala, ha vietato l’assemblea dei fedeli. Mirwaiz Umar Farooq, leader religioso del Kashmir, ha accusato il governo di aver violato i loro diritti religiosi.

Ciclo di sofferenza

Nel frattempo gli abitanti di Kadder continuano a soffrire. Il villaggio porta i segni della violenza sui muri crivellati, sugli alberi spezzati e sui volti impauriti dei suoi abitanti. A gennaio con un vecchio collega abbiamo camminato nella neve alta fino alle ginocchia per raggiungere il frutteto dove a dicembre i combattenti uccisi avevano opposto l’ultima resistenza. Strisce di garza bianca sporche di fango avvolgevano i rami danneggiati, come a curare una ferita. Ma il villaggio non sta guarendo. Pur avendo risorse abbondanti, non può goderne. La disperazione e la paura delle persone che ho incontrato mi hanno perseguitato per giorni: bambini, giovani, adulti e anziani, nessuno sembra essere stato risparmiato. Il farmacista del paese mi dice che il consumo di farmaci per disturbi mentali, in particolare ansia e psicosi, è aumentato vertiginosamente.

Non sorprende che la repressione del dissenso abbia suscitato la violenza dei ribelli. Durante le celebrazioni dell’Eid è scoppiata una sparatoria tra forze indiane e rivoltosi in una zona boschiva di Kathua, nel Jammu. Quattro poliziotti e due ribelli armati sono stati uccisi, e lo scontro a fuoco è proseguito per ore.

Nel febbraio scorso a Kadder ci sono state di nuovo incursioni notturne nelle case. Quasi cinquecento giovani sono stati portati via dalle forze governative per “interrogatori”, un eufemismo per tortura. I raid sono stati così estesi che perfino i politici filoindiani li hanno definiti “una punizione collettiva”. Pochi giorni prima alcuni ribelli avevano ucciso un ex soldato e ferito la moglie e la nipote in una sparatoria. Accusavano il soldato, Manzoor Ahmad Wagay, di “attività antiresistenza”, in altri termini di collaborare con le forze governative contro di loro, e quindi di essere responsabile della morte dei cinque ribelli a Kadder lo scorso dicembre. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1631 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati