Nella storia recente della Repubblica Ceca non c’è mai stata una manifestazione più partecipata e con conseguenze politiche così limitate, almeno nell’immediato. Il 16 novembre 2019, alla vigilia del trentesimo anniversario della rivoluzione di velluto, che nel 1989 segnò la fine del regime comunista cecoslovacco, circa 250mila persone si sono riunite nel parco Letná, non lontano dal castello di Praga. Nello stesso posto a giugno avevano già manifestato 280mila cittadini. I manifestanti chiedevano le dimissioni del primo ministro, l’oligarca Andrei Babiš, e della ministra della giustizia, Marie Benešová. Ma soprattutto protestavano contro il conflitto d’interessi del primo ministro, proprietario della holding Agrofert, di cui fanno parte anche alcuni influenti mezzi d’informazione. Ufficialmente Babiš ha trasferito la società in un fondo fiduciario nel 2017, ma di fatto i collegamenti rimangono. Il primo ministro era anche accusato di appropriazione indebita di fondi dell’Unione europea. Ma dopo l’arrivo della nuova ministra della giustizia, nell’aprile del 2019, la magistratura ceca ha archiviato tutte le accuse.

Il presidente Miloš Zeman ha definito “malati di mente” gli studenti che avevano organizzato la manifestazione e il giorno successivo non si è fatto vedere alle commemorazioni per l’anniversario della rivoluzione del 1989. Si è limitato a commentare che alle elezioni legislative Babiš aveva ottenuto un milione e mezzo di voti e lui, alle presidenziali, più di due milioni e 800mila. E che quindi, a confronto di questi numeri, i manifestanti del parco Letná erano solo un “piccolo gruppo di persone”. Poi ha aggiunto: “Siamo in democrazia, ognuno ha la propria opinione, non capisco le loro richieste, ma rispetto il loro diritto a manifestare”. In seguito più nulla: né un invito ai rappresentanti dei manifestanti ad aprire un dialogo né un appello ai cittadini attraverso la tv o altro. Secondo Jan Moláček, un commentatore politico del quotidiano Deník N, l’indifferenza delle forze al potere si spiega con il fatto che la società ceca è profondamente divisa. “L’iniziativa ‘Un milione di momenti per la democrazia’, che organizza le manifestazioni contro il governo di Babiš, è efficace, ma riesce a mobilitare solo una parte di una società molto polarizzata”, ha scritto Moláček. I politici al potere – sostiene il giornalista – sono convinti che se riusciranno a spaccare la società in due campi opposti, una parte maggioritaria, leggermente più ampia di quanto indicato dalle elezioni, si schiererà con loro.

Costruire la società

Negli ultimi trent’anni abbiamo costruito il capitalismo, ma abbiamo dimenticato la società. È questo, in sostanza, il senso delle dichiarazioni e dei commenti degli intellettuali cechi in occasione del trentesimo anniversario della rivoluzione di velluto. “Oggi abbiamo bisogno di un idealismo radicale che non abbia paura di affermare che questo paese non deve essere proprietà di una ristretta cerchia di straricchi. La vecchia élite è terrorizzata dal fatto che la società civile esiste e che i cittadini vogliono partecipare alla soluzione dei problemi, per esempio la questione degli alloggi o la crisi climatica. L’idea che tutto possa essere affidato al libero mercato è assurda”, ha scritto il sociologo Stanislav Biler in un articolo intitolato “La Cechia, un paese senza futuro”. L’incapacità della politica di guardare al futuro è ben testimoniata da due recenti dichiarazioni sulla crisi climatica. La prima è del premier Babiš ed è stata pronunciata alla vigilia del summit dell’Unione europea sulla decarbonizzazione che si è tenuto a Bruxelles la scorsa estate: “Perché dobbiamo pensare ora al 2050, a cui mancano trentun anni, solo perché oggi c’è un certo clima?”, si è chiesto il primo ministro di fronte a un gruppo di giornalisti sbalorditi, prima di aggiungere che per lui è più importante occuparsi di questioni a breve termine, come l’economia e l’occupazione.

La seconda è del presidente dell’Associazione degli industriali cechi, Jaroslav Hanák. Riferendosi agli scioperi degli studenti contro i cambiamenti climatici che si sono svolti in molti paesi europei, Hanák ha dichiarato che questi “ragazzini di 14 anni dovrebbero prendersi un bello schiaffone perché manifestano senza neanche sapere contro cosa”. Poi ha aggiunto che i partiti ambientalisti sono una “grande minaccia” e che i cechi devono essere contenti per il fatto che “finora qui da noi non si sono fatti vedere e non hanno ancora prodotto nessun leader politico di rilievo”. Hanák si è poi scusato in seguito alle pressioni dell’opinione pubblica.

Nel 1990 il politologo e filosofo liberale Ralph Dahrendorf aveva scritto che per rimettere in piedi l’economia dei paesi ex comunisti sarebbero bastati sei anni, ma che per costruire una società civile a cui ancorare saldamente le istituzioni democratiche ce ne sarebbero voluti sessanta.

Parafrasando il primo presidente della Cecoslovacchia, Tomáš Garrigue Masaryk, si potrebbe aggiungere che “in Repubblica Ceca c’è la democrazia, ma non ci sono abbastanza democratici”.

Petr Pithart, storico, dissidente, ex premier ceco ed ex presidente del senato, parlando delle privatizzazioni degli anni novanta, fatte senza alcuna trasparenza e con strumenti legali inadeguati, ha scritto che subito dopo il 1989 ogni regolamentazione dello stato è stata considerata opera del diavolo, come fosse un ritorno al comunismo, mentre l’opinione dominante era che il mercato avrebbe risolto tutto.

“In quegli anni la corruzione si diffuse fino ai vertici delle istituzioni. All’improvviso era possibile comprare perfino una cena con il primo ministro. Quando ero capo del governo, il direttore di una banca cercò apertamente di corrompermi. ‘Non si preoccupi, signor primo ministro, lo fanno tutti’, mi disse. Lo denunciai subito. Ma dopo tre anni e mezzo ricevette una condanna minima, con la sospensione della pena. Già nel 1991 la corruzione era considerata una cosa normale, bastava essere sufficientemente furbi”, ricorda Pithart in un articolo scritto per Deník N.

Arrivano i giovani

“Abbiamo bisogno di un ricambio generazionale, non solo in ambito politico, per far arrivare al potere persone che non abbiano perso ogni contatto con le generazioni più giovani”, sostiene Stanislav Biler. “Nel 1989, mentre la società cambiava profondamente, i giovani dell’epoca conquistarono posti di primo piano in politica, nell’economia e nel giornalismo. Ma ormai sono al potere da troppo tempo. Molti hanno più di cinquant’anni e non hanno nessuna intenzione di farsi da parte. La maggioranza di queste persone è incapace di adeguarsi ai cambiamenti e con gli anni si sposta su posizioni sempre più conservatrici, convinta che ‘un tempo tutto funzionava meglio’”, continua il sociologo. “Il paese ha smesso di evolversi, sia sotto l’aspetto ideologico sia sotto quello etico. Il Partito dei pirati (che alle elezioni del 2017 ha ottenuto uno straordinario successo, conquistando il 10,8 per cento dei voti e 22 deputati) sembra voler infrangere questo muro ed è molto popolare tra i giovani. Il tempo dirà se avrà successo”.

Tomáš Lebeda, direttore del dipartimento di scienze politiche dell’università Palacký di Olomouc, ritiene che le manifestazioni non spingeranno Babiš alle dimissioni, ma aggiunge che le proteste innervosiscono il primo ministro, perché gli rovinano l’immagine. Una parte della società ha dato prova di non essere apatica e di sapersi mobilitare quando sente che la democrazia è minacciata. Secondo Lebeda, è questa la caratteristica più importante delle manifestazioni del parco Letná, un chiaro messaggio a tutti i politici che abusano del proprio potere.

Come fa notare Jan Moláček, quando Babiš è entrato in politica, all’inizio dello scorso decennio, la maggior parte dei cechi era convinta che, nonostante il suo passato poco chiaro, in quanto imprenditore di successo sarebbe riuscito a realizzare degli obiettivi concreti e non ideologici, su cui c’era un generale consenso. La costruzione di infrastrutture, per esempio. Alla fine, invece, il primo ministro non si è dimostrato all’altezza nemmeno di quel compito.

“Babiš risolve i suoi problemi personali a spese di un paese in stagnazione, che non ha di fronte a sé nessun avvenire radioso. La futura classe politica avrà l’enorme compito di rimettere in moto la Repubblica Ceca”, afferma Moláček. “Attualmente Babiš riesce a restare al suo posto grazie a un solido sostegno elettorale, ottenuto con un’efficace strategia di marketing e distribuendo denaro. È difficile trovare le armi giuste per combatterlo. Alla fine, forse, il fenomeno Babiš si esaurirà da solo”.

Intanto nel paese gli attivisti sono bollati come pazzi eversivi, fascisti verdi, megere femministe, sobillatori di folle… Nonostante l’odio che Babiš e Zeman riversano contro chi scende in piazza, è evidente che in Repubblica Ceca la coscienza civile si è risvegliata e che le persone pronte a mobilitarsi sono numerose. La democrazia non è fatta solo di istituzioni ed elezioni, ha bisogno anche di una società civile attiva, che vigili sull’élite politica e la sottoponga a una pressione costante.

La svolta

Due anni fa Saša Uhlová, giornalista del sito di sinistra A2larm, ci aveva raccontato che negli anni novanta le era stata appiccicata addosso l’etichetta di stalinista perché aveva scritto cose che oggi appaiono evidenti anche ai grandi giornali moderati. Per esempio che la gente non deve avere stipendi così bassi da non riuscire a sopravvivere.

La tradizionale nuotata di Natale nella Moldava, a Praga, il 26 dicembre 2019 (Michal Cizek, Afp/Getty Images)

“Sinistra = comunismo = gulag. È uno schema semplicistico e primitivo. Forse nessuno lo ha mai formulato in questo modo. Ma è stato il modo di pensare più diffuso in questo paese negli ultimi venticinque anni”, ci aveva spiegato allora Uhlová. Oggi, invece, le giovani generazioni sono più aperte e anche i cittadini di mezza età di orientamento liberale cominciano a parlare della necessità di una svolta a sinistra. “Per paura di apparire schierati con i comunisti, negli anni novanta abbiamo trascurato gli errori economici e politici delle classi dirigenti che erano al potere. Abbiamo continuato a ripetere la storia della vittoria della democrazia sul comunismo rimanendo ciechi a tutto il resto”, ha detto recentemente la scrittrice Petra Hůlová.

“La parola sinistra era sinonimo del grigiore e della disperazione del socialismo reale. E il rosso degli striscioni onnipresenti durante il comunismo non era più il simbolo del sangue versato dagli operai, ma di quello dei detenuti politici del regime, delle vittime dell’occupazione sovietica e delle persone picchiate durante le manifestazioni per la libertà”, ha scritto Petr Honzejk in un articolo intitolato “Chi non era di destra nel 1989 non aveva cuore. Chi non è di sinistra oggi non ha cervello”, pubblicato dal quotidiano liberale Hospodářské noviny. “Se qualcuno dei rivoluzionari del 1989 avesse osato affermare di avere opinioni di sinistra sarebbe stato immediatamente etichettato come ‘comunista’. In un certo senso era logico che dopo il 1989 la maggior parte dei cittadini si orientasse a destra. Il problema principale è che identificando la sinistra con i disastri del regime comunista ci si è dimenticati di quelli che, per un motivo o per l’altro, venivano messi ai margini della società dalle dinamiche del libero mercato. E che termini come ‘statale’, ‘pubblico’ o ‘comune’ esprimono concetti essenziali per un coretto funzionamento della società”.

Secondo Honzejk la conseguenza di questo orientamento è che i soggetti più deboli e più poveri, cioè le persone che si sentono dimenticate o trascurate dallo stato e dalla società, hanno cominciato a dare fiducia ai populisti. In Repubblica Ceca, il paese che ha ottenuto i maggiori successi economici tra quelli ex comunisti, ci sono circa 900mila cittadini su poco più di dieci milioni che vivono sotto il livello minimo di sussistenza, gli stipendi medi sono largamente inferiori a quelli dei paesi occidentali e il costo della vita continua a crescere, soprattutto quello degli alloggi e in particolare nella capitale, Praga. La quota dei cechi che lavorano nell’industria è del 38 per cento, la più alta in Europa. “Ci troviamo nella situazione di una fabbrica che non cerca più innovazione, ma solo manodopera a basso costo. Abbiamo creato una piccola Cina nel centro d’Europa, dove produciamo merci con un basso valore aggiunto e non abbiamo nessuna strategia per uscire da questa situazione. A differenza di noi, però, la Cina almeno cerca di diventare leader nelle tecnologie d’avanguardia”, ha dichiarato di recente l’economista David Marek.

“Trent’anni fa pensavamo che fosse sufficiente dare la libertà alla gente e aspettare che la mettesse a frutto. Ma come possono sfruttare la libertà delle persone che rimangono incatenate alla povertà, dimenticate in province sperdute o ai margini della società come i rom? Oggi sappiamo che non basta dare la libertà ai cittadini: è necessario anche creare le condizioni affinché possano goderne davvero. La libertà, la dignità e l’uguaglianza hanno la stessa importanza. Nessuna può funzionare da sola se le altre sono assenti”, ha affermato Martin Šimečka, giornalista ed ex dissidente, in occasione di un incontro per celebrare il trentennale della nascita del settimanale Respekt.

Durante lo stesso evento ha parlato anche Timothy Garton Ash. Lo storico britannico ha sostenuto che il liberalismo si è progressivamente trasformato in un sistema chiuso, in un’ideologia convinta di avere tutte le risposte e secondo la quale tutto va affrontato in termini economici.

“Rifiutando, per una sorta di difesa istintiva, tutto ciò che era di sinistra abbiamo buttato via il bambino con l’acqua sporca. E il bambino è tornato pieno di rabbia e armato fino ai denti”, ha detto invece Petr Honzejk. Oggi in Repubblica Ceca la sinistra praticamente non esiste. Il Partito comunista (Ksčm) non può essere definito di sinistra. Non ha preso sufficientemente le distanze dal passato stalinista e sotto molti aspetti è una forza nazionalista, ostile agli immigrati, non democratica e sclerotizzata, non troppo diversa dall’estrema destra. Dal 2018 dà il suo appoggio esterno al governo guidato da Ano, il partito di Babiš. Il Partito socialdemocratico (Čssd), in passato la principale forza di centrosinistra, è crollato fino a ottenere solo il 6 per cento alle ultime elezioni ed è partner di minoranza nell’esecutivo in carica: un alleato ubbidiente e ideologicamente spaccato, che ospita dirigenti con posizioni simili a quelle dell’estrema destra.

Da sapere
Redditi e povertà
*Dati disponibili fino al 2013. (Fonte: Banca mondiale)

Fuori dalla gabbia

“La vera sinistra è completamente scomparsa. Rimane da vedere chi ne erediterà i programmi, magari con un altro nome. Personalmente ritengo che se un partito davvero di sinistra nascerà, non si richiamerà esplicitamente a certe categorie. Gli elettori cercano risposte ai loro problemi, e non gli interessa se la soluzione è considerata di sinistra o di destra”, sostiene Stanislav Biler.

Moláček spiega che il partito Ano ha di fatto eliminato dalla scena politica i socialdemocratici e aggiunge che oggi le battaglie della sinistra moderna sono in buon parte portate avanti dai Pirati. Ma non ritiene che ci sia spazio per nuove forze di sinistra.

Secondo l’intellettuale ed ex dissidente polacco Adam Michnik, oggi la differenza non è più tra sinistra e destra, ma tra società aperta e chiusa. “In realtà i pilastri su cui la destra e la sinistra hanno preso forma rimangono attuali”, afferma Stanislav Biler. “Società aperta o chiusa, cosmopolitismo o nazionalismo, liberalismo o conservatorismo. Siamo ancorati al vecchio dogma secondo cui sinistra e destra sono concetti che corrispondono a una serie immutabile di posizioni politiche. Dimentichiamo, però, che queste posizioni sono cambiate nel tempo: la parola sinistra aveva un significato negli anni venti, un altro negli anni settanta e un altro ancora negli anni novanta. Oggi la sinistra deve trovare un nuovo campo d’azione”.

In un’intervista rilasciata al sito ceco Aktuálně nel 2018, la regista polacca Agnieszka Holland ha detto che probabilmente siamo stati tutti vittime di un’illusione: “La gente non cerca a tutti i costi la libertà. Dopo la rivoluzione di velluto ho avuto una conversazione con il mio collega ceco Miloš Forman. Il suo commento è stato che gli animali cresciuti nella gabbia di uno zoo non sono in grado di sopravvivere nella giungla. E il capitalismo è in una certa misura una giungla. C’è libertà, ma bisogna lottare per sopravvivere. Chi inciampa e cade viene sbranato dai più forti. Nello zoo si è rinchiusi in una gabbia, ma in compenso si ha cibo tutti i giorni e si sta sicuri. Sono passati trent’anni dalla caduta dei regimi comunisti, ma evidentemente non è abbastanza. Forse ce ne vorranno altri ottanta per cominciare ad apprezzare la libertà”.

In un’altra intervista allo stesso sito, alcuni anni fa lo storico ceco Igor Lukes, che vive e insegna negli Stati Uniti dagli anni settanta, aveva affermato che dopo la rivoluzione del 1989 la disillusione era inevitabile, come la malinconia dopo una festa in cui si è bevuto e si è riso molto. “Il giorno dopo ci si sveglia depressi e con un forte mal di testa. Ma da quella festa sono passati anni”.

La sua analisi si concludeva così: “Penso che sia arrivato il momento che a qualcuno venga in mente di spolverare i mobili, passare l’aspirapolvere e dare una lavata alle finestre”. ◆ af

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Questo articolo è uscito sul numero 1341 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati