Il 26 gennaio a New Delhi la polizia ha scatenato la sua violenza contro gli agricoltori che da novembre protestano contro la liberalizzazione del loro settore e che quel giorno hanno addirittura travolto le barricate e issato una bandiera sikh sui bastioni del Red Fort, uno dei principali monumenti della città. Le opinioni su quella giornata si dividono a seconda della fazione di appartenenza: chi sta con gli agricoltori sminuisce la questione del decoro concentrandosi invece sulla violenza dello stato; chi invece è a favore delle leggi o del governo invoca il pugno di ferro contro quelli che considera violenti atti vandalici. Ma da qualunque angolatura la si guardi, una cosa è certa: il modo in cui il primo ministro Narendra Modi e il suo governo hanno gestito la riforma del settore agricolo e le proteste che ha scatenato è stato un completo disastro.

Partiamo dall’inizio. Le tre leggi che hanno l’obiettivo di liberalizzare l’agricoltura, finora regolata dallo stato (che tutelava i produttori dai rischi del libero mercato), gettano le basi per il contract farming (o contratto di coltivazione, un accordo tra il produttore e l’acquirente in cui il secondo ha un potere economico superiore a quello del primo; mentre finora gli agricoltori hanno venduto ai mercati all’ingrosso controllati dal governo o ai mercati rurali a prezzi minimi garantiti). In più, le nuove misure sottraggono potere normativo alle amministrazioni dei singoli stati.

Le leggi rientravano nel pacchetto varato per togliere l’economia indiana dal pantano provocato dalla pandemia. Nel pacchetto c’erano pochi incentivi economici (cosa che ha attirato molte critiche al governo) e c’erano provvedimenti che avrebbero stravolto l’agricoltura indiana. Inoltre il governo, si sarebbe poi saputo, non si è consultato con le parti sul contenuto delle proposte prima di convertirle sommariamente in legge. Questo è successo a giugno del 2020 attraverso una serie di ordini esecutivi, senza nemmeno aspettare che il parlamento esaminasse le proposte. Non è chiaro perché il governo abbia deciso di non confrontarsi con le parti interessate, i singoli stati o il parlamento su riforme così radicali.

Forse sperava che la pandemia avrebbe scongiurato le proteste di piazza. O forse Modi si fidava del suo istinto: il suo governo ha spesso usato ordini esecutivi per aggirare un processo legislativo più partecipato. Ma in entrambi i casi, se il governo sperava di velocizzare l’attuazione delle leggi ricorrendo a scorciatoie e costringendo eventuali oppositori ad accettarle, ha fatto male i conti. Le ordinanze sono state portate in parlamento, mentre gli agricoltori nel Punjab, nell’Haryana e in altri stati si mobilitavano. Nel Punjab la rabbia ha raggiunto livelli tali che il partito Shiromani akali dal, uno dei più vecchi alleati del Bharatiya janata party (Bjp) di Modi, ha lasciato la coalizione al governo e ritirato il suo ministro in segno di protesta.

Ma questo non è bastato a far capire al governo che forse era il caso di allargare il confronto. Le richieste dell’opposizione di sottoporre le leggi a una commissione parlamentare sono state respinte e le misure sono state rapidamente approvate con pochissimo dibattito dalle due camere. Quel che è successo ha dell’inquietante: anche se il Bjp non aveva una maggioranza semplice alla camera alta e l’opposizione aveva chiesto il conteggio di ogni voto, il presidente della camera aveva approvato le leggi ricorrendo al “voto a voce”, stabilendo cioè che una parte aveva urlato più forte dell’altra. In altre parole, le leggi sono state approvate senza contare i voti.

Nei mesi successivi queste irregolarità sono diventate evidenti e le proteste in Punjab sono via via aumentate, guadagnando sempre più consensi tra gli agricoltori anche di altri stati del paese. Il governo ha risposto ignorando o liquidando i manifestanti, finché questi non hanno cominciato a dirigersi verso New Delhi. A quel punto sono comparsi i lacrimogeni, cannoni ad acqua, i blocchi di cemento, imponenti barricate e qualsiasi cosa potesse impedire agli agricoltori di protestare.

A novembre il governo ha vietato ai manifestanti di entrare a New Delhi, così i sindacati del settore si sono stabiliti alle porte della capitale, richiamando decine di migliaia di persone che si sono accampate con i loro trattori.

Dopo nove giri di consultazione a vuoto, il governo ha proposto di rivedere molti aspetti delle leggi, ha tentato di portare la questione davanti alla corte suprema e ha perfino offerto di sospendere le leggi per due anni e cercare soluzioni praticabili per gli agricoltori.

Molte questioni che il governo si è detto pronto a rivedere erano le stesse sollevate dall’opposizione in parlamento, dove però erano state respinte. Con tutte le offerte successive l’esecutivo ha dato l’impressione di voler contenere i danni facendo molte concessioni, mentre gli agricoltori continuavano a chiedere senza esitazioni il ritiro delle leggi.

Violenza di stato

Tutto questo è culminato nelle proteste e nelle violenze del 26 gennaio. I sindacati hanno condannato gli eccessi dei manifestanti, non ultimo la bandiera issata sul Red Fort, ma sono decisi a proseguire. Di sicuro le violenze hanno contribuito a polarizzare l’opinione pubblica. Il fatto che si sia arrivati a tanto riflette un grave insuccesso del governo, sia sul piano politico sia su quello dell’ordine pubblico. Anche se molti vorrebbero che lo facesse, Modi farà fatica a sostenere che l’intero movimento di protesta sia violento e a ordinare una repressione di massa, visto che il suo governo ha legittimato quello stesso movimento proponendo di sospendere le riforme.

In tutto questo tornano le responsabilità del ministro dell’interno Amit Shah, chiamato a rispondere della violenza della polizia a un anno di distanza dagli scontri a sfondo religioso esplosi nella capitale durante la visita del presidente statunitense Donald Trump.

Le azioni e i calcoli del governo sono stati pessimi, da qualunque punto di vista. Dopo questa gestione disastrosa, quale sarà la prossima mossa del primo ministro Modi? ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1395 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati