Sono passati più di trent’anni dall’ultima volta che l’Unione europea ha imposto sanzioni contro il regime comunista cinese. A quei tempi i carri armati avanzavano per le strade di Pechino contro gli studenti che manifestavano pacificamente per chiedere più democrazia. Allora la Cina era un paese povero, ma con un grande potenziale. Tuttavia si pensava che senza un cambiamento politico simile a quello in atto in Europa orientale non sarebbe mai diventata una potenza globale. Dopo il massacro di piazza Tiananmen, l’occidente scelse la formula “cambiamento attraverso il commercio”. Lo sviluppo economico sarebbe stato seguito dalle riforme politiche, come se ci fosse un po’ di democrazia nascosta in ogni iPhone o Audi A8.
Dal punto di vista commerciale, il piano ha funzionato benissimo: nel giro di vent’anni la Cina è diventata la seconda economia mondiale. Ma il cambiamento politico non si è mai concretizzato, anzi. Da quando Xi Jinping è arrivato al potere nel 2013, il paese è tornato indietro a velocità sempre maggiore. Xi ha abolito il limite dei suoi mandati, si è sbarazzato di chi lo criticava e ha deciso che l’identità culturale degli uiguri era una minaccia per il partito. Il segretario per lo Xinjiang, Cheng Quanguo, che si era guadagnato le sue credenziali in Tibet, ha allestito il sistema dei campi di rieducazione. Nel 2018 le ricerche dell’antropologo Adrian Zenz ne hanno rivelato le dimensioni: fino a due milioni di persone sono state allontanate dalle loro famiglie e sottoposte al lavaggio del cervello, le donne uigure sono sterilizzate a forza, i bambini sono separati dai genitori e i giovani sono mandati nelle fabbriche cinesi. Le prove sono numerose ed evidenti, nonostante il blocco delle comunicazioni che Pechino ha imposto nella provincia, e smentiscono definitivamente la teoria che il commercio avrebbe determinato il cambiamento politico.
Ora i portavoce delle aziende stanno rispolverando la vecchia storia: non si può ottenere nulla con le pressioni, il dialogo è l’unico modo. Non è tutto falso: in particolare, si può discutere se le sanzioni portano davvero dei risultati o se a lungo termine incentivano gli stati a rendersi indipendenti dal sistema economico occidentale. È giusto restare in contatto con la Cina. Ma credere che Pechino metterà fine al suo incubo totalitario nello Xinjiang se glielo si chiede per favore, e che nel frattempo si può continuare a fare affari tranquillamente, è un’illusione e una dichiarazione di fallimento morale. ◆ gac
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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 19. Compra questo numero | Abbonati