Era un giorno d’estate di 69 anni fa e una giornalista della Süddeutsche Zeitung stava viaggiando sul treno turistico dell’agenzia Touropa, partito da Monaco di Baviera e diretto a Finale Ligure. Nel vagone risuonavano le canzoni del momento e la giornalista scrisse che quei turisti che si rilassavano sembravano un “gregge di pecorelle”. Superata Genova, il treno uscì da una galleria, la musica s’interruppe e gli altoparlanti annunciarono: “Ammirate il mar Mediterraneo alla vostra sinistra!”. “E tutti”, raccontò la giornalista, “si sono voltati obbedienti verso la costa e l’infinita distesa del mar Mediterraneo”. Sempre nello stesso articolo proseguì: “Nello scompartimento è stata intonata una canzone sull’azzurro del mare”.

L’articolo citato era “Die Schmankerl der Palmenriviera” (Le delizie della riviera delle palme), uscito il 16 agosto 1956 nell’inserto del quotidiano tedesco dedicato ai viaggi. Si era in pieno boom economico e le vacanze in Italia erano viaggi tutto compreso a prezzi bassi, organizzati fin nei minimi dettagli. Nel pacchetto erano comprese le mappe delle città di destinazione dei turisti, con indicazioni sulla posizione dell’alloggio, buoni per l’accesso agli stabilimenti balneari e un vademecum con tutto quello che bisognava sapere sull’Italia. Ai turisti si sconsigliava di esporsi troppo al sole e si raccomandava di non stupirsi se nei piatti non c’era lo strutto: “Oltre al burro, per cucinare in Italia si usa l’olio d’oliva, che non fa male”. All’epoca la dieta mediterranea era ancora poco conosciuta ed era guardata con sospetto. Oltre alla pizza e alla pasta i vacanzieri non conoscevano nulla della cucina italiana. Ma in fondo perché avrebbero dovuto? I menù dei bar e dei ristoranti italiani prevedevano piatti che gli erano familiari: wurstel con crauti, uova fritte con patate arrosto, birra, caffè tedesco e pane tedesco. I gestori avevano capito che la maggior parte dei tedeschi preferiva che tutto fosse come a casa, ma con qualche raggio di sole in più.

La Süddeutsche Zeitung aveva provato a proporre qualcosa di diverso, pubblicando articoli su viaggi in Italia ispirati da quell’ideale romantico che aveva preceduto questo nuovo tipo di turismo. Elogiavano l’eternità e l’effimero, le antiche rovine e il mare. Descrivevano con entusiasmo gli affreschi, le sculture, l’agnello arrosto e il vino locale, raccomandavano di assaggiare il polpo o gli scampi, spiegando tra parentesi che erano una specie di gamberi.

Questo genere di aspettative, però, non corrispondeva del tutto alla realtà del turismo. Chi voleva trovare l’autenticità, si leggeva in un articolo del 1957 dai toni piuttosto severi, doveva staccarsi da “questa migrazione turistica, abbandonare i sentieri, diventati un po’ stretti e rumorosi a causa di un bazar umano in movimento e dirigersi verso l’ignoto”. Ma per farlo bisognava rinunciare a tutto ciò che cercava il turista tipo: comodità, ristoranti raffinati e i locali dove divertirsi.

I piedi nella fontana di Trevi

La redazione dell’inserto dedicato ai viaggi tentò di risolvere il dilemma presentando destinazioni meno affollate, ma altrettanto strutturate.

Negli anni cinquanta il giornale proponeva tour alla scoperta di una “Italia sconosciuta”, con accanto, quasi a voler scoraggiare i visitatori, foto che ne ritraevano una fin troppo nota: “Ombrelloni disposti in file ordinate” si leggeva nelle didascalie, che aggiungevano: “A molti le vacanze piacciono così”. Mentre alcuni turisti arrivavano in treno, altri percorrevano la vecchia strada del Brennero a bordo di auto Volkswagen. Chi poteva permetterselo sceglieva addirittura l’aereo, optava per il cosiddetto salto in aria, come si diceva allora. Sei ore dopo il decollo dall’aeroporto di Monaco i vacanzieri già erano pronti per un bagno nelle acque di Taormina.

Turisti tedeschi sulla spiaggia di Rimini, 1958 (Gerd Pfeiffer, Picture alliance/Süddeutsche Zeitung)

Negli articoli della Süddeutsche Zeitung comparvero anche i primi segnali d’insofferenza verso i turisti. Nel 1956 la polizia di Roma annunciò misure contro chi lavava i piedi, e qualche volta addirittura le auto, con l’acqua della fontana di Trevi o di altre fontane della città. Inoltre non sarebbero stati più tollerati i visitatori senza pudore che passeggiavano per la città in pantaloncini troppo corti. Il desiderio d’Italia dei tedeschi era cominciato sottotraccia nel dopoguerra ma ci ha messo poco a trasformarsi in un assalto di massa.

L’inserto viaggi era stato inaugurato il 14 aprile del 1949 con un articolo di due pagine e con tre foto, tutte di chiese. La guerra era finita da quattro anni e la Repubblica federale tedesca doveva ancora essere fondata. Il ponte aereo alleato riforniva Berlino e quel giorno a Norimberga si concludeva l’ultimo processo per i crimini di guerra nazisti. In tutto questo si facevano già i primi tentativi per attirare i turisti: l’hotel Post, ad Altötting, in Baviera, annunciava la riapertura; il casinò di Bad Homburg, in Assia, prometteva “roulette à la Monte Carlo” e la località sciistica di Sudelfeld annunciava trenta centimetri di neve.

Nel 1949 i tedeschi non potevano lasciare la Germania quindi l’articolo d’apertura dell’inserto raccontava un viaggio “tra l’Algovia e il lago di Costanza”. Ma la meta dei sogni era al di là delle Alpi. Lo sconosciuto autore esordiva così: “Per il momento non possiamo dare sfogo alla nostra voglia di sud”. E prosegue: “Eccezion fatta per pochi fortunati, la maggior parte di noi non ha modo di varcare i confini del paese dove le arance d’oro splendono nel fogliame scuro”.

L’eco del grand tour

È la frase di uno che ha già preparato i bagagli e che con il suo libro di Goethe in valigia e il classicismo di Weimar alle spalle si proietta verso l’antichità e il rinascimento. Nel desiderio di avventurarsi al di là delle Alpi risuona l’eco del grand tour, il viaggio d’istruzione dei giovani aristocratici e dei borghesi tra il diciassettesimo e il diciannovesimo secolo, che ancora oggi influenza il modo in cui i tedeschi pensano all’Italia. Una volta visitate Roma, Venezia, Firenze, Napoli e la Sicilia, quei giovani tornavano a casa con un gusto artistico più raffinato, più esperienza del mondo e un nuovo ideale esistenziale.

Dopo la seconda guerra mondiale la vicinanza dal punto di vista geografico e quel pizzico di esotismo a cui abbandonarsi senza timore diedero una spinta al turismo di massa. La vita sociale all’aperto, una diversa concezione del tempo, la leggerezza e la capacità di godersela erano il perfetto contraltare all’etica tedesca dell’ordine e del lavoro. L’Italia era un paradiso per tutte le tasche.

Dopo la seconda guerra mondiale la vicinanza e quel pizzico di esotismo a cui abbandonarsi diedero una spinta al turismo di massa

Nel 1961, a dodici anni dal primo inserto viaggi, sulle spiagge italiane c’erano molti tedeschi e tra Cattolica e Milano Marittima erano stati costruiti tremila alberghi, per un totale di centomila posti letto. La Süddeutsche Zeitung era decisamente meno entusiasta di prima: “Località balneari anonime” e “alberghi tutti uguali”. Sullo sfondo di queste vacanze, sosteneva, “non c’è più molto della vita locale”.

Anche molti turisti tedeschi erano delusi, tanto che verso la metà degli anni sessanta quelli che sceglievano l’Italia per la loro ricerca della felicità erano decisamente diminuiti. Il quotidiano si chiedeva se si fossero stancati ed elencava le probabili cause di questo disamore: alberghi troppo cari e servizio scadente, chiusure estive di musei e istituzioni culturali, scioperi, inquinamento del mare e dei laghi. I capitani delle navi facevano ancora lavare e vuotare i serbatoi vicino alla costa, ma si cominciava a parlare di un divieto e la Süddeutsche Zeitung annunciava con cauto ottimismo che “di qui a poco i bagnini non dovranno più tenere sempre con sé una bottiglia di trementina per togliere le macchie di catrame dalla pelle di chi ha fatto il bagno”.

Nel 1964 il ministro del turismo promise ulteriori miglioramenti: più pulizia, meno rumore, prezzi stabili e minacciava sanzioni per gli uomini eccessivamente molesti con le turiste.

L’acqua, però, rimaneva inquinata. Nel 1970 il corrispondente da Roma della Süddeutsche Zeitung scriveva: “Da tempo immemorabile l’intera penisola sversa nell’Adriatico, nello Ionio e nel Tirreno una quantità di acque reflue che cresce di anno in anno e alla quale ora si aggiungono anche quantità ingestibili di scarichi industriali, senza parlare dei detriti e dei rifiuti gettati in mare senza alcuna remora dagli abitanti”. L’articolo menzionava chilometri di mare inquinato. Solo un comune su mille si era attrezzato con i depuratori.

I divieti di balneazione erano solo nel raggio di cento metri dai punti in cui le fognature scaricavano in mare. Nel 1971 però i comuni del cosiddetto litorale dei crucchi, tra Ravenna e Rimini, inaugurarono per primi dei moderni impianti di depurazione. Chi poteva permetterselo prendeva l’aereo verso destinazioni balneari più esclusive, in Tunisia, Marocco ed Egitto, poiché quello che i turisti cercano ancora oggi – sole, mare e spiagge – era disponibile anche altrove. In ogni caso i tedeschi non hanno mai smesso di amare la loro antica meta da sogno.

Secondo la banca centrale tedesca, nonostante il proliferare delle alghe e le infrastrutture turistiche malmesse, nel 1989, l’anno in cui è caduto il muro di Berlino, tra aprile e giugno i tedeschi spesero in Italia 1,99 miliardi di marchi, più che in qualsiasi altra destinazione turistica. E negli anni successivi alla caduta del muro anche i tedeschi dell’est hanno scelto di fare la vacanza in Italia, ma all’inizio, come si legge in un reportage, erano “soprattutto modesti campeggiatori”.

Al passo con i tempi

Oggi l’Italia è al secondo posto, dopo la Spagna e prima della Turchia tra le mete estere più amate dai tedeschi. Roma, Venezia, Firenze e le Cinque Terre scricchiolano sotto il peso dell’iperturismo, mentre altrove i visitatori sono pochi. Secondo l’ente italiano del turismo (Enit), il 70 per cento dei viaggiatori visita all’incirca l’1 per cento del territorio italiano. Questa estate c’è stato un tentativo di pubblicizzare vacanze sostenibili al di là delle mete più gettonate, con una campagna dal titolo “99 % of Italy”. E così si torna alle origini, alle “migrazioni turistiche” lungo “sentieri stretti e rumorosi”.

Nell’inserto viaggi della Süddeutsche Zeitung, che oggi si chiama Unterwegs (sulla strada), si consigliano destinazioni meno note come la Maremma, l’Umbria o l’Abruzzo. Lì, come in altre località più affollate, i giornalisti si fermano a parlare con gli abitanti per trovare i suggerimenti giusti per viaggi che idealmente sono vantaggiosi per tutti – visitatori e visitati – da un punto di vista sociale, economico ed ecologico. In fondo, è proprio questo che dovrebbe fare un turismo sostenibile al passo con i tempi. E da questo punto di vista c’è un’Italia ancora tutta da scoprire. La ricerca continua. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1638 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati