Alcuni documenti interni del comando statunitense in Africa (Africom) rivelano ambiziosi progetti del Pentagono per ampliare la sua rete di basi e avamposti in tutto il continente. Una spesa di più di 330 milioni di dollari per una serie di progetti “prioritari” da realizzare entro il 2025. I progetti, datati ottobre 2018, riguardano quattro avamposti in tre paesi, Gibuti, Kenya e Niger, considerati i cardini della lotta al terrorismo. Il portavoce dell’Africom John Manley ha dichiarato che questi piani “sono tuttora validi e hanno raggiunto fasi diverse di progettazione ed esecuzione”.
“Il Pentagono ha interesse a espandere la sua infrastruttura per le missioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, per le operazioni di guerra condotte con i droni, oltre che i campi di addestramento e le basi, in modo da aumentare la sua influenza in regioni chiave come il Corno d’Africa, l’Africa orientale e il Sahel”, afferma Salih Booker, del Center for international policy di Washington.
Presenza scomoda
Le priorità statunitensi potrebbero cambiare dopo le presidenziali di novembre, ed è presto per prevedere gli effetti della pandemia. Ma alcuni generali statunitensi in Africa si sono mostrati favorevoli a una presenza duratura nel continente. Ufficialmente il Pentagono parla di una scarsa presenza fisica in Africa. “Abbiamo una sola base”, ha detto la portavoce del dipartimento della difesa statunitense Candice Tresch, riferendosi a Camp Lemonnier a Gibuti. Tuttavia ogni giorno circa seimila soldati americani operano in 27 avamposti sparsi in tutta l’area settentrionale dell’Africa. Tra questi ci sono quindici “postazioni permanenti” e dodici “postazioni di contingenza” nel Sahel e nel Corno d’Africa. Il numero più alto di basi statunitensi è in Niger. Ma il gioiello della corona si trova a Gibuti: Camp Lemonnier è un ex avamposto della legione straniera francese che dal 2003 è la sede della task force congiunta per il Corno d’Africa degli Stati Uniti. Camp Lemonnier è da tempo cruciale per le operazioni nello Yemen e in Somalia e ospita quattromila soldati statunitensi e di paesi alleati. Da quando Washington ne ha preso il controllo, la base è passata dagli iniziali 35 ettari di superficie agli attuali 240. È qui che si concentra il grosso dei progetti di costruzione ritenuti prioritari da Africom nei prossimi cinque anni.
Nel 2013 il Pentagono ha spostato la flotta di droni armati da Camp Lemonnier a una pista di atterraggio meno in vista, a una decina di chilometri dalla base: il campo di aviazione di Chabelley, che è servito da base per l’operazione Jupiter Garrett, contro obiettivi di alto profilo in Somalia. Anche a Chabelley gli Stati Uniti prevedono di spendere diversi milioni di dollari fino almeno al 2024, anno in cui scade l’accordo sull’uso della pista. Infine 34 milioni di dollari saranno spesi per la base militare di Manda Bay, in Kenya, dove saranno potenziate la pista d’atterraggio e ampliati gli alloggi.
La pianificazione su vasta scala di Africom sembra stridere con le dichiarazioni del ministro della difesa Mark Esper, che pare stia valutando di ridurre o addirittura ritirare del tutto le forze statunitensi dall’Africa occidentale.
Nel frattempo il generale Stephen Townsend, comandante di Africom, continua a perorare la causa del suo comando, sottolineando i risultati raggiunti e le terribili conseguenze di un eventuale ritiro. Vogliamo “garantire agli Stati Uniti un vantaggio strategico per il presente e il futuro”, ha dichiarato a gennaio davanti a una commissione del senato. Altrimenti “le organizzazioni estremiste violente cresceranno senza controllo”. Salih Booker, però, solleva alcuni interrogativi: “Cosa sanno di questi piani i cittadini di questi paesi, e cosa ne pensano? E cosa ne pensano l’Unione africana e le organizzazioni economiche regionali?”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati