Ogni mattina, all’alba, i venditori di pesce si radunano nel mercato del pesce di Mazara del Vallo, città della Sicilia occidentale con una popolazione di 52mila abitanti. Ognuno urla le migliori offerte del giorno. Con indosso grembiuli di plastica e stivali, tagliano in grossi tranci gli enormi pesci spada appena pescati e lavano secchi di cozze. L’odore acre del pesce pervade l’aria. Le limitazioni imposte per contrastare la pandemia di covid-19 non hanno alterato questa routine quotidiana , ma la stessa cosa non si può dire per la cosiddetta guerra del gambero rosso, che ha avuto pesanti ricadute psicologiche.

“Guardate! Rosso come il sangue che versano i nostri uomini per portarlo qui”, esclama Nicola Boccellato mentre posa i crostacei sul suo bancone. Un chilo di gamberi rossi costa circa cinquanta euro.

Negli ultimi cinque anni il numero di residenti a Mazara del Vallo si è ridotto

Questi crostacei sono considerati una prelibatezza. Per decenni sono stati il prodotto di punta di Mazara del Vallo. Ma una disputa territoriale scoppiata nel Mediterraneo centrale ha messo in pericolo la sopravvivenza economica della cittadina. Secondo i pescatori, alla fine degli anni ottanta la guardia costiera libica ha cominciato a pattugliare le acque usando la forza contro qualsiasi imbarcazione straniera entro le 74 miglia nautiche (119 chilometri) dalle coste libiche. Quelle acque di pesca sono state rivendicate dalla Libia nel 2005, anche se il limite delle acque territoriali riconosciuto a livello internazionale è a 12 miglia (19 chilometri) dalla costa.

Similitudini culturali

A partire dagli anni novanta il Distretto della pesca, un’organizzazione di pescatori con sede a Mazara, registra le conseguenze di questa disputa per la comunità locale, tra cui il sequestro di almeno cinquanta pescherecci e l’arresto di più di quaranta pescatori per periodi che vanno dalle due settimane ai due mesi. Boccellato, nato e cresciuto a Mazara, descrive lo stress emotivo provocato da decenni di conflitto. “Andare al porto ogni giorno per comprare pesce fresco dai nostri pescatori è un colpo al cuore”, spiega Boccellato. “Hanno gli occhi tristi. Questo ci fa sentire colpevoli, perché abbiamo contribuito a rendere famoso in tutto il mondo il gambero rosso, aumentando il peso sulle loro spalle”.

Nel secondo dopoguerra centinaia di migranti tunisini arrivavano a Mazara del Vallo per lavorare nel settore della pesca, attirati dalle similitudini culturali con il loro paese e dalle migliori opportunità lavorative. Verso la fine degli anni novanta, nonostante le tensioni crescenti con la Libia, a Mazara sono arrivati anche i primi migranti provenienti dall’Africa occidentale e dal sudest asiatico. Oggi più di tremila “mazaresi” nati all’estero vivono in questo angolo del Mediterraneo, e altrettanti discendono da migranti arrivati nel corso dei decenni.

Il mare fa rabbrividire

La rivolta del 2011 in Libia, che ha portato alla cattura e all’uccisione del dittatore Muammar Gheddafi, ha reso più dura la disputa in mare. La Libia si è divisa in due entità politiche: il governo di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite e guidato da Fayez al Sarraj, e l’Esercito nazionale libico, comandato dal generale ribelle Khalifa Haftar (fino al 15 marzo 2021), che controlla la zona orientale del paese. Entrambi i governi avanzano delle pretese sulle acque del Mediterraneo, le stesse pretese che aveva Gheddafi. A prendere di mira i pescatori siciliani è stato soprattutto il governo di Tripoli, al punto che i sindacati della categoria hanno cercato di raggiungere un’intesa con le forze di Haftar per ottenere protezione in mare. Ma l’accordo è saltato a settembre del 2019. Un anno dopo c’è stato l’ultimo incidente della guerra del gambero rosso: 18 pescatori di Mazara – otto italiani, sei tunisini, due indonesiani e due senegalesi – sono stati intercettati dalle forze di Haftar. Secondo gli analisti si è trattato di una risposta alla decisione del governo italiano di avere rapporti diplomatici con Tripoli.

In cambio del rilascio dei pescatori, Haftar ha ottenuto la liberazione di quattro calciatori libici, arrestati nel 2015 mentre insieme ad altri migranti stavano raggiungendo l’Italia a bordo di un’imbarcazione, e poi condannati a trent’anni di carcere in Italia per traffico di esseri umani. Le famiglie e gli amici dei calciatori sostengono che sono innocenti e che stavano semplicemente cercando di raggiungere l’Europa per giocare a calcio in Germania. Per 108 giorni i pescatori di Mazara sono stati rinchiusi in dei centri di detenzione vicino a Bengasi, dove raccontano di aver subìto maltrattamenti psicologici e fisici. Sono stati liberati a dicembre dopo una visita ufficiale del presidente del consiglio dell’epoca, Giuseppe Conte, nella Libia orientale.

Mentre i pescatori erano rinchiusi nelle carceri libiche, gli abitanti di Mazara erano tormentati dall’ansia e dal senso di colpa. Alcuni parenti dei pescatori hanno lasciato il lavoro e hanno affidato i figli ai nonni per concentrarsi sulla liberazione dei loro cari. Sono state organizzate manifestazioni di protesta a Roma e alcuni si sono incatenati davanti al parlamento per settimane. L’industria della pesca di Mazara si è fermata perché i pescatori avevano paura di uscire in mare. Gli insegnanti delle scuole superiori hanno interrotto le lezioni per raccontare agli studenti un conflitto che non è nei libri di storia.

Domenico Asaro è stato attaccato tre volte da quando fa il pescatore

Cristina Amabilino, 36 anni, può osservare le acque cristalline del Mediterraneo dal suo appartamento affacciato sul porto di Mazara. “Sono nata e cresciuta qui, ma è come se non riuscissi più a riconoscere questo posto. Anche questo splendido panorama, che un tempo mi tranquillizzava, ora mi fa rabbrividire”. Amabilino è la moglie di Bernardo Salvo, 40 anni, uno dei pescatori liberati e tornati dalla Libia a dicembre. “Stiamo insieme da ventidue anni”, racconta Salvo mentre avvolge delicatamente la mano della moglie con la sua. “Ma i problemi di convivenza tra Mazara e la Libia sono più vecchi della nostra storia d’amore”.

Preoccupati per le possibili conseguenze, molti pescatori hanno smesso di perlustrare il Mediterraneo alla ricerca del prezioso crostaceo scoperto dalle loro famiglie negli anni ottanta. Ma non Domenico Asaro, 57 anni, la cui famiglia pesca da tre generazioni. Nonostante sia stato catturato in mare nel 1996, Asaro continua a navigare le acque del Mediterraneo perché ritiene che il suo ruolo sia troppo importante per tirarsi indietro. “Sono stato un pescatore per tutta la vita”, racconta mentre sistema alcune reti sul suo peschereccio ormeggiato nel porto di Mazara. “La pesca è il sale di questa comunità. Se noi pescatori abbandonassimo il nostro mestiere non daremmo il buon esempio ai nostri concittadini”.

Asaro è stato attaccato tre volte da quando fa il pescatore. La prima volta, nel 1996: le forze libiche hanno sparato sulla sua barca a 80 chilometri dalle coste di Misurata. I sei uomini del suo equipaggio (italiani e tunisini) sono stati catturati e rinchiusi per settimane in pessime condizioni in un carcere di Bengasi, fino a quando il sindacato dei pescatori ha negoziato la loro liberazione. Quando è tornato a casa Asaro aveva perso 22 chili. Gli è stato diagnosticato un diabete causato dalle cattive condizioni della detenzione. In carcere è stato picchiato e ha sofferto la fame. “Ma il dolore fisico non si può paragonare alla sofferenza psicologica che da allora mi perseguita. Il dolore più forte l’ho provato quando ho detto a mio padre che i libici avevano sequestrato il peschereccio di famiglia, tramandato da tre generazioni”. Il padre di Asaro è morto pochi mesi dopo. Il figlio è convinto che la notizia della perdita del peschereccio sia stata fatale. Deciso a sostenere politicamente la causa dei pescatori, nel 2018 Asaro si è candidato senza successo alle elezioni amministrative con la Lega. Sottolinea di non aver alcun problema con i tunisini di Mazara, ma è convinto che la Lega proteggerebbe meglio i confini nazionali.

Anche se tra le loro esperienze in carcere sono passati oltre vent’anni, Asaro e Salvo combattono con le stesse conseguenze psicologiche. Salvo si sente un uomo diverso da quando è tornato dalla Libia. Sta imparando a gestire l’insonnia. Ogni minimo rumore lo fa sobbalzare. “Ci hanno tenuti in una stanza buia per settimane. A volte mi facevano mangiare da terra. Se rifiutavo, mi picchiavano”, racconta. A salvarlo, dice, è stata la compagnia degli altri quattro componenti dell’equipaggio. Da dicembre Salvo riceve un sostegno psicologico. Non è ancora tornato in mare, ma ricomincerà a lavorare per mantenere la famiglia, anche perché pensa di non poter fare altro. Per il momento la sua famiglia sopravvive grazie alle poche migliaia di euro che il sindacato ha ottenuto dalle autorità siciliane. In totale le 18 famiglie hanno ricevuto centomila euro dal governo regionale. La cifra assegnata a ogni famiglia varia in base alle circostanze e al numero di figli.

Mazara del Vallo, Trapani, 23 ottobre 2019. Domenico Asaro sul suo peschereccio (Alessio Mamo)

Susanna Pecoraro, 27 anni, avvocata, è rientrata a Mazara, dov’è nata e cresciuta, dopo lo scoppio della pandemia, visto che poteva lavorare da casa. Dopo la cattura dei pescatori è andata ad ascoltare i discorsi degli anziani nei bar. “Erano tutti risucchiati in un vortice di ansia”. Pecoraro ricorda di aver ascoltato già in passato storie terrificanti di pescatori catturati in mare e conosce bene lo stress collettivo che viene trasmesso da una persona all’altra.

Anna Zinerco, psicologa clinica, ritiene che il caso di Mazara del Vallo sia un esempio di disturbo da stress postraumatico collettivo. “A Mazara il mare è sempre stato il protagonista della vita di comunità”, spiega. “La maggior parte dei posti di lavoro è legata al mare, dunque queste sparizioni temporanee possono essere paragonate a un lutto collettivo”. Dato che in città si conoscono tutti e ognuno ha almeno un parente impiegato nel settore della pesca, questi incidenti creano una rete di “contaminazione traumatica”.

Zinerco sottolinea che il disturbo si manifesta a diversi livelli nella comunità. I pescatori sono le vittime principali, ma il trauma colpisce duramente anche i loro concittadini. “In una comunità così coesa l’improvvisa scomparsa di un amico crea una sofferenza psicologica diffusa, che può manifestarsi anche come ansia o senso di colpa per non aver fatto abbastanza per prevenire l’evento”, spiega Zinerco. “Alcuni trovano il modo di affrontare questo sentimento, ma altri incontrano maggiori difficoltà ad accettare la situazione”. Questo senso di irrequietezza ha spinto varie persone a lasciare la cittadina. Negli ultimi cinque anni il numero di residenti a Mazara del Vallo si è ridotto. Dal 2015 più di 150 persone sono andate via. Prima di trasferirsi a Milano, Bartolomeo Marmoreo, che proviene da una famiglia di pescatori, prepara per l’ultima volta la sua specialità per i clienti del suo ristorante: gambero rosso crudo con melograno, peperoncino e melone. Marmoreo gestisce dal 1989 il ristorante Antico borgo marinaro, ma ora ha deciso di vendere. Chef noto per aver contribuito alla fama della cultura gastronomica di Mazara in tutta Italia, spiega che il successo del gambero rosso lo ha reso celebre ma ha avuto anche un costo emotivo molto alto. “Ogni volta che cucino penso a tutti i sacrifici fatti dai pescatori per portare ogni gambero sulle nostre tavole, e mi commuovo”, racconta. “Uno dei pescatori liberati a dicembre era mio compagno di scuola alle superiori. Ho continuato a scrivergli su Messenger durante la prigionia, anche se sapevo che non poteva rispondermi. Speravo che un giorno sarebbe stato libero e li avrebbe letti. Gli ho scritto: ‘Mi dispiace, amico, non posso fare altro che scriverti. Per favore perdonami’”, dice trattenendo le lacrime. Il suo amico è stato liberato a dicembre insieme agli altri, ma non è ancora tornato in mare.

A Mazara c’è anche chi sta cercando di trovare un modo creativo di usare il proprio malessere. Manuela Marascia, 32 anni, spiega che l’arte l’ha aiutata a controllare la paura e la rabbia che riempiono le sue giornate ogni volta che si verifica un sequestro. “C’è sempre il timore che qualcosa vada storto”, sottolinea. “Stavolta dipingere un quadro dei pescatori con i colori caldi della speranza mi ha dato la pace di cui avevo bisogno”. Quando i pescatori sono stati liberati, Marascia ha aggiunto al quadro la frase “Finalmente liberi”, chiedendo al comune di metterlo in mostra per alimentare la speranza. Mazara del Vallo, che dista 1.095 chilometri da Roma ma appena 275 dalla Tunisia, è considerata un patrimonio nazionale per la sua doppia identità. La Sicilia è stata una roccaforte musulmana dal nono all’undicesimo secolo e Mazara fu la prima città a essere conquistata e ad assumere le fattezze architettoniche e urbane tipicamente musulmane. È il motivo per cui molti migranti, soprattutto tunisini, qui si sentono a casa. Ma ad attirarli è stata soprattutto la fiorente industria della pesca. I migranti si sentono accolti in questo angolo d’Europa che offre molte opportunità di lavoro. Oggi a Mazara vivono circa seimila tunisini, di cui la metà ha la cittadinanza italiana. L’80 per cento di loro lavora nella pesca seguendo le orme dei genitori e dei nonni. Ma soprattutto i più giovani sono scoraggiati dalle minacce della guerra per il gambero rosso e non si arrischiano a uscire in mare.

Esempio d’integrazione

Hedi Ben Thameur, 59 anni, è arrivato a Mazara del Vallo nel 1982 da Sousse, sulla costa tunisina. Nella città siciliana ha sposato una tunisina e si è costruito una nuova vita. Suo figlio maggiore oggi ha trent’anni e ha seguito il suo esempio. È uno dei pochissimi pescatori, una decina, che hanno meno di 35 anni. “Sono grato per le opportunità che Mazara ha dato a me e alla mia famiglia”, dice Ben Thameur. “Ma capisco che le giovani generazioni sentano la nostra depressione”.

Secondo Francesco Mezzapelle, sociologo di Mazara, le conseguenze socioeconomiche della guerra del gambero rosso, potrebbero generare un ulteriore trauma sociale. Per anni Mazara è stata un esempio di integrazione, ma Mezzapelle ritiene che le due comunità, italiana e tunisina, pur coesistendo pacificamente, abbiano vissuto in due sfere distinte, frequentando scuole e ristoranti diversi. Solo l’industria della pesca gli permetteva d’incontrarsi e di creare legami. “Gli equipaggi di nazionalità mista sono stati il collante che ha mantenuto unita la comunità. Se il settore è a rischio, lo stesso vale per i legami tra italiani e tunisini che si sono consolidati nel corso degli anni”.

Le autorità scolastiche locali hanno notato un aumento degli alunni che abbandonano la scuola prima della licenza media. I numeri sono particolarmente allarmanti tra i cittadini tunisini, che riferiscono di sentirsi sempre più fuori luogo. La guerra del gambero rosso ha evidenziato il loro status di “stranieri”, perché sono associati al “nemico” libico con cui condividono la lingua madre.

Lo scorso inverno il ministero degli esteri italiano è riuscito a organizzare una breve telefonata con i pescatori detenuti in Libia. Quel giorno Insaf Jemmali, 21 anni, aspettava il suo turno per parlare con il padre sequestrato. “Sono rimasta sconvolta quando un rappresentante del ministero mi ha detto che, essendo tunisina, non avevo diritto di parlare con mio padre. Mi ha detto: ‘Puoi chiedere al governo tunisino di aiutarti’”. Jemmali vive in Italia da 18 anni, ma non ha ancora ottenuto la cittadinanza. “Prima di quel momento non mi ero mai sentita costretta a riflettere sulla mia identità. Per me era naturale essere sia italiana sia tunisina”.

Il ricordo delle urla disperate delle donne riunite fuori dal suo ufficio non abbandona Salvatore Quinci, sindaco di Mazara del Vallo. Racconta che la città ha vissuto mesi estenuanti prima che i pescatori fossero liberati. “Naturalmente i miei pensieri saranno sempre con i nostri uomini in prima linea, in mare. Ma se devo essere onesto, in questo momento sono preoccupato per la salute mentale di chi resta a terra”. Quinci sottolinea che le persone colpite sono soprattutto donne: mogli, figlie, sorelle e cognate dei pescatori che hanno lottato per ottenerne la liberazione. I loro sforzi hanno tenuto vigile l’intera comunità, spesso coinvolgendo persone che vivono in altre zone d’Italia e che ignoravano il loro dolore. Per molto tempo la loro lotta si è scontrata con il silenzio delle istituzioni italiane. Secondo la psicologa Zinerco questo ha acuito il senso di isolamento di Mazara davanti a tragedie simili.

Marascia ha partecipato alle proteste ed è impressionata dalla forza e dal coraggio con cui le donne scandivano il nome dei pescatori, e da quello di tutta la città. Crede che la forza delle donne potrebbe ispirare altre persone che si sono sentite impotenti alle prese con questo trauma collettivo: “Forse quest’ultima crisi potrebbe aiutare Mazara del Vallo a scrollarsi di dosso anni di torpore”.

Amabilino, che a ottobre e novembre ha portato la protesta a Roma incatenandosi davanti al parlamento insieme ad altri parenti dei pescatori, sa che dovrà imparare ad accettare quello che è successo alla sua famiglia e la sua nuova relazione di odio e amore con il mare. “Per le persone cresciute qui a Mazara il mare è sempre stato la fonte di nutrimento del corpo e dell’anima”, spiega facendo un profondo respiro. “Ma ora lo associamo anche al terrore e alla preoccupazione”.

Amabilino aspetta nervosamente il momento in cui suo marito salperà di nuovo per mantenere i loro tre figli. Sa bene che nonostante tutto il mare è nella sua natura. “Anziché associare il nome della nostra città al gambero rosso, dovrebbero assegnarlo a una nuova malattia. La sindrome di Mazara del Vallo”, propone, trovando ancora una volta il modo di ridere e sdrammatizzare. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati