Alla fine di aprile del 2025 un gruppo di terroristi ha ucciso 26 civili nella città di Pahalgam, nella parte del Kashmir amministrata dall’India. New Delhi ha subito attribuito la responsabilità dell’attacco al Pakistan, ha lanciato missili contro il suo territorio e ha annunciato la sospensione del trattato sulle acque dell’Indo, minacciando di fatto di tagliare tre quarti dell’approvvigionamento idrico del paese.
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Ahmad Irfan Aslam, un avvocato pachistano con molta esperienza nel campo del diritto internazionale che fino al 2024 era ministro della giustizia, delle risorse idriche e naturali, del cambiamento climatico e degli investimenti, ha seguito le notizie con una crescente sensazione di orrore. L’India stava prospettando la possibilità di chiudere il rubinetto a 250 milioni di persone. Sarebbe stata una violazione non solo del trattato, ma anche delle leggi internazionali sull’uso equo delle risorse idriche. Colleghi e amici si sono rivolti ad Aslam per chiedergli un consiglio su come comportarsi. “Mi sono reso conto con sgomento che oggi non c’è molto da fare”, ammette. “Assistiamo a un’improvvisa erosione delle istituzioni multilaterali, delle norme istituzionali. Tutto sembra incerto”.
Anche se il Pakistan presentasse un reclamo a una delle istituzioni create per risolvere le controversie tra stati – il Consiglio di sicurezza o l’assemblea generale delle Nazioni Unite, la Corte internazionale di giustizia (Cig) o la Corte permanente di arbitrato – qualunque decisione presa quasi sicuramente non sarebbe rispettata. “Il diritto internazionale si è sempre basato sulla buona fede degli stati”, spiega Aslam. “E quella buona fede si è sbriciolata”.
Ritiri e minacce
Nel 2024 Aslam aveva provato una sensazione d’inquietudine simile quando era all’Aja come rappresentante del Pakistan presso la Cig in un procedimento sull’occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania da parte di Israele. “L’occupazione israeliana è illegale, e l’illegalità deve avere conseguenze”, aveva dichiarato alla corte. Al procedimento partecipavano 52 paesi, ma tra Aslam e i suoi colleghi “c’era la consapevolezza che niente di tutto questo avrebbe cambiato concretamente qualcosa”. Forse quello che avrebbero detto ai giudici avrebbe avuto un significato per gli storici, ma le loro parole non sarebbero servite ad alleviare le sofferenze dei palestinesi. “Non importa a quale tribunale ti rivolgi, non otterrai giustizia”, commenta. “E i civili sono intrappolati in questa rete di geopolitica che non è certo opera loro”.
Nell’ultimo decennio le istituzioni che sostengono l’ordine internazionale sono state indebolite, paralizzate o compromesse. Il recente ritiro degli Stati Uniti da una serie di organizzazioni e accordi internazionali — l’accordo di Parigi sul clima, l’Organizzazione mondiale della sanità, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite — ha ulteriormente danneggiato il sistema; le sanzioni imposte da Washington alla Corte penale internazionale (Cpi) hanno compromesso la credibilità di questo tribunale e creato gravi ostacoli finanziari alle sue indagini sui crimini di guerra in Ucraina e a Gaza; il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è paralizzato da anni a causa del potere di veto dei suoi membri permanenti.
Poi ci sono le minacce di Trump di occupare Groenlandia e Canada e d’impossessarsi del canale di Panamá. “Anche solo ventilare la possibilità di queste azioni chiaramente illegali danneggia la norma, perché le rende concepibili”, sostiene Oona Hathaway, che insegna diritto internazionale a Yale. Pochi giorni dopo gli attacchi aerei illegali ai siti nucleari iraniani condotti dagli Stati Uniti insieme a Israele, Hathaway ha detto che le scelte di Trump rischiano di “rimodellare l’ordine giuridico globale, trasformandolo da un sistema governato dal diritto a uno governato dalla forza”. Ma l’erosione della giustizia internazionale è cominciata ben prima che Trump salisse al potere nel 2017.
La rilevanza e perfino l’esistenza stessa del diritto internazionale sono oggetto di dibattito fin da quando è nato, quasi due secoli fa. I suoi difensori sostengono che è un baluardo contro una nuova grande guerra, un argine ai crimini e alle violenze di massa. Altri rispondono che, invece di tutelare il mondo dalle azioni peggiori, ha protetto gli stati fornendo un linguaggio con cui potevano giustificare le loro colpe. Anche gli esperti di diritto internazionale sono divisi sullo stato di salute della loro disciplina: se è viva e vegeta, in letargo, in agonia o deceduta da tempo, un “fantasma morale” che aleggia sulla mappa del mondo.
Una città simbolo
Passeggiando per l’Aja, nei Paesi Bassi, si ha l’impressione che non sia una città vera e propria ma una collezione di simboli. Camminare per le sue strade significa imbattersi di continuo nelle rovine dei vari tentativi d’instaurare la pace nel mondo. L’edificio che un tempo ospitava il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia si trova proprio davanti al Centro internazionale per il perseguimento del crimine di aggressione contro l’Ucraina. Il tribunale per le controversie tra Iran e Stati Uniti, istituito dopo la crisi degli ostaggi a Teheran nel 1979 e ancora in attività, si trova a dieci minuti a piedi, mentre l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche è pochi metri più in là. Queste istituzioni non hanno molto a che fare l’una con l’altra dal punto di vista giuridico, ma il fatto di essere tutte all’Aja gli conferisce una sorta di “patina di legittimità”, afferma un giurista. La Corte penale internazionale si trova nell’angolo nordorientale della città, non lontano dal centro di detenzione che ospita i suoi imputati (tra cui l’ex presidente filippino Rodrigo Duterte e il leader dei ribelli centroafricani Alfred Yekatom). Mano a mano che ci avviciniamo al palazzo della Pace, sede della Corte internazionale di giustizia, la città diventa più placida e verdeggiante.
Queste istituzioni sono l’incarnazione fisica della disciplina nota come diritto internazionale, anche se gli studiosi tendono a non essere d’accordo su cosa sia esattamente. Invece di una risposta otteniamo una serie di metafore: un avvocato mi ha detto che è “come la gravità: non la vedi, ma c’è”. Altri l’hanno paragonato all’ortografia della lingua inglese (le regole possono sembrare inventate), alla pornografia (la riconosci quando la vedi), a un corso d’acqua (non resta mai fermo), a una commedia (può sfidare la logica), a una tragedia (troppo spesso perdono tutti). La scrittrice Shirley Hazzard una volta lo ha definito con un certo cinismo “una bella messinscena”. Le sue fonti, secondo lo statuto della Corte internazionale di giustizia, comprendono trattati, convenzioni, consuetudini e giurisprudenza, oltre ai “princìpi generali riconosciuti dalle nazioni civili” e agli “insegnamenti dei più qualificati” esperti.
Ma parlare del diritto internazionale come un semplice insieme di norme e accordi significa tralasciare la sua funzione di “lingua franca del sistema internazionale”, uno strumento per esprimere la convinzione che chi si è macchiato di crimini globali deve essere punito. Pensiamo agli ufficiali tedeschi in attesa di sentenza a Norimberga o agli autori di genocidi sotto processo all’Aja. Sono esempi di diritto internazionale penale, il ramo più giovane e fragile del sistema, e anche il più discusso. Oggi nel settore si fa largo la sensazione che il diritto internazionale penale sia un progetto fallito, “un morto che cammina”. Pochi degli avvocati con cui ho parlato sono disposti a difenderlo senza riserve. “Il divario tra le aspirazioni della legge e la realtà delle persone coinvolte è sempre più ampio”, dice Adil Haque, professore di diritto alla Rutgers university, negli Stati Uniti. “E questo è un problema, perché il diritto dovrebbe ottenere risultati concreti nel mondo reale”.
In mano ai vincitori
Con la nascita della Corte penale internazionale nel 1998 si realizzavano le aspirazioni più idealiste del diritto internazionale: costringere i responsabili di crimini emblematici a rispondere delle proprie azioni quando i loro paesi non sono riusciti a farlo. La corte ha aperto le porte in un momento unico e forse irripetibile nella storia delle relazioni internazionali, quando le potenze mondiali godevano ancora del clima positivo seguito alla fine della guerra fredda. “È stato un periodo strano, molte preoccupazioni delle grandi potenze in materia di sovranità e sicurezza si erano in parte attenuate”, spiega David Bosco, un giornalista e accademico che segue il tribunale da decenni. “Questo ha permesso di realizzare un progetto come la Cpi, che in qualunque altro momento storico non sarebbe stata possibile”.
Quel periodo si è rivelato di breve durata. La Cpi, che ha un budget di circa 200 milioni di euro all’anno, non è mai riuscita a essere all’altezza delle aspirazioni che l’avevano fatta nascere. In 23 anni di attività ha emesso solo undici condanne, tutte per crimini commessi nel continente africano (a causa della percepita ostinazione a processare imputati africani, gli stati dell’Unione africana hanno ripetutamente minacciato di ritirarsi dallo statuto di Roma, il trattato fondativo della corte). “La Cpi ha un’aura neocoloniale che è difficile scrollarsi di dosso”, commenta il giurista ed ex diplomatico finlandese Martti Koskenniemi. A suo avviso, la corte è il prodotto della “arroganza liberal” degli anni novanta, l’esito di un sistema sedotto dal suo stesso idealismo.
Dalla sua fondazione, la Cpi è accusata di essere uno strumento di giustizia dei vincitori. Una “falsa corte”, a detta dei suoi detrattori. Il recente arresto di Duterte, sebbene sia un successo significativo per la corte, sarà contestato con la motivazione che le Filippine si sono formalmente ritirate dallo statuto di Roma nel 2019 (nella seduta preliminare la Cpi ha dichiarato che l’indagine sui crimini commessi da Duterte nelle sue campagne antidroga si riferisce solo alle azioni compiute prima di quella data). E se i mandati d’arresto contro il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno un importante valore simbolico, le probabilità che si arrivi a un processo sono praticamente zero. Russia e Israele si sono unite a Stati Uniti, Siria e Cina nel rifiuto di aderire allo statuto di Roma, negando di fatto alla corte l’autorità di giudicare i loro cittadini (all’inizio del 2025 l’Ungheria ha notificato alle Nazioni Unite che si sarebbe aggiunta a questo gruppo, ritirandosi dalla Cpi mentre ospitava Netanyahu a Budapest).
L’impegno statunitense per indebolire questo tribunale è di vecchia data. Un mese dopo la sua fondazione, il congresso approvò una legge, l’Hague invasion act (legge sull’invasione dell’Aja), che conferisce al presidente il potere di usare “tutti i mezzi necessari” per liberare un funzionario del governo di Washington detenuto dalla Cpi. Nel 2017, quando la procuratrice della corte Fatou Bensouda tentò di aprire un’indagine sulle presunte atrocità commesse da funzionari statunitensi in Afghanistan, le fu negato il visto per entrare negli Stati Uniti e la corte fu minacciata di sanzioni economiche. L’indagine alla fine fu abbandonata per le pressioni esercitate dall’amministrazione Trump. Negli ultimi tempi Bensouda è stata incaricata di indagare sul presunto genocidio in Palestina e ha subìto “minacce esplicite” rivolte a lei e alla sua famiglia.
I mandati d’arresto contro Putin e Netanyahu hanno forse elevato il profilo del tribunale, ma hanno anche evidenziato la sua impotenza e attirato contromisure potenzialmente fatali da parte degli Stati Uniti. “Paradossalmente”, spiega la giurista internazionale Chantal Meloni, “il momento in cui la corte mostra i denti potrebbe segnare la sua fine”.
Le critiche al diritto internazionale sono ben note e, in un certo senso, legittime: è troppo debole, viene applicato in modo selettivo, è solo un’estensione del potere statale. “Siamo tutti prigionieri di questo sistema orizzontale, in cui gli stati devono controllarsi a vicenda, e che finisce inevitabilmente con l’essere politicizzato”, spiega Yusra Suedi, docente all’università di Manchester: gli stati deboli che trasgrediscono alle sue direttive vengono chiamati paria o canaglie; quelli potenti sono definiti egemoni.
Senza proporzione
Per chi lo contesta, il problema non è solo che il diritto non impedisce le guerre e non protegge i civili, ma anche che dà agli stati un vocabolario per giustificare l’uso incontrollato della forza. Le violazioni non sono l’eccezione, ma la regola. Per esempio, il diritto internazionale umanitario limita il ricorso a certi tipi di armi, come le bombe a grappolo, che sono “indiscriminate per loro natura, in grado di causare danni senza distinguere tra combattenti e civili”. Questo non ha impedito a Israele, che nel 1995 aveva ratificato la convenzione su alcune armi convenzionali, di usarle contro la popolazione civile nel 2006, durante la guerra in Libano (Israele, come Stati Uniti, Russia, Iran e Cina, ha rifiutato di firmare la convenzione del 2008 sulle munizioni a grappolo). Più di mille persone furono uccise, circa un terzo erano bambini. I militari israeliani sostennero che l’uso delle bombe a grappolo non costituiva una violazione del diritto internazionale perché miravano a bersagli militari e perché la popolazione dei sobborghi meridionali di Beirut, un’area chiamata Dahiya, era stata avvertita in anticipo dell’attacco.
Oggi questa strategia è conosciuta come la “dottrina Dahiya”, che consente l’uso di una forza “sproporzionata” contro centri abitati in determinate circostanze. L’attacco del 2006 fu una chiara violazione di quello che nel diritto internazionale è chiamato “principio di proporzionalità”, secondo cui i civili non possono essere attaccati se il danno è “eccessivo rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto”. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite istituì una commissione d’inchiesta su quei fatti, concludendo che “non c’era alcuna giustificazione” per l’uso di bombe a grappolo.
Forma e sostanza
Ogni studioso che lamenta il declino del diritto internazionale lo fa partire in un momento diverso. Secondo Martti Koskenniemi questo momento risale agli anni sessanta, quando gli obiettivi originari di pace e giustizia cominciarono a essere soppiantati dagli imperativi amministrativi e gestionali della globalizzazione. Per il giurista israeliano Itamar Mann è stato l’attacco a Dahiya a segnare l’inizio della fine del diritto internazionale come sistema credibile per scongiurare le atrocità. “Lì non ci si è limitati a ignorare la norma: la si è invocata proprio per raggiungere i fini che quella norma avrebbe dovuto limitare o controllare”, dice. Cercando di giustificare un’azione legalmente ingiustificabile con il linguaggio del diritto internazionale, Israele si è fatta gioco dello spirito e della lettera della legge. “Allora è nata l’idea che un intero quartiere può essere annientato o quasi”, continua Mann.
Invocare il diritto internazionale per coprire le violazioni delle sue stesse norme ha contribuito alla percezione del suo declino. La Russia, per esempio, si è premurata di offrire argomentazioni legali per la sua invasione dell’Ucraina nel 2014. In un documento che cercava di giustificare l’attacco a Israele del 7 ottobre, Hamas ha fatto riferimento a un parere della Corte internazionale di giustizia sulla costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati e ha esortato gli stati ad “assumersi le proprie responsabilità in materia di diritto internazionale”.
Nel frattempo, i politici israeliani hanno invocato spesso il diritto internazionale come scudo e alibi per continuare la guerra a Gaza. Che un paese come la Corea del Nord si sia preso la briga di accusare Israele di aver commesso un “crimine imperdonabile contro l’umanità” attaccando l’Iran è il segnale che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in questo sistema, o viceversa che funziona proprio come dovrebbe.
Gerry Simpson ha cominciato la sua carriera credendo nel diritto internazionale e nel suo potere, e ha scritto vari articoli in cui proponeva la creazione di nuove commissioni. Oggi considera quell’approccio fuorviante. In parte il problema, sostiene, è che il diritto internazionale – come ogni sistema di valori – nella sostanza è una semplice antologia di parole, e quelle parole hanno perso il contatto con la realtà che vogliono descrivere: “Qualcuno pensa davvero che ‘gravi violazioni del diritto bellico’ riesca a cogliere l’essenza del danno fisico e mentale causato da esplosivi o torture?”, scrive in The sentimental life of international law (La vita sentimentale del diritto internazionale, 2021).
“Non possiamo alzare le mani e rinunciare alle norme giuridiche internazionali che hanno impedito guerre di massa e tutelato i diritti individuali”, dice Monica Hakimi, ex avvocata del dipartimento di stato e oggi docente di diritto internazionale alla Columbia university. “Ma credo che non ci sia una vera riflessione sul tipo di compromessi che dovremo accettare se vogliamo fermare le tendenze più pericolose che osserviamo oggi”.
Secondo diversi giuristi avremmo dovuto fare i conti con i fallimenti del sistema e la sclerosi delle sue istituzioni già da un pezzo. “Solo uno sciocco direbbe che le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, così come sono strutturate attualmente, sono adatte a guidarci fino alla fine del secolo”, sostiene sir Daniel Bethlehem, ex consulente legale del ministero degli esteri britannico. “Non riesco a immaginare come si possa uscire dal pantano del Sudan o della Repubblica Democratica del Congo o di Israele-Gaza o dell’Ucraina mettendo semplicemente un piede davanti all’altro”. Secondo lui bisogna ripensare profondamente la forma e il contenuto del sistema internazionale. Se vogliamo trovare una via d’uscita dalla crisi attuale, afferma, “c’è un urgente bisogno di riprogettare, riconfigurare”.
Il fallimento della politica
Per i fedeli della disciplina, non esiste nessuna crisi. Dire Tladi, uno stimato giurista sudafricano che nel 2024 è stato nominato giudice della Corte internazionale di giustizia, mi assicura che il diritto internazionale non è in declino. Continua a essere “un insieme neutrale di norme che dovrebbero applicarsi ai rapporti tra stati. E con assoluta imparzialità”, dice. Quando gli faccio notare che la parola “dovrebbero” era caricata di un grosso peso, Tladi mi risponde: “Voilà”.
Tladi vede lucidamente i limiti del proprio lavoro. Nei suoi pareri legali ha un tono vigorosamente realistico. Nel maggio 2025, in una dichiarazione sul procedimento intentato dal Sudafrica contro Israele per presunte violazioni della convenzione sul genocidio, ha scritto che “non ci sono più parole per descrivere gli orrori di Gaza”, spiegando che la corte aveva ordinato a Israele di interrompere le operazioni militari e intimato ad Hamas di liberare gli ostaggi. “Ma”, precisa, “la corte è solo un tribunale!”. Le sue parole, come quelle dei suoi colleghi, non potevano fare più di tanto. Direttive e sentenze cadevano nel vuoto. Nessun parere consultivo può costringere un carro armato a tornare indietro. Il punto, sostiene Tladi, è che stiamo assistendo al fallimento non del diritto internazionale, ma della politica internazionale. “La legge c’è”, dice, ma “le lacune nel diritto internazionale spesso vengono usate come base per non dover rendere conto”. E anche dove le lacune non ci sono (“non è in discussione che nessuno può commettere un genocidio”, osserva), la politica e il potere spesso hanno vanificato la forza del diritto.
Anche Raji Sourani, direttore del centro palestinese per i diritti umani, fuggito da Gaza con la famiglia dopo il bombardamento della loro casa alla fine di ottobre 2023, difende vigorosamente il diritto internazionale. Snocciola un elenco di vittorie: la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto che a Gaza è in corso un possibile genocidio e ha emesso sei misure provvisorie, ordinando a Israele di limitare l’uso della forza e a rispettare la convenzione sul genocidio; la Corte penale internazionale ha emesso mandati di arresto contro Netanyahu e il suo ex ministro della difesa Yoav Gallant; quasi cento soldati israeliani sono indagati per crimini di guerra in almeno 14 paesi in base al principio della giurisdizione universale.
“Il problema non è il diritto internazionale”, dice Sourani. “Ne abbiamo fatto il miglior uso possibile, per la democrazia, la dignità dell’uomo e la protezione dei civili”. Il problema sono gli stati che hanno lasciato intendere che il diritto internazionale non deve necessariamente essere applicato con coerenza. Insieme ai colleghi palestinesi “eravamo molto contenti quando si parlava del diritto dell’Ucraina all’autodeterminazione e all’indipendenza”, dice. Quegli stessi princìpi devono essere applicati ovunque, insiste.
Per Leila Sadat, ex consigliera speciale della Cpi e autorevole accademica, la responsabilità dell’indebolimento del diritto internazionale ricade in parte anche su quelli che lo contestano. Continuando a sollevare la questione della sua rilevanza e perfino della sua esistenza, hanno aperto il campo al cinismo, agli attacchi e alle strumentalizzazioni. Quando ha cominciato a lavorare alla Cpi, Sadat voleva disperatamente renderla più efficace. Ma, aggiunge, “non mi è mai passato per la mente di mettere in discussione l’idea che gli individui devono essere ritenuti responsabili per aver commesso atrocità di massa”.Secondo Sourani le discussioni sul diritto internazionale sono tutt’altro che accademiche. “Noi crediamo nella giustizia, nella dignità dell’uomo, nello stato di diritto, nei diritti umani”, afferma. “Non sono solo parole. Sono le vite, il sangue, il dolore e la sofferenza delle persone”. Qualche ora prima era riuscito a telefonare a un amico che si trovava ancora a Gaza. L’amico gli aveva detto di non riuscire più a guardare la moglie e i figli negli occhi, perché non aveva niente per sfamarli. “Mi ha detto: ‘Raji, ho un sogno. Voglio morire’”.
La versione di Pechino
In che direzione va il diritto internazionale? È un andamento ciclico, sostiene Suedi. “A volte ci vogliono eventi terribili per risvegliare l’umanità dagli abissi delle sue azioni, spingendola a riflettere, redimersi e tornare ai suoi valori fondamentali”. Ora siamo in una fase discendente: il diritto internazionale non scomparirà, ma le sue istituzioni probabilmente continueranno a perdere credibilità. Questo declino sarà accompagnato dalla parallela erosione dello stato di diritto. “È facile sparare a casaccio contro il diritto internazionale, è facile dire che è inapplicabile, che è una barzelletta”, dice Sadat. “Oggi vediamo cosa succede quando un presidente attacca le leggi del suo paese”.
La Cina ha lentamente cominciato ad assumere il ruolo che un tempo era degli Stati Uniti nelle istituzioni internazionali, riadattando il diritto a sua immagine. Se Washington si è allontanata dai consessi multilaterali, Pechino si sta avvicinando. “Va a tutte le riunioni della Cpi; partecipa al sistema”, dice Sadat. Vista l’assenza degli Stati Uniti, “probabilmente ci ritroveremo un sistema giuridico internazionale a guida cinese”, prevede.
È possibile che in un diritto internazionale guidato dalla Cina la tutela dei diritti umani e la distribuzione degli aiuti conteranno di meno, mentre il rispetto delle frontiere sarà rafforzato. “La gelosa protezione della sovranità statale” è il principio intorno a cui ruota la politica estera cinese, spiega Julian Ku, che insegna diritto alla Hofstra university di New York. “E le Nazioni Unite sono uno spazio per promuovere questa visione tra i paesi in via di sviluppo: la Cina vuole fare causa comune con gli stati che sono stufi di sentirsi fare la predica da europei, statunitensi e ong”. (“Non stupisce che i governi autoritari in Africa abbiano la Cina come paese di riferimento”, osserva Hakimi).
◆ Corte penale internazionale È un tribunale permanente istituito nel 1998 e operativo dal 2002 per processare individui (non stati) accusati di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimine di aggressione. Hanno aderito 125 paesi (ma non Stati Uniti, Cina e Russia).
◆ Corte internazionale di giustizia È l’organo giudiziario delle Nazioni Unite. Dirime le controversie tra i paesi dell’Onu che hanno accettato la sua giurisdizione.
◆ Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia Era stato istituito nel 1993 per giudicare i crimini commessi nel conflitto in Croazia, Bosnia Erzegovina, Kosovo e Macedonia. Ha concluso le sue attività nel 2010.
◆ Centro internazionale per il perseguimento del crimine di aggressione contro l’Ucraina Dal 2023 indaga sull’invasione dei territori ucraini da parte della Russia.
Ma per ora l’ordine internazionale a guida cinese non sembra più coerente della versione che l’ha preceduto. “Tutti vanno in direzioni diverse: Pechino è molto interessata all’integrità territoriale, ma non sta facendo granché per aiutare l’Ucraina”, dice Ku. “La Turchia occupa Cipro da quasi sessant’anni, e l’opinione pubblica sembra essersi abituata”.
Recentemente un rappresentante della Cina alle Nazioni Unite ha affermato che gli attacchi contro l’Iran hanno minato la credibilità degli Stati Uniti nei negoziati internazionali, mentre i mezzi d’informazione statali cinesi hanno accusato Washington di adottare una “politica di potenza” a scapito del diritto internazionale. Nei prossimi anni probabilmente lo spesso strato di trattati e accordi internazionali che ha regolato gli ultimi decenni continuerà a erodersi. Alla fine di giugno 2025 il ministro dell’interno indiano Amit Shah ha annunciato che l’India non ripristinerà “mai” il trattato delle acque dell’Indo, e che “il Pakistan sarà privato dell’acqua che ha ricevuto ingiustificatamente”.
Eppure Ahmad, l’ex ministro pachistano, resta un inguaribile ottimista. “Per ogni forza esiste una forza uguale e contraria”, spiega. “Per ogni genocidio in atto, ci sarà un contenzioso per punire i responsabili”. Ogni procedimento deve portare a una sentenza. “Quelle sentenze saranno eseguite? No. Questo significherà che il sistema è crollato? No. Quelle sentenze oggi forse sono irrilevanti, ma torneranno fuori, e contano”.
La vera crisi
Secondo Ahmad solo una crisi potrà obbligare l’umanità a unirsi, a risanare le istituzioni globali e a impegnarsi di nuovo sul terreno del diritto internazionale. Questa crisi, che alla fine potrebbe provocare un rinvigorimento del diritto internazionale, non sarà Israele-Palestina, Russia-Ucraina, la minacciata annessione della Groenlandia o l’erosione delle istituzioni multilaterali. Sarà il cambiamento climatico. “Nei prossimi sette anni, il diritto internazionale risponderà alla crisi del clima, e questo avrà ripercussioni in altri settori: prima sugli investimenti commerciali e alla fine su questioni come l’integrità territoriale o i procedimenti della Corte penale internazionale”.
Nel 2024 un numero senza precedenti di stati ha partecipato alle cause sulla crisi climatica che sono state portate davanti alla Corte internazionale di giustizia, e i giudici stanno preparando un parere consultivo sugli obblighi degli stati nella tutela dell’ambiente.
“Se leggiamo i rapporti scientifici, ci dicono chiaramente che non stiamo vincendo la lotta contro il collasso climatico”, afferma Tladi. “O il diritto è insufficiente, o non viene applicato”.
Il diritto internazionale è sempre stato un sistema dinamico, e deve evolversi insieme al mondo che cerca di disciplinare. “Se la caverà, ma rifletterà la realtà del mondo”, conclude Tladi. “Perciò la vera domanda è: come sarà il mondo?”. ◆ gc
Linda Kinstler è una saggista statunitense che collabora con l’Economist, l’Atlantic e il Guardian. Ha pubblicato Il contrario dell’oblio. L’Olocausto tra memoria e giustizia (Einaudi 2023).
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Questo articolo è uscito sul numero 1622 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati