Il Madagascar, una meravigliosa isola al largo delle coste sudorientali dell’Africa, sta vivendo quella che molti definiscono la prima carestia al mondo causata dal cambiamento climatico. Più di 1,1 milioni di persone nel sud del paese faticano a trovare da mangiare. Secondo David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale (Pam), a giugno almeno 14mila persone pativano un livello “catastrofico” di mancanza di cibo, mentre altre 400mila stavano “andando verso la fame”. Beasley racconta di aver incontrato donne e bambini che dovevano camminare ore per arrivare ai punti di distribuzione dei generi alimentari. Alcune persone sono sopravvissute mangiando per mesi i frutti del cactus rosso, verdure selvatiche e locuste.

La crisi è il risultato di vari periodi di siccità consecutivi. “Non dipende da guerre o conflitti, la causa è il cambiamento climatico”, spiega il funzionario. “Quest’area del mondo non ha contribuito al riscaldamento globale, ma ora i suoi abitanti ne pagano il prezzo più alto”.

L’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), pubblicato il 9 agosto, ha riacceso il dibattito sull’opportunità che i paesi più ricchi paghino dei risarcimenti a quelli più poveri, dopo aver inquinato l’ambiente per decenni e averne sfruttato i vantaggi.

Anche se sono stati gli esseri umani a creare questa situazione, non tutti hanno avuto lo stesso ruolo. Secondo l’ong Oxfam, tra il 1990 e il 2015 il 10 per cento più ricco della popolazione mondiale (circa 630 milioni di persone) è stato responsabile del 52 per cento delle emissioni cumulative di carbonio. Il 50 per cento più povero (circa 3,1 miliardi di persone) è stato responsabile solo del 7 per cento delle emissioni e ha usato appena il 4 per cento del bilancio di carbonio disponibile.

“Storicamente l’Africa è responsabile solo del 3 per cento delle emissioni globali”, sostiene l’attivista ugandese Vanessa Nakate, 24 anni, in un video pubblicato sui social network. “Eppure gli africani subiscono alcune delle ripercussioni più violente della crisi climatica: siccità, uragani, alluvioni, cicloni, frane. La crisi climatica è la nostra realtà”. L’anno scorso Nakate aveva denunciato il razzismo all’interno del movimento globale per il clima, dopo che la sua immagine era stata tagliata via dalla foto di un’agenzia di stampa al Forum economico mondiale di Davos. Nella foto rimanevano quattro attiviste bianche, tra cui l’adolescente svedese Greta Thunberg. Per Nakate l’episodio rappresenta perfettamente il modo in cui il continente è escluso dai dibattiti su come affrontare la crisi climatica.

In Uganda un piccolo cambiamento nelle piogge può causare grandi problemi ai contadini che dipendono dai raccolti stagionali. In alcune comunità il periodo precedente al raccolto è chiamato “la stagione della fame”.

Senza strumenti

A luglio Alok Sharma, presidente della 26ª conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici (Cop26), prevista a Glasgow a novembre, ha chiesto alle nazioni ricche di consegnare i cento miliardi di dollari all’anno (85 miliardi di euro) che erano stati promessi entro il 2020 per aiutare i paesi in via di sviluppo a rispondere ai cambiamenti climatici. Più di cento paesi in via di sviluppo hanno stilato una lista di richieste perché “siano riconosciute le responsabilità e attuate le misure promesse”, soprattutto da parte di “nazioni che hanno prosperato bruciando combustibili fossili in modo sfrenato”. Il documento chiede che i fondi siano dati sotto forma di donazioni e non di prestiti: “I finanziamenti che alimentano il debito impongono un enorme fardello ai paesi poveri”.

Molti paesi in via di sviluppo non hanno gli strumenti per prepararsi ai disastri legati alla crisi climatica. E quando sono colpiti, i cittadini non hanno reti di sicurezza sociale per proteggersi. Il risultato è che spesso chiedono aiuti stranieri. A maggio due agenzie dell’Onu hanno lanciato un appello: servono più di 110 milioni di dollari per sfamare gli abitanti del sud del Madagascar fino alla fine dell’anno. Ma molte persone potrebbero morire nel frattempo. E cosa succederà l’anno prossimo, e quello dopo ancora? ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1424 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati