Un’improvvisa esplosione di violenza ha scosso Tripoli lo scorso 12 maggio. La miccia è stata l’uccisione mirata di Abdel Ghani al Kikli, detto Gheniwa, il capo di una milizia chiamata Autorità per il sostegno alla stabilità (Ass), nella base di un gruppo armato rivale, la Brigata 444, leale ad Abdul Hamid Dbaibah, il primo ministro del governo di unità nazionale di Tripoli, riconosciuto a livello internazionale.
Anche se entrambe le milizie in teoria sono allineate con Dbaibah, l’Ass spesso agiva in modo indipendente sfidando la sua autorità. Nel frattempo si sono mobilitate anche le Forze speciali di deterrenza Rada, un’altra formazione vicina al governo di Tripoli, che hanno preso contatti con altri gruppi armati e hanno organizzato proteste e blocchi stradali come copertura per riposizionarsi in aree strategiche della città. Le violenze hanno causato almeno otto morti e hanno innescato gravi disordini nel quartiere Abu Salim di Tripoli. Scuole e università sono state chiuse, e i cittadini stranieri sono stati richiamati nei loro paesi. In tutta la città ci sono stati spari ed esplosioni. Appena gli scontri hanno cominciato ad attenuarsi, Dbaibah ha proclamato un cessate il fuoco affermando di aver riportato l’ordine in città, e ha disposto una riorganizzazione dei servizi di sicurezza nella capitale, che interessa anche le guardie carcerarie e le unità di contrasto all’immigrazione illegale.
La morte di Al Kikli ha spostato gli equilibri di potere a Tripoli, riducendo l’influenza dell’Ass. Dopo una settimana d’instabilità, il 18 maggio Dbaibah ha parlato di un “progetto permanente” per smantellare le milizie a Tripoli: “Colpiremo chiunque si macchi di corruzione ed estorsione. L’obiettivo è creare una Libia senza milizie e corruzione”.
Il cessate il fuoco ha evitato che la situazione degenerasse nel caos, ma il potere di Dbaibah è fragile. Migliaia di manifestanti, insoddisfatti della situazione socioeconomica e politica, hanno chiesto le sue dimissioni. Il primo ministro è rimasto in carica ben oltre la scadenza del suo mandato, dopo il rinvio a tempo indeterminato delle elezioni previste per il dicembre 2021. Le pressioni della piazza hanno spinto alle dimissioni alcuni ministri, tra cui i responsabili dell’economia, degli enti locali e delle politiche abitative.
“Dalla società civile e dai consigli municipali sono arrivati appelli a Dbaibah a farsi da parte”, osserva Claudia Gazzini, analista dell’International crisis group, secondo cui Dbaibah è più debole, anche se cerca di mostrare il contrario.
Riforme strutturali
Nell’ultimo decennio la Libia è sprofondata in un pantano politico, tra partiti rivali, interferenze regionali e milizie in competizione tra loro. Dopo la rivoluzione libica del 2011 contro il dittatore Muammar Gheddafi, sostenuta dall’intervento della Nato, la comunità internazionale non ha sostenuto a sufficienza le iniziative per costruire un nuovo stato, consegnando il paese a fazioni armate che si contendono il controllo delle risorse. Generali come Khalifa Haftar, capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico attivo nell’est del paese, usano la forza militare per restare al potere.
Secondo gli esperti, per favorire la transizione della Libia verso uno stato unitario sarebbero necessarie riforme profonde, a cominciare dallo smantellamento dei gruppi armati. “Se non saranno affrontate le questioni alla radice del conflitto – in particolare, l’accentramento della ricchezza e del potere decisionale a Tripoli, e la mancanza di un accordo per distribuire equamente i guadagni del petrolio – la capitale rischierà nuovi colpi di mano violenti”, dichiara Stephanie Williams, ex consigliera speciale delle Nazioni Unite per la Libia. “Da una parte c’è un primo ministro che ha esteso il suo mandato ben oltre la scadenza, e due assemblee legislative (una a Tripoli e una a Tobruk) che hanno superato di molti anni il termine del loro incarico. Dall’altra, c’è un potente signore della guerra che cerca di riportare la Libia ai tempi della dittatura militare e che governa con il pugno di ferro il territorio sotto il suo controllo”.
C’è anche il rischio che si scivoli in una nuova guerra civile, rompendo il fragile cessate il fuoco mediato dalle Nazioni Unite nel 2020 tra i governi dell’est e dell’ovest del paese.
Nei recenti episodi di violenza le autorità dell’est della Libia hanno intravisto un’occasione. La camera dei rappresentanti, con sede a Tobruk, ha rilasciato dichiarazioni pubbliche di condanna delle violenze di Tripoli e ha accusato il governo di unità nazionale di comportamenti scorretti, denunciando tra le altre cose che una milizia filogovernativa avrebbe attaccato la sede della banca centrale libica. In una lettera del 18 maggio indirizzata al governatore della banca centrale, il presidente della camera dei rappresentanti Aguila Saleh ha chiesto di bloccare i conti degli enti pubblici finanziati dal tesoro, per fare pressioni sul governo di Tripoli.
Finora non ci sono stati molti segnali che facciano pensare a un nuovo tentativo di Haftar di marciare sulla capitale. Ma le pressioni economiche mirano a indebolire Dbaibah, senza sparare un proiettile.
Gli scontri a Tripoli hanno mostrato che l’assetto politico libico è sempre instabile. Nonostante anni di sforzi diplomatici, la comunità internazionale, in particolare l’Onu, non è riuscita a ricucire le divisioni del paese.
Questioni come la riforma elettorale e la distribuzione dei guadagni del petrolio restano irrisolte. Paesi come Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Russia hanno da tempo interessi divergenti in Libia.
Claudia Gazzini ipotizza che le violenze recenti potrebbero aprire uno spiraglio di opportunità per l’Onu. Tuttavia, i fatti degli ultimi giorni ci ricordano che i futuri negoziati dovranno promuovere una soluzione politica stabile, che unisca il paese al di là delle ambizioni delle élite e delle milizie. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1615 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati