La mattina del 9 ottobre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato di aver raggiunto, insieme ai mediatori di Egitto, Turchia e Qatar, un accordo per un cessate il fuoco nella Striscia. Per un momento è sembrato che il lungo incubo di Gaza stesse per finire. Il cessate il fuoco però non ha portato pace: ha solo trasformato la sofferenza dandole una forma più silenziosa e insidiosa, in cui il danno dalle macerie comincia a insediarsi nell’anima sfinita di Gaza. Anni di bombardamenti incessanti hanno creato una paura e un’angoscia che nessun intervento esterno può cancellare.
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In questi due anni di distruzione quasi totale tutti a Gaza si sono concentrati su una sola cosa: rimanere in vita. Abbiamo lottato per ogni minuto, cercando di non crollare, di non morire di fame e di non essere uccisi. La vita è diventata un ciclo infinito di terrore e attesa del prossimo attacco. Nessuno aveva il lusso di sognare il domani o perfino di piangere le persone perdute. L’obiettivo era semplicemente andare da un rifugio distrutto a un altro, aggrappati a un filo. La consapevolezza costante che la morte sarebbe potuta arrivare in qualunque momento ha reso ogni singolo giorno un atto di sopravvivenza.
Poi, quando le esplosioni sono diminuite, è tornata a galla tutta la sofferenza che avevamo sepolto per affrontare il caos. Un’altra battaglia è cominciata nel cuore delle persone, fatta di lutto, ricordi e un implacabile tormento. In superficie è sembrato che la guerra fosse finita, ma non era così: le ferite hanno continuato a sanguinare. Le persone hanno cominciato a fare le domande che si erano costrette a ignorare. Sapevano già le risposte – chi se n’era andato, chi non sarebbe mai tornato – ma dire le parole ad alta voce le ha rese reali. Il silenzio che ne è seguito è stato più pesante di tutte le esplosioni a cui erano sopravvissute. Ha rivelato la persistenza della perdita e l’entità di quello che era scomparso. C’erano vuoti ovunque, nelle case, nelle strade, nei cuori, e non c’era modo di riempirli. La popolazione a Gaza ha tirato un fragile sospiro di sollievo quando è arrivata la notizia del cessate il fuoco, ma sapeva che i giorni a venire avrebbero potuto fare più male perfino dei combattimenti. Dopo aver passato 733 giorni sentendosi cancellati dalle mappe, le lacrime bloccate dietro le palpebre hanno cominciato a scorrere, portando con sé tutto il dolore sepolto.
Oltre i mattoni e i corpi
Le strade che un tempo vibravano di vita sono ridotte al silenzio. Case che hanno offerto riparo alle famiglie sono in polvere, mentre i bambini vagano tra le rovine, cercando di riconoscere i luoghi in cui sono cresciuti. Il territorio sembra un abisso che ingoia tutto, mentre il dolore represso rompeva gli argini lasciando tutti ad annaspare nell’impotenza. Trovarsi a faccia a faccia con l’assenza dei propri cari ha lasciato cicatrici che non si possono cancellare.
Non è stata solo la mente a soffrire. Il mondo materiale e sociale dei palestinesi è in rovine. Quando i bombardamenti si sono placati, le persone si sono trascinate fuori dalle tende improvvisate per andare in cerca delle proprie case e città ridotte in macerie. Le famiglie hanno cercato disperatamente tra le rovine le tracce della vecchia vita, i parenti ancora intrappolati tra le rovine. In mezzo a questa devastazione ci si è chiesti: come ricostruiamo da qui? Dove possiamo trovare un barlume di speranza? Quando un intero mondo è stato distrutto, da dove ricominciare? La strategia di Israele è stata chiara e i risultati sono inequivocabili. Non è stato un caos, è stata la volontà di trasformare Gaza in una terra desolata. Colpendo gli ospedali, le scuole e i sistemi idrici – le basi della sopravvivenza – l’obiettivo era distruggere quello che rende possibile la vita stessa.
La distruzione è andata più in profondità, oltre i mattoni e i corpi. L’ombra costante della morte ha reso la paura qualcosa di ordinario, ha fatto sembrare insensata la speranza e la società ha cominciato a disgregarsi. I bambini hanno smesso di imparare, il denaro è scomparso, la sanità è collassata e il fragile collante che teneva insieme le comunità si è sciolto.
Quando i combattimenti si sono placati, gli abitanti a Gaza si sono trovati di fronte a una scelta impossibile: lasciare la loro terra d’origine con il rischio di non tornarci mai più o restare in un luogo senza strade, scuole, medici né tetti. Qualunque scelta avrà lo stesso esito: la prosecuzione delle sofferenze che rendono Gaza invivibile. I negoziati senza fine e gli stalli burocratici non hanno fatto altro che peggiorare lo sconforto, facendo incancrenire le piaghe anche quando il mondo parlava di “pace”.
Il cessate il fuoco avrà anche interrotto i bombardamenti, ma ha dato il via a nuove battaglie: ripristinare l’energia elettrica e l’acqua, riaprire le scuole, ricostruire il sistema sanitario e tentare di riconquistare un senso di dignità. E c’è una domanda più grande: il mondo si accontenterà di aiuti simbolici e discorsi vuoti o finalmente s’impegnerà ad aiutare i palestinesi?
Le guerre scavano ferite profonde e per guarirle non bastano le parole. Serve un supporto continuo e concreto. Dopo due anni sotto assedio Gaza reclama qualcosa di più del silenzio delle armi. Ha bisogno di coraggio, idee e azione per ristabilire la dignità e un senso di futuro. Il cessate il fuoco non è un traguardo. Segna l’inizio di una battaglia più difficile contro l’angoscia, la memoria e il dolore che rifiuta di scomparire. Se il mondo non agirà con fermezza, la vita per i palestinesi sarà impossibile. Ricostruire comunità, abitudini e un po’ di normalità sarà un processo lento e difficile, che però è necessario se Gaza deve andare avanti. Il futuro esigerà da noi tutto quello che ci rimane: la perseveranza, una speranza tenace e la determinazione a restare in piedi. ◆ fdl
Refaat Ibrahim è uno scrittore di Gaza che si occupa di questioni umanitarie,sociali, economiche e politiche.
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Questo articolo è uscito sul numero 1636 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati