È sera e c’è silenzio nei giardini di via Abu Nawas. Camminando nel centro di Baghdad, raggiungo il viale un tempo elegante che si snoda lungo il fiume Tigri. Nuvole di fumo si alzano dai cumuli di spazzatura dati alle fiamme sulla riva, cani randagi abbaiano tra uomini solitari che bevono alcolici nascosti in buste di plastica. Un ubriacone svuota la vescica in una pozzanghera.
I volti solenni di miliziani vivi e “martiri” sui manifesti affissi per la strada sembrano lanciare sguardi minacciosi ai civili bloccati nel traffico. Le bandiere delle milizie sventolano sui pali della luce rotti. Su alcune c’è scritto, in verde su uno sfondo bianco, “Lega dei giusti”. Qualche giorno prima uomini armati in tuta mimetica sono apparsi in tv dichiarando di far parte di questa “Lega dei giusti” e hanno minacciato il premier iracheno per aver fatto arrestare uno dei loro compagni, considerato colpevole di aver pianificato un lancio di razzi contro la “zona verde” di Baghdad. Alle minacce hanno risposto i politici con le loro solenni filippiche sulla sovranità e il prestigio dello stato, promettendo di far rispettare la legge in una terra senza legge. Da quasi due decenni ormai falliscono miseramente. Ancora oggi uomini armati minacciano, sequestrano e uccidono civili a loro piacimento. Lanciano maldestramente razzi contro l’ambasciata degli Stati Uniti, uccidendo civili innocenti. Secondo l’Iraq body count, un’organizzazione che registra le morti violente nel paese, nel 2020 sono stati uccisi 902 civili. Molti sono morti nelle proteste contro il governo, note come la rivolta di ottobre, mentre rivendicavano una vita dignitosa in una patria sicura.
Intanto la fame continua a diffondersi in Iraq a un ritmo incalzante e la svalutazione del dinaro ha aggravato la sofferenza degli iracheni. Ad Abu Nawas la povertà è evidente. Bambini con ciabatte spaiate e tute lacerate vendono succhi e acqua vicino alle statue di Shahryar e Shehrazad, dello scultore Mohammed Ghani Hikmat. Venditori esausti siedono sul bordo del marciapiede, nella speranza che qualche automobilista gli faccia un cenno e compri una qualunque delle loro mercanzie a poco prezzo.
La povertà non è l’unica presenza tangibile sulla strada. Anche se è incapace di garantire la sicurezza dei cittadini, il governo iracheno insiste nella militarizzazione dei loro spazi pubblici. Su via Abu Nawas sembra di essere in visita in una caserma. Alcune parti dei marciapiedi sono circondate da filo spinato o occupate da veicoli militari. Nel giro di un’ora le forze di sicurezza mi fermano tre volte perché ho una macchina fotografica al collo. “Dove stai andando?”, mi dice un agente in tono perentorio prima di chiedermi di scattargli una foto.
Dovere morale
Camminando, penso ai famosi ristoranti di masgouf di Abu Nawas, che servivano la migliore carpa grigliata tradizionale. In un’iniziativa per rinnovare la strada nel 2012, il comune li ha demoliti perché erano usati “in modo improprio”, cioè servivano alcolici. Ad Abu Nawas ci sono ancora alcuni squallidi negozi di alcolici. Quando il sole tramonta questi locali sono l’unica fonte di luce nei lunghi tratti bui sulla strada. Finora sono riusciti a resistere alle minacce degli intoccabili miliziani.
Poco dopo scendo dalla via principale in uno degli sgangherati giardini della strada per catturare gli ultimi baci del sole con il Tigri. Un anziano seduto su un’altalena per bambini dondola avanti e indietro trangugiando una birra. A cosa pensa? Ha perso forse un fratello o una sorella per mano di anonimi assassini? O i missili statunitensi hanno annientato i suoi figli?
Vado verso via Al Rashid, passando sotto il ponte Al Jumhuriya, dove le forze di sicurezza hanno ferito e ucciso molti giovani disarmati durante le proteste del 2019 e 2020. Guardo in direzione di piazza Tahrir. Le sue palme sono avvolte di luci al neon bianche e verdi. Anche le palme e il monumento alla libertà di Jawad Salim sono stati colpiti dai candelotti dei lacrimogeni nel 2019. Mi torna in mente Saif Salman, 26 anni. L’ho incontrato nel 2019 quando era ricoverato in ospedale a Baghdad. Lo chiamo per sapere come sta. Scoppia in lacrime quando parliamo dei fatti dell’ottobre 2019: “Non me ne pento. Era un dovere morale”. Il 25 ottobre 2019 Saif si era unito sul ponte alle folle di giovani arrabbiati, decisi a rovesciare il regime. Un candelotto lacrimogeno di tipo militare si è conficcato nella sua gamba destra, che è stata amputata.
Il governo ha promesso di punire i responsabili delle violenze. Ma i manifestanti continuano a essere uccisi, e come milioni di iracheni Saif non crede alle promesse. “Per loro siamo già morti”, mi dice. Quando finisco la telefonata Al Rashid è avvolta nell’oscurità. Nessuno fa la fila fuori dal famoso cinema Al Zawra. A parte alcuni soldati, quella che un tempo era la strada più elegante della città è vuota. I pochi lampioni funzionanti ne illuminano le facciate decorate, in rovina dopo anni di abbandono. Macerie di edifici crollati pendono oblique, a malapena sorrette da sofferenti colonne. Nel tentativo di tirare a lucido l’antico prestigio perduto della città, ogni tanto il comune manda degli operai a tinteggiare le colonne. La vernice di solito si stacca dopo pochi giorni.
Mentre avanzo nella notte un ragazzino compare da un vicolo buio. Gli chiedo se abita qui. “Sì, è tranquillo, sono rimaste poche famiglie”. Mi mostra una cicatrice sul braccio sinistro: “Me l’ha fatta una granata stordente”. Ne ha un’altra sulla gamba sinistra causata da un proiettile. Anche lui ha partecipato alle proteste nel 2019.
Lo saluto e continuo la mia passeggiata. Passo davanti a quella che una volta era la libreria McKenzie e oggi è un negozio di scarpe: una trasformazione che rappresenta il declino nell’abisso che il paese ha avviato dopo l’invasione statunitense del 2003. I cani randagi rovistano tra le buste di spazzatura accumulate sui marciapiedi. Mi ricordano i cani che nel 2003 rosicchiavano i cadaveri nelle strade di Baghdad, all’apice del caos scatenato dall’impresa liberatoria di Washington. Sono passati diciotto anni, eppure a Baghdad sembra ancora di stare in guerra. Gli elicotteri militari rombano sopra i poveri vicoli dove i giovani sono destinati a vivere un’esistenza miserabile, a uscire di casa in cerca di lavoro per tornarci in una bara, ad avere i loro ritratti appesi nei salotti in cui anziane donne siedono in silenzio, immerse in un lutto inconsolabile. ◆ fdl
Nabil Salih è un giornalista e fotografo indipendente di Baghdad.
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Questo articolo è uscito sul numero 1425 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati