Gli scontri scoppiati il 27 settembre tra Armenia e Azerbaigian, che hanno già provocato decine di morti, non sono una sorpresa. Negli ultimi tre mesi la tensione tra i due paesi era cresciuta costantemente e tutti i segnali suggerivano che l’Azerbaigian si stesse preparando per rimediare a quella che considera un’ingiustizia: l’occupazione di una parte del suo territorio da parte delle forze armene durante una guerra combattuta dopo il crollo dell’Unione Sovietica e l’espulsione di più di seicentomila persone di etnia azera.
A luglio uno scontro al confine aveva provocato i combattimenti più accesi degli ultimi anni. Non è ancora chiaro quale sia stata la causa: sembra che si sia trattato di un incidente sfuggito di mano. Ma lo scontro ha accelerato un processo in corso da tempo.
Dopo il funerale di un ufficiale ucciso nei combattimenti a luglio, a Baku decine di migliaia di persone hanno manifestato chiedendo di dichiarare guerra all’Armenia. La manifestazione ha fatto emergere il diffuso sentimento nazionalista e l’ostilità contro il governo, accusato di non voler agire sulla questione del Nagorno Karabakh. Il regime autoritario dell’Azerbaigian non tollera il dissenso, ma è molto sensibile agli umori dell’opinione pubblica. Il governo ha tentato di dipingere i manifestanti come patrioti, ma in realtà è molto preoccupato.
I combattimenti di luglio hanno cambiato la delicata geopolitica del conflitto. La Turchia ha sempre sostenuto le rivendicazioni dell’Azerbaigian, ma in modo relativamente blando, e il governo azero ha sempre comprato la maggior parte delle sue armi dalla Russia. Dopo il conflitto di luglio, però, il coinvolgimento della Turchia è apparso più evidente: ha cominciato a usare una retorica molto più bellicosa e le visite ufficiali tra i due paesi si sono moltiplicate. Ankara sembra considerare il conflitto tra Armenia e Azerbaigian un altro contesto in cui esercitare le proprie ambizioni internazionali, e cerca di soddisfare il blocco nazionalista e anti-armeno sul fronte interno. Il sostegno turco ha spinto Baku ad assumere un atteggiamento più aggressivo verso la Russia, principale alleata dell’Armenia ma legata a entrambi i paesi. Il presidente azero Ilham Aliyev si è lamentato personalmente con Vladimir Putin per una presunta consegna di armi russe all’Armenia.
Aspettative deluse
Baku inoltre è stata delusa dal primo ministro armeno Nikol Pashinyan, eletto nel 2018. Pashinyan sembrava un volto nuovo capace di ridare slancio ai negoziati di pace, ma ha finito per adottare la stessa posizione inflessibile dei suoi predecessori. Questo cambiamento può aver convinto il goveno azero che i negoziati non avrebbero mai prodotto risultati, e che la forza fosse l’unico modo per riconquistare i territori perduti. La trattativa si è interrotta del tutto dopo gli scontri di luglio.
Nelle scorse settimane in Azerbaigian c’era stata un’insolita mobilitazione dei riservisti ed era circolata la voce secondo cui l’Armenia stava reclutando i miliziani curdi del Pkk. Aliyev aveva chiesto tempi chiari per il ritiro delle forze armene dai territori azeri controllati da Erevan, una condizione che gli armeni non avrebbero mai accettato.
La mattina del 27 settembre, quando il conflitto è scoppiato, Aliyev ha dichiarato in un discorso alla nazione che era in corso “una controffensiva per rispondere alla provocazione militare” dell’Armenia. Ma era solo un pretesto che non si è preso la briga di chiarire. “Metteremo fine all’occupazione e cancelleremo un’ingiustizia che dura da quasi trent’anni”, ha detto Aliyev. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1378 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati