“La maggior parte delle persone non sa da dove viene il riconoscimento vocale”. Quando lo dice, nella voce di Jürgen Schmidhuber c’è un po’ di rimpianto. Perché viene da lui. Di recente in Cina a una conferenza un uomo gli si è avvicinato e si è inchinato: “Che onore incontrarla!”. Già da adolescente Schmidhuber sognava macchine pensanti. Bavarese di nascita, professore d’informatica e imprenditore, racconta l’episodio avvenuto in Cina mentre ci troviamo in un bistrot del centro di Lugano, per il quale il suo completo è troppo elegante. A poche centinaia di metri ci sono sia il suo istituto di studi sull’intelligenza artificiale (Ai) all’Università della Svizzera italiana sia gli uffici della sua startup, la Nnaisense. Tra palme, magnolie e facciate giallo ocra.

L’uomo che in Cina l’aveva salutato con un inchino è il proprietario di una start­up di software per l’elaborazione del linguaggio naturale (i programmi che riescono a interpretare il linguaggio umano) che vale più di un miliardo di dollari. Senza le invenzioni di Schmidhuber non esisterebbe. Lo stesso vale per gli assistenti vocali di Amazon e della Apple. Ma la sua tecnologia non è solo alla base del riconoscimento vocale. Se un giorno le macchine potranno davvero pensare, probabilmente chiameranno Schmidhuber papà, ha scritto il New York Times.

A Lugano Schmidhuber fa ricerche sull’intelligenza artificiale. Aver gettato le basi per il riconoscimento vocale è stata solo una tappa verso il suo grande sogno: l’intelligenza artificiale generale, ovvero un’intelligenza artificiale che non si limiti ad ambiti ristretti come il riconoscimento delle immagini o la traduzione delle lingue, ma che sia in grado di fare tutto quello che può fare un cervello umano. E di farlo meglio.

Sui social network o sui giornali si legge che Schmidhuber è arrogante, narcisista e “poco gentile”. Il fatto che nella sezione dei contatti del suo sito, dove c’è la sua email, scriva “inviate spam ecc. a juergen@…” non contribuisce a smentire la voce. Ma se Schmidhuber si curasse molto delle aspettative sociali, non farebbe quello che fa, e di certo non nel canton Ticino. Schmiidhuber immagina un computer che sia capace d’imparare dall’esperienza, proprio come un essere umano. A suo parere, gli algoritmi dovrebbero essere interconnessi come un cervello. Per decenni le sue idee l’hanno allontanato da tutti. Quando studiava all’Università tecnica di Monaco di Baviera, negli anni ottanta, la ricerca della maggior parte dei suoi colleghi andava in un’altra direzione: verso un’intelligenza artificiale che seguisse le regole stabilite dai programmatori. Funzionava così per esempio il computer Deep Blue, che nel 1997 sconfisse il campione del mondo di scacchi Garry Kasparov. Nonostante successi come quello, all’epoca nessuno credeva che le macchine avrebbero mai avuto una “intelligenza generale” simile a quella degli esseri umani.

Il fuoco dell’entusiasmo

Sepp Hochreiter cominciò a studiare informatica all’Università tecnica di Monaco qualche anno dopo Schmidhuber. Era il brillante figlio di un contadino e si annoiava. “Tutti i problemi informatici sembravano già risolti. Non c’era niente su cui ragionare”, racconta Hochreiter con una vivace cadenza bavarese. Poi ha conosciuto il dottorando Schmidhuber.

La personalità di Schmidhuber uscì allo scoperto un pomeriggio in cui vari docenti stavano presentando agli studenti i loro programmi per il tirocinio. “Gli altri avevano lavorato alla presentazione per settimane. Jürgen ovviamente se n’era dimenticato e non aveva preparato nulla, così raccontò a braccio la sua visione dell’intelligenza artificiale. Be’, alla fine, trenta studenti su trenta volevano fare lo stage con lui. Era acceso dal fuoco dell’entusiasmo e sapeva trasmetterlo”.

Lo trasmise anche allo stesso Hochreiter. Schmidhuber lo mise alla prova sottoponendogli un problema ricorrente nelle strutture degli algoritmi che elaborano le informazioni in modo simile al cervello umano. Queste cosiddette reti neurali artificiali non avevano memoria, cioè non sapevano processare dati ricevuti in momenti diversi. Hochreiter trovò una soluzione: alcuni passaggi di calcolo possono filtrare le informazioni importanti e immetterle in modo ricorrente nel processo di calcolo. Lui e Schmidhuber chiamarono queste reti “memoria a breve termine lunga” (Lstm) e le presentarono in un articolo su una rivista scientifica. Riuscirono a pubblicarlo solo al secondo tentativo, nel 1997. Per anni non ebbe alcun riscontro. Scoraggiato, Hochreiter passò alla bioinformatica. Oggi il loro articolo è il documento d’informatica del novecento che viene citato più spesso.

Schmidhuber invece è rimasto fedele al suo approccio. Per lui l’intelligenza artificiale non era solo un campo di ricerca, ma una visione del mondo. Nato a Monaco di Baviera nel 1963, racconta che a 15 anni progettava già di realizzare un’intelligenza artificiale con cui un giorno avrebbe conquistato il mondo.

Da adolescenti, quando andavano in gita, lui e il fratello minore discutevano sul sedile posteriore della Volkswagen beige dei genitori: si chiedevano se l’universo era semplicemente la somma di tutta la matematica. La madre di Schmidhuber insegnava alle elementari, il padre era architetto. Suo fratello è diventato un fisico. Jürgen ha studiato informatica con l’obiettivo di costruire uno scienziato artificiale capace di superare tutti quelli in carne e ossa. “Jürgen non si scoraggia mai se nessuno nella stanza, magari nessuno al mondo, condivide le sue idee”, dice il suo ex studente Hochreiter.

Un piccolo istituto di Lugano ha permesso a Schmidhuber di continuare a vivere della sua ricerca anche dopo aver completato l’abilitazione all’Università tecnica di Monaco. Lì ha avuto la calma necessaria per chiedersi come insegnare alle reti neurali a riconoscere i modelli e a migliorarsi a vicenda. E come renderle curiose. L’Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale fa parte dell’Università della Svizzera italiana, a Lugano. Schmidhuber lo dirige dal 1995. All’epoca era un istituto indipendente, finanziato dalla fondazione filantropica di un italiano, Angelo Dalle Molle, che aveva fatto fortuna con il liquore al carciofo Cynar e voleva promuovere lo sviluppo tecnologico. Sotto la direzione di Schmidhuber, l’istituto Dalle Molle è diventato una sorta di villaggio per la ricerca sulle reti neurali.

Una svolta prevista

Per più di dieci anni le cose sono andate avanti tranquillamente. Poi è successo quello che Schmidhuber aspettava da sempre. Nel 2009, le reti neurali del suo gruppo di ricerca hanno cominciato a vincere concorsi: sapevano riconoscere i segnali stradali o la grafia cinese, e funzionavano anche se nessuno dei loro programmatori conosceva il cinese.

Tre sviluppi hanno dato a quella ricerca una portata dirompente: prima di tutto, tra il 1980 e il 2010 i computer sono diventati circa un milione di volte più veloci, più o meno lo scarto che passa tra un aereo e una lumaca. In secondo luogo, per rendere più fluidi i videogiochi sono stati inventati i processori grafici. La capacità dei processori di risolvere più calcoli parallelamente si è rivelata utile anche per il funzionamento delle reti neurali. Infine, è venuta meno la questione di dove trovare l’enorme quantità di dati necessaria per addestrare l’intelligenza artificiale. Oggi la risposta è facile: su internet. Le persone che caricano online immagini e registrazioni audio sono sempre di più.

È così che i collaboratori lo descrivono sempre: un genio

Negli ultimi dieci anni il modo in cui gli algoritmi hanno imparato a riconoscere i volti o i rumori e a tradurre i testi o le registrazioni vocali è quasi magico. La ricerca astratta che riempiva pagine e pagine di formule ha trovato un’espressione concreta. E i suoi autori sono diventati delle stelle nel loro campo. Per Jürgen Schmid­huber è cominciata così la lotta per ottenere un riconoscimento.

Schmidhuber non è stato l’unico a far progredire l’intelligenza artificiale nell’ombra. Altre tre persone sono spesso citate tra i padri dell’Ai moderna: Yann LeCun, Yoshua Bengio e Geoffrey Hinton. Lavorano in Nordamerica, pubblicano le loro ricerche a volte insieme e a volte separatamente e nel 2018 per le loro scoperte hanno ricevuto il premio Turing, una specie di Nobel per l’informatica. Schmid­huber non c’era. Nemmeno Hochreiter, o il matematico finlandese Seppo Ilmari Linnainmaa o gli ucraini Alexej Ivachnenko e Valentin Grigorevich Lapa, che negli anni sessanta fecero ricerche per conto dell’Unione Sovietica. Eppure alcune delle invenzioni per le quali altri vengono ora premiati provenivano da loro, sostiene Schmidhuber, che accusa i colleghi di non citare le fonti.

Amici speciali

Schmidhuber ha studiato la storia dell’intelligenza artificiale con la costanza di un archeologo. Ha cercato testimonianze nelle mailing list e ha passato al setaccio vecchi documenti. Tutto per accertarsi che le idee siano attribuite agli autori originali.

Dopo l’assegnazione del premio Turing, ha analizzato con occhio critico il discorso di ringraziamento dei vincitori andando a scovare tutti i punti in cui, a suo avviso, le fonti non erano state citate a dovere. Schmidhuber sospetta che siano stati i tre vincitori del Turing a parlare di lui ai giornalisti come di una persona arrogante e narcisista, preferendo restare anonimi. Li chiama “i miei amici speciali”, con un tono beffardo che copre solo in parte la sua rabbia. “Ho un forte senso della giustizia”, dice. Per questo ha indispettito molti membri della comunità scientifica. Anche per il modo in cui puntualizza le cose. Nell’ambiente si usa addirittura il verbo “schmidhuberare” nel senso di interrompere qualcuno per sapere la vera origine delle sue idee. Alcuni dicono scherzando che si tratta di una sorta di rituale d’iniziazione. Molti ammettono che in fondo Schmidhuber ha ragione.

Chi dovrebbe ottenere il premio per un’invenzione? Chi la fa funzionare o chi ha immaginato in teoria il suo funzionamento? Il fatto è che nella ricerca in rapida evoluzione sull’intelligenza artificiale, a volte i teorici non sono citati. Soprattutto dai ricercatori del mondo angloamericano e in particolare se i precursori hanno pubblicato in lingue straniere o nell’Unione Sovietica. “A tutti può sfuggire qualcosa. Mi arrabbio quando, anche dopo che lo faccio notare, non citano correttamente le fonti”, dice Schmidhuber.

Non è l’unico a trovare ingiusto questo modo di fare. Ma molti dei suoi colleghi vorrebbero che lui fosse più pragmatico o almeno più diplomatico. Uno dei suoi studenti, che vuole rimanere anonimo, ha deciso per questo motivo di non fare un dottorato con lui dopo aver completato la tesi di master: “Ero un fan. Ma si è isolato. Per la scienza serve cooperazione”.

Biografia

1963 Nasce a Monaco di Baviera, in Germania.
1991 Si laurea all’Università tecnica di Monaco.
1995 Diventa direttore dell’Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale diLugano.
1997 Insieme a Sepp Hochreiter scrive un articolo sulle reti neurali considerato fondamentale per la storia dell’informatica.
2017 La sua startup vince il concorso organizzato dalla conferenza NeurIPS.


Schmidhuber è ottimista: “Lo ha detto anche Elvis Presley: la verità è come il sole. Puoi oscurarlo per un po’, ma non se ne andrà mai”. Ed è più orgoglioso ancora di quello che può già dimostrare: ha coltivato talenti. Per esempio, quelli dell’azienda Deep­Mind, che ha creato un software capace nel 2015 di sconfiggere il campione mondiale di go e che di recente ha dato nuove speranze alla biologia prevedendo il ripiegamento delle proteine, cioè determina la struttura 3d di una proteina dalla sua sequenza di amminoacidi. La DeepMind è stata fondata da alcuni studenti di Schmidhuber che negli anni duemila hanno pensato di mettere a profitto le idee su cui stavano facendo ricerca insieme a lui. Nel 2010 con altri ricercatori hanno fondato una startup a Londra. Quattro anni dopo Google ha comprato l’azienda per circa cinquecento milioni di dollari.

Tom Schaul è lussemburghese. È uno di quelli che si sono trasferiti da Lugano a Londra. Ricorda con piacere il periodo trascorso nel canton Ticino. “C’era molto entusiasmo, molte idee e un’atmosfera creativa e amichevole”, dice. Lì Schmid­huber gli trasmise nuove idee.

È così che i vecchi e gli attuali collaboratori lo descrivono sempre: uno che si aggira per l’ufficio spargendo idee qua e là e che capisce al volo il nocciolo di ogni questione. Un genio.

Quest’inverno gli scambi in ufficio sono stati limitati. Nella sede della Nnaisense, la startup di Schmidhuber, pochi ricercatori siedono davanti alle loro righe di codice su grandi schermi neri. La soggezione dei giovani quando lui arriva all’improvviso è evidente. Qui ci sono anche i componenti del modellino di auto con cui gli ingegneri nel 2016 hanno sviluppato un software capace di parcheggiare.

Nel 2017 hanno vinto una competizione chiamata Learning to Run Challenge, organizzata dalla conferenza NeurIPS, il principale evento di machine learning (una branca dell’intelligenza artificiale che punta a rendere i software capaci di migliorare da soli le loro capacità). L’obiettivo era addestrare un algoritmo a far funzionare i muscoli di un modello maschile virtuale. Il requisito fondamentale era di non dare istruzioni esterne: l’algoritmo doveva allenarsi imparando dai propri errori.

Con i concorsi la startup ha ottenuto il riconoscimento che cercava e ora si sta concentrando sulle applicazioni per le aziende. Schmidhuber non è in prima linea. “È più uno che ha delle idee”, dice l’amministratore delegato Faustino Gomez. La startup ottiene molta visibilità grazie al fatto che Schmidhuber ama parlare in pubblico.

Come un bambino

Prima della pandemia, Schmidhuber veniva invitato ogni giorno a conferenze o incontri. I rappresentanti del settore spesso siedono tra il pubblico. Sul palco lui parla della logica che c’è dietro un’intelligenza artificiale capace di imparare come un bambino. Spiega che la curiosità può essere insegnata a un algoritmo, perché può essere descritta in termini matematici. È la gioia di poter sostituire una spiegazione complessa con una meno complessa.

Schmidhuber parla di un’intelligenza artificiale brillante, in grado in breve tempo di uguagliare quella umana per poi superarla. Sarebbe capace di trovare soluzioni a problemi come il cancro e il cambiamento climatico, distruggerebbe posti di lavoro ma creerebbe comunque una vita migliore sulla Terra. Soprattutto, colonizzerebbe lo spazio portando a compimento una nuova tappa nella storia dell’umanità. In questi momenti non è difficile immaginare Schmidhuber seduto nel retro di una Volkswagen mentre sogna cose che lasciano indifferente la maggior parte delle persone, perché vanno ben oltre l’orizzonte della vita individuale. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1401 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati