Se il presidente degli Stati Uniti Donald Trump un giorno decidesse di fare un viaggio in Lesotho, invece di colpirlo con le sue folgori come un novello Zeus dalla lontana Wash­ington, forse si sentirebbe un po’ a casa. Non come a New York o in Florida – il Lesotho non ha grattacieli né spiagge da offrire – ma come nel far west, dove il cielo è vasto e il paesaggio arido è costellato di piatte montagne di arenaria. Insomma, se andasse in Lesotho, Trump potrebbe tranquillamente pensare di essere nello Utah o in Arizona.

Nella capitale Maseru potrebbe giocare nello splendido campo da golf vicino all’ambasciata degli Stati Uniti e poi, se anche all’estero dovesse sentire la necessità di farsi riprendere mentre mangia in un fast food statunitense, potrebbe fare un salto al Kentucky Fried Chicken. Inoltre potrebbe visitare una delle fabbriche che ogni giorno producono in migliaia di esemplari un simbolo del sogno americano: i jeans di marca Levi’s made in Lesotho. Solo che, se volesse visitare questa fabbrica, dovrebbe sbrigarsi. E la colpa è sua.

Da quando Trump è diventato presidente, il Lesotho, un piccolo regno di 2,3 milioni di abitanti completamente circondato dal Sudafrica, sta vivendo un incubo. Alla fine di gennaio di quest’anno Trump ha cominciato a demolire la macchina degli aiuti allo sviluppo e il Lesotho, dove un adulto su cinque è sieropositivo, è tra i paesi del mondo che ne pagano di più le conseguenze. All’inizio di marzo, poi, Trump ha affermato con aria di scherno che del Lesotho non aveva mai sentito parlare nessuno. Circa un mese dopo, ha dichiarato la sua guerra commerciale a tutto il mondo e il Lesotho si è ritrovato in cima alla classifica dei paesi più colpiti dai dazi, con un’imposta del 50 per cento.

Anche se nel frattempo Trump ha congelato le misure annunciate, nel paese africano nessuno tira un sospiro di sollievo. Anzi, sono tutti sotto shock e tutti si chiedono: perché proprio a noi? Qualsiasi cosa succederà nei prossimi tre mesi, il Lesotho non ne uscirà indenne.

Da Taiwan all’Africa

Alla periferia di Maseru, poco prima che la città diradi tra le colline rocciose, sorgono i cinque capannoni della fabbrica tessile Nien Hsing International. Nel capannone centrale, dove su una superficie di trentamila metri quadrati lavorano 3.500 persone, in gran parte donne, 1.200 macchine da cucire confezionano rumorosamente i jeans. Le addette al taglio danno la giusta forma al tessuto, le cucitrici assemblano le varie parti, le operaie del lavaggio gli danno consistenza e colore. All’ingresso della fabbrica una scritta in inglese e in cinese recita: “Lo sforzo comune condurrà al successo”.

Nella sala riunioni al primo piano, con jeans appesi alle pareti e cracker e bibite sul tavolo, incontriamo Ricky Chang, 56 anni, il direttore dello stabilimento. Come l’azienda Nien Hsing, Chang è di Taiwan. È un uomo alto e affabile, con gli occhiali e la riga di lato. Indossa un paio di jeans, modello Levi Strauss Signature, prodotto nella fabbrica.

Il settore tessile contribuisce al 20 per cento del pil del Lesotho, impiega più di quarantamila persone ed è saldamente in mano a Taiwan: a parte rare eccezioni, i circa quaranta produttori di abbigliamento con sede in Lesotho fanno capo a gruppi taiwanesi. La Nien Hsing si è insediata a Maseru nel 1992 e molte altre aziende sono arrivate dopo il duemila. Secondo Chang, la Nien Hsing produce fino a trentamila capi al giorno tra jeans, gonne e giacche, al 100 per cento in cotone africano. Circa l’80 per cento della produzione è spedito negli Stati Uniti con il logo Levi’s. Torna a casa, insomma.

Chang nomina di rado il suo cliente principale, lo chiama semplicemente il “marchio famoso”. Ovviamente, spiega, anche gli altri clienti hanno standard elevati, ma un marchio così famoso è tutta un’altra cosa: significa dover superare rigidi controlli di qualità. A Maseru si confezionano i modelli Levi’s 505, 507 e 511, e presto alla lista potrebbe aggiungersi un modello speciale: i 501, i jeans per eccellenza. “Sarebbe un grande riconoscimento”, afferma Chang. Ma potrebbe anche succedere che la fabbrica debba smettere di produrre per il mercato statunitense. E questo, dice Chang, per colpa di Donald Trump.

Il 3 aprile, mentre leggeva sul telefono le prime notizie sui dazi, se non fosse stato ancora a letto, Chang sarebbe caduto a terra per lo shock. Dazi del 50 per cento per il Lesotho. “Non possiamo farcela”, spiega. La questione è semplice: se in futuro, per comprare i jeans prodotti in Lesotho il “marchio famoso” dovesse spendere di più che per i pantaloni prodotti altrove, allora comprerebbe meno jeans in Lesotho o, peggio, non ne comprerebbe affatto. Chang ha previsto il peggior scenario possibile: crollo degli ordini, riduzione del lavoro, licenziamenti. Chang non parla di cifre, ma è facile fare due conti se si considera che l’80 per cento della produzione è destinato agli Stati Uniti.

Fuori della fabbrica incontriamo Mathato Lenka, in pausa pranzo. Ha 43 anni ed è un’addetta alla cucitura. “Certo che temo di perdere il lavoro”, ci dice a bassa voce. Lo stipendio non è incredibile, ma è giusto, e delle condizioni di lavoro non ci si può lamentare. Lenka confeziona jeans Levi’s cinque giorni su sette, dalle sette alle diciassette, con un’ora di pausa pranzo. A casa ha due figli e un marito disoccupato: se dovesse perdere il lavoro, la sua famiglia resterebbe senza reddito. “Non capisco proprio perché Trump fa quello che fa”, dice.

Anche Chang rischia molto. Lavora in Lesotho per la Nien Hsing da dodici anni. Prima aveva prestato servizio nell’esercito taiwanese per più di vent’anni, diventando ufficiale. Ma a un certo punto, racconta, si era reso conto che indossava l’uniforme da troppo tempo e se n’è andato in Africa. Vive insieme alla sua famiglia a Ladybrand, in Sudafrica, vicino al confine con il Lesotho. I suoi tre figli sono cresciuti lì e vorrebbero rimanerci. Ma anche questo non dipende più da lui.

Quando ha letto della sospensione dei dazi, si è sentito temporaneamente sollevato: aveva novanta giorni per cercare nuovi clienti, soprattutto in Sudafrica. Del resto, osserva, i jeans non piacciono solo agli statunitensi. Anche durante la pandemia di covid-19, un crollo della domanda dagli Stati Uniti aveva costretto l’azienda a chiudere due delle sue tre fabbriche in Lesotho. Da allora ha deciso di rafforzare i rapporti commerciali con il Sudafrica, passando da meno del 5 per cento delle esportazioni a quasi il 20 per cento. Ma anche andando in questa direzione non riuscirebbe a compensare la perdita del mercato statunitense, ammette Chang.

Spera che il governo del Lesotho riesca a strappare un accordo evitando i dazi al 50 per cento. Ma sembra più difficile del previsto.

Passare il messaggio

Il ministero del commercio e dell’industria del Lesotho si trova in una palazzina anonima nel centro di Maseru. Solo una piccola bandiera tricolore blu bianca e verde sul balcone indica che ci troviamo in un edificio governativo. Il ministro Mokhethi Shelile, un uomo dall’aria seria che indossa una cravatta rossa, ci riceve nel suo ufficio al terzo piano, seduto a una grande scrivania color rosso scuro. Alle sue spalle un enorme armadio a muro, rosso scuro anche quello. Dalla finestra aperta si sente il rumore della strada.

Nelle ultime settimane Shelile è stato impegnato in una lunga serie di interviste con giornalisti provenienti da Sudafrica, Francia, Qatar e Germania. Ma nessuno ancora dagli Stati Uniti, racconta. Per lui è meglio così, perché se c’è una cosa che vuole evitare è proprio ritrovarsi coinvolto nelle questioni interne degli Stati Uniti. Se lo chiamasse la Cnn dovrebbe pensarci bene: rilasciando un’intervista, potrebbe far arrabbiare Trump. Alla Fox, invece, direbbe subito di sì, perché potrebbe tornargli utile.

Quando Trump ha detto che nessuno aveva mai sentito parlare del Lesotho, Shelile non si è arrabbiato, racconta. Ad altri paesi, per esempio alla Cina, sono toccati insulti ben più gravi. E poi lo sa che c’è un fondo di verità: quando va all’estero, gli tocca spesso spiegare dov’è il suo paese. A infastidirlo è piuttosto il fatto che Trump non sia stato onesto: al secondo mandato da presidente degli Stati Uniti, dovrebbe sapere che esiste un paese chiamato Lesotho. Su internet, dice Shelile, ha letto che alcuni capi di abbigliamento da golf in vendita nei negozi online Trump­store sono prodotti in Lesotho.

Quando ha ricevuto la notizia dei dazi, Shelile è rimasto sconvolto, proprio come Ricky Chang. Poi, telefonando all’ambasciata degli Stati Uniti a Maseru, ha scoperto perché il suo paese era in cima alla lista: i dazi sono stati calcolati in base al deficit commerciale degli Stati Uniti con il paese in questione, deficit che in questo caso è particolarmente alto. Nel 2024, infatti, il Lesotho ha esportato negli Stati Uniti prodotti per 237,3 milioni di dollari (soprattutto abbigliamento, ma anche diamanti), mentre le esportazioni statunitensi verso il Lesotho sono state di 2,8 milioni di dollari. Shelile invita a considerare meglio queste cifre, in termini assoluti: non stiamo parlando di miliardi di dollari, come nel caso di altri paesi.

Shelile deve provare a negoziare un nuovo accordo, ma allo stesso tempo deve mettere fine alla dipendenza dal mercato statunitense

Il Lesotho non compra quasi nulla dagli Stati Uniti perché è un paese piccolo e povero. Nessuno impedisce alle aziende statunitensi di offrire i loro prodotti al Lesotho, ma per molte è un mercato irrilevante. In Lesotho i dazi sulle importazioni sono del 7,5 per cento, come in tutti gli altri paesi dell’Unione doganale dell’Africa meridionale (Sacu). Ma al Sudafrica e alla Namibia Trump non ha imposto dazi così alti, proprio tenendo conto del deficit commerciale.

In pratica, il Lesotho è punito per aver beneficiato più di altri paesi dell’African growth and opportunity act (Agoa), un accordo del 2000 che garantisce a più di trenta paesi africani l’accesso al mercato statunitense senza pagare dazi. In gran parte, il boom dell’industria tessile in Lesotho è legato proprio a questo accordo: oggi gli Stati Uniti sono il secondo partner commerciale del Lesotho dopo il Sudafrica. Dell’Agoa – ammette Shelile – non beneficiano solo gli africani, ma anche le aziende tessili taiwanesi che si sono insediate nel paese prima e dopo il 2000. Ma se è questa la vera ragione della rabbia di Washington, nessuno l’ha detto esplicitamente, sostiene Shelile. Anche perché il Lesotho non fa nulla di illegale.

L’accordo Agoa scade quest’anno e difficilmente l’amministrazione Trump deciderà di prolungarlo. Insomma, che i dazi siano del 50 per cento o del 10 per cento, per il Lesotho una cosa è certa: è finita l’epoca dell’accesso agevolato al mercato statunitense. Per Shelile è un motivo in più per tentare una doppia strategia: deve provare a negoziare un nuovo accordo, ma allo stesso tempo deve mettere fine alla dipendenza dal mercato statunitense. “Non voglio restare con le mani in mano ad aspettare le decisioni di Trump”, afferma il ministro.

È abbastanza fiducioso: il Sudafrica è pieno di potenziali clienti e Shelile vorrebbe parlare di relazioni commerciali anche con altri paesi, come il Regno Unito, e con l’Unione europea. Ma per le aziende come la Nien Hsing, che produce principalmente per il mercato statunitense, sarà dura e migliaia di persone rischiano di perdere il lavoro. “Bisognerà fare dei sacrifici”, ammette Shelile, ma è fiducioso che nel complesso il settore sopravvivrà.

Su un nuovo accordo il ministro è meno ottimista. Subito dopo l’annuncio dei dazi, il governo del Lesotho ha annunciato l’invio di una delegazione a Washing­ton, ma da allora, proprio come succede a decine di altri paesi, cerca invano di ottenere un appuntamento. Non riesce nemmeno a farsi rispondere al telefono. In compenso, racconta Shelile, è stato contattato da organizzazioni di Washington che millantano rapporti diretti con la squadra della campagna elettorale di Trump o con la sua famiglia e si offrono di organizzare un incontro, senza garanzie di successo, ma facendosi pagare in anticipo. I prezzi, precisa Shelile, variano dai 500mila a 105 milioni di dollari.

“A Washington”, commenta, “le relazioni personali contano più dei canali ufficiali. È una novità per tutti”. Eppure il suo governo non accetterà nessuna di queste offerte: meglio investire quel denaro per aiutare l’industria tessile a trovare nuovi mercati.

Il Lesotho, conclude, si è sempre sforzato di mantenere buoni rapporti con Wash­ington, rispettando tutte le regole e appoggiando la linea statunitense alle Nazioni Unite, per esempio nelle votazioni sulla questione ucraina. “Pensavamo di essere amici, ma al momento non sembra proprio”, osserva.

Perché? La domanda non gli dà pace. Una risposta definitiva non l’ha ancora trovata, ma ipotizza: “Se sei povero o svantaggiato, Trump probabilmente ti odia più di quanto odi i ricchi”.

Il dilemma degli aiuti

In gioco per il Lesotho non ci sono solo i jeans. C’è praticamente tutto: posti di lavoro, aiuti allo sviluppo, sistema sanitario. In ognuno di questi settori, negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo centrale.

In una casa della periferia di Maseru incontriamo Sophie Matjama, 53 anni. Capelli corti e occhi stanchi, è seduta sul divano, con alle spalle un’immagine della Madonna e una Bibbia ben in vista nella libreria. Matjama e suo figlio vivono da due mesi a casa della sorella, perché hanno dovuto lasciare la loro abitazione per colpa della “questione Trump”. Sophie Matjama non è il suo vero nome, non vuole che questo sia pubblicato.

Matjama non ha avuto vita facile. Originaria di un villaggio nelle montagne del Lesotho, ha perso il padre quando aveva due anni. Con la madre e i fratelli si è trasferita a Maseru. La famiglia era povera e lei, tra interruzioni e ripartenze, è riuscita a finire la scuola a 25 anni. Ha sposato un sudafricano, ma non è stato un matrimonio felice. Sedici anni fa, quando è arrivato un figlio, erano ormai in crisi da tempo e poco dopo lui è tornato in Sudafrica. L’ultima volta che il padre ha visto il figlio è stata due anni fa.

In una fabbrica tessile a Maseru, 19 marzo 2025 (Roberta Ciuccio, Afp/Getty)

Nel 2018 la vita di Matjama era cambiata: era riuscita a farsi assumere come assistente in un’organizzazione internazionale per i diritti delle donne, con un buono stipendio – migliore di quello offerto dai datori di lavoro locali – e l’assicurazione sanitaria. Nel grande ufficio dell’organizzazione, lei si occupava della reception, rispondeva al telefono e gestiva le pratiche burocratiche. La sera, quando tutti se ne andavano, faceva le pulizie. Per più di sei anni è sempre stata contenta di andare al lavoro.

Alla fine di gennaio di quest’anno, però, tutto il personale è stato convocato di mattina presto. In ufficio c’erano una ventina di dipendenti, mentre altre centinaia si sono collegate in videochiamata. I capi hanno spiegato che il nuovo governo degli Stati Uniti aveva congelato gli aiuti allo sviluppo con effetto immediato e, anche in quel caso, per novanta giorni. Perciò sarebbero stati costretti a licenziare i dipendenti il cui stipendio veniva pagato con i fondi erogati dall’agenzia statunitense per lo sviluppo Usaid. Erano più di quattrocento persone, racconta Matjama. Andate a casa, hanno detto i capi, vi contatteremo se ci saranno novità.

Più del fatto in sé, l’ha colpita il silenzio calato subito dopo l’annuncio: non si sentiva volare una mosca. Lei ha consegnato il suo computer e ha pulito per l’ultima volta l’ufficio, poi è andata a casa. Il contratto, scaduto il 31 gennaio 2025, non è stato rinnovato. Ha dovuto trasferirsi dalla sorella, sperando che fosse una soluzione temporanea.

Come tante altre misure annunciate da Trump negli ultimi mesi, anche il taglio ai fondi dell’Usaid ha scatenato il caos. Sono intervenuti i tribunali statunitensi, sono state fatte alcune eccezioni e, in alcuni casi, i pagamenti sospesi sono ripresi. Ma non quelli per il progetto per cui lavorava Sophie Matjama. Una settimana fa tutti i mobili dell’ufficio sono stati donati a un orfanotrofio. Insomma, sembra che non si torni indietro.

Matjama si sente come se l’avessero spogliata di tutto. Con quello che ha risparmiato tirerà avanti qualche mese, non dovendo pagare l’affitto. Ma è preoccupata per il futuro perché, come circa 270mila persone in Lesotho, è sieropositiva. L’ha scoperto nel 2015, quando è andata in un ospedale in Sudafrica perché aveva un nodulo ingrossato sul collo. Dopo vari esami i medici le hanno comunicato due diagnosi: linfoma e hiv.

Il cancro l’ha sconfitto con la chemioterapia, mentre per tenere sotto controllo il virus deve prendere ogni sera prima di dormire delle pillole bianche che abbassano la carica virale tanto da renderla non più rilevabile. Quando aveva un lavoro, l’assicurazione sanitaria le pagava i farmaci. Oggi glieli passa lo stato gratuitamente. Per ora.

A parte sua sorella, Matjama non ha detto a nessuno che è sieropositiva: non lo sa neanche suo figlio. Ha paura di essere stigmatizzata e accetta di parlare con noi solo a patto di mantenere l’anonimato. Teme che lo stato finisca le scorte di farmaci o i soldi per comprarli.

Dai tagli del governo statunitense sono esclusi gli interventi salvavita, ma Matjama ha paura che questa promessa, nel caso dei farmaci per l’hiv, rimanga sulla carta. E non è l’unica: finora sono stati principalmente gli Stati Uniti a finanziare la lotta globale all’hiv e all’aids, che negli ultimi anni ha permesso di salvare milioni di persone in Africa. Se i fondi verranno meno, ha avvertito a metà marzo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), a risentirne non saranno soltanto la ricerca e la prevenzione. Presto potrebbero scarseggiare anche i farmaci. I paesi gravemente a rischio sono otto e tra questi c’è il Lesotho. Sono in gioco vent’anni di progressi, ha detto il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus. Si rischiano dieci milioni di nuovi contagi e il triplicare del numero di morti.

Trump, dice Sophie Matjama, non pensa agli altri ma solo a se stesso. Se un giorno Trump andasse in Lesotho, vorrebbe dirglielo di persona? No, non vorrebbe parlargli. Anzi sì, ma per chiedergli un lavoro. Sarebbe disposta perfino a lavargli i piedi. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1613 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati