Il primo giorno del mio corso di sopravvivenza ho realizzato di aver commesso un errore madornale: avevo dimenticato un cucchiaio. È stato mortificante. Avevo portato due coltelli, magliette che proteggono dalle radiazioni uv, stivali da guado e corda da paracadute, ma non un utensile per mangiare. Con voce dimessa, cercando di mascherare l’imbarazzo, ho accennato la cosa ad Amós Rodríguez, il mio istruttore.

“Nessun problema”, ha risposto in tono bonario. “Puoi farne uno!”. Si è addentrato per qualche metro nella giungla, si è arrampicato su un albero e ha saltato da un ramo all’altro finché non ne ha trovato uno che potesse essere sacrificato per il mio scopo. Quando l’ha trovato, l’ha spezzato a metà e ne ha lanciato un pezzo ai miei piedi. La sessione di falegnameria è stata la mia prima lezione sul campo. Rodríguez lo chiama l’abc della sopravvivenza: “Essere sempre pronti a ingegnarsi”.

Dopo avermi mostrato qualche tecnica di base, ci siamo seduti su due secchi rovesciati per lavorare. Il suono dei coltelli che grattavano la corteccia induceva alla meditazione. In appena quindici minuti Rodríguez ha intagliato il suo ramo grezzo e scheggiato facendone uno strumento elegante. Ha preso un pezzo di brace dal fuoco e lo ha premuto al centro dell’estremità ovale e sottile che aveva modellato, creando con il calore l’incavo del cucchiaio. Sembrava un oggetto per cui avrei speso anche 45 dollari a un mercatino dell’antiquariato. Il mio, invece, somigliava più al disegno di un cucchiaio, fatto da un bambino che non ne ha mai usato uno.

“Magari puoi usarlo come una bacchetta”, ha osservato educatamente Rodríguez. Sembrava una pala e, siccome era troppo grande per entrare nella mia bocca, l’ho usato proprio in quel modo: costringendo il cibo a salire sulla sua estremità tozza per poi lanciarlo verso la mia faccia. Non funzionava molto bene, ma pazienza: l’atto di improvvisare, di creare qualcosa dal nulla, era stato esaltante.

Il mio corso intensivo di sopravvivenza di dieci giorni si è svolto nella baia di Chetumal, in Messico, ed è consistito in una serie di laboratori pratici per imparare diverse abilità, prima in un piccolo rifugio, poi sul campo, su una lingua di terra circondata dall’acqua. L’ho affrontato con un misto di disperazione e determinazione, e di insofferenza per le continue notifiche di notizie allarmanti: incendi, sparatorie nelle scuole, disastrose sentenze di tribunali federali, richiami di prodotti alimentari, eventi meteorologici estremi. Il costante catastrofismo online e il deterioramento delle strutture sociali nella vita reale mi avevano fatto entrare in una specie di chetosi spirituale. Ripassare le basi della sopravvivenza mi sembrava una possibile risposta.

Chi si prepara

La parola prepper evoca spesso l’immagine di un uomo bianco con la barba, vestito da capo a piedi in abiti mimetici, chiuso in un bunker ad aspettare la prossima guerra civile, circondato da armi automatiche, pacchi di salviette umidificate e confezioni di pasti liofilizzati. Ma negli ultimi anni questa idea ha cominciato a guadagnare terreno: persone di ogni orientamento ideologico stanno facendo piani per affrontare un futuro incerto.

Una spiaggia vicino al villaggio di Xcalak, Messico, febbraio 2022 (Amós Rodríguez)

Ho notato questo cambiamento anche tra amici e conoscenti. C’è chi compra grandi appezzamenti di terreno, chi prende il porto d’armi, chi segue corsi di primo soccorso e chi impara il protocollo della National acupuncture detoxification association (Nada, l’associazione nazionale per la disintossicazione con l’agopuntura), un metodo usato per trattare le dipendenze. Una conoscente si è trasferita con la famiglia da Boston in Nuova Zelanda perché, mi ha detto, voleva vivere in un posto quasi inesistente sotto il profilo geopolitico. “È un posto bellissimo dove aspettare la fine del mondo”, mi ha detto. Verso la fine dell’anno scorso il libro A navy seal’s bug-in guide (Guida di un navy seal a come barricarsi in casa) di Joel Lambert era molto sponsorizzato su TikTok. Durante le vacanze l’ho trovato a casa di mia madre e l’ho sfogliato. In un punto l’autore dava consigli su come giustificare la presenza in casa di grandi quantità di alimenti in scatola, per esempio dicendo “mia moglie/mio marito ha appena scoperto il mondo dei coupon”.

Oggi un terzo degli statunitensi dichiara di destinare una parte del bilancio familiare alla preparazione per le emergenze. Un’analisi dei dati dell’Ente federale per la gestione delle emergenze (Fema) stima che negli Stati Uniti circa venti milioni di persone s’identificano come prepper. Circa il 7 per cento delle famiglie, il doppio rispetto al 2017, si sta “organizzando per diventare autosufficiente”.

La paura è diventata un grande affare, il doom boom, il boom del disastro. Esistono agenzie che offrono consulenze specializzate in gestione delle catastrofi, decine di scuole di sopravvivenza, manuali, podcast e canali YouTube che insegnano a costruire rifugi con materiali naturali o a conciare le pelli. Una multiproprietà in una fortezza per survivalisti (dove si può soggiornare fino all’arrivo dell’apocalisse) costa circa ventimila dollari. Ma, se sei ultraricco, puoi fare piani da solo: Sam Altman, l’amministratore delegato di OpenAI, ha dichiarato di aver fatto scorte di armi, oro, antibiotici, batterie, acqua e maschere antigas, e “di possedere un grande terreno a Big Sur, dove posso andare quando voglio”.

Mark Zuckerberg, di Meta, e il rapper Rick Ross sono tra i miliardari e le celebrità che stanno costruendo complessi del costo di milioni di dollari, con piscine coperte, centri benessere e tunnel sotterranei che si possono usare anche come piste da go-kart.

Un’iguana nella laguna di Mala Noche, Messico, ottobre 2023 (Amós Rodríguez)

La mia presa di coscienza della necessità di prepararsi alle emergenze risale al 2012, dopo il passaggio dell’uragano Sandy a New York. Nelle settimane successive ci sono stati blackout prolungati, allagamenti della metropolitana e carenza di carburante. Facevo volontariato in un gruppo che portava provviste e acqua agli abitanti del quartiere di Red Hook che erano rimasti bloccati ai piani alti delle case popolari.

La notte di Halloween, due giorni dopo la tempesta, io e un’amica abbiamo attraversato il ponte ed esplorato Lower Manhattan, ancora senza elettricità, immersa in un silenzio irreale. C’erano persone che cucinavano su piccoli fuochi e si radunavano nei bar illuminati da candele. Tanto è bastato per spingermi a iscrivermi a un corso tenuto da un ex pompiere che insegnava come assemblare un kit di sopravvivenza per poi abbandonare la città a piedi. Negli anni successivi ho seguito lezioni di autodifesa, cucito e fermentazione per conservare i cibi. Ho seguito una formazione su come intervenire in caso di aggressione ad altre persone e ho preso parte a iniziative di mutuo aiuto. Ho anche imparato a navigare a vela, non solo perché mi piace stare nell’acqua, ma nel caso un giorno dovessi scappare via mare. Mia madre, che ha sempre coltivato l’orto per integrare la dispensa di famiglia, mi ha insegnato le basi della coltivazione, del compostaggio e della conservazione dei cibi. Ho rinfrescato le mie conoscenze di erboristeria e imparato qualcosa su sistemi settici, falegnameria e impianti elettrici. Eppure, anche dopo anni di studio, alcune competenze fondamentali continuavano a sfuggirmi: non avevo idea di come accendere un fuoco, procurarmi acqua e cibo o costruire un riparo.

Nuovi tipi di addestramento

Trascorro la maggior parte del mio tempo a New York, dove quasi tutte le comodità della vita moderna sono disponibili dietro l’angolo o con un’app. È ancora impressa nella mia mente una gita in campeggio di circa dieci anni fa, quando con un gruppo queer del quartiere di Bushwick affittammo una macchina e guidammo per qualche ora fino a un campeggio sulle rive di un lago cristallino. Avevamo sottovalutato il freddo di quella primavera precoce e finimmo per condividere un unico sacco a pelo, mentre i procioni ci saccheggiavano le provviste.

Cercando nuovi tipi di addestramento, ho letto una frase della descrizione del corso di Amós Rodríguez che ha catturato la mia attenzione: “Ci concentreremo sulla filosofia e sulla psicologia della sopravvivenza, perché è questo a determinare se in una situazione estrema una persona ce la farà o se invece fallirà”. Volevo gli strumenti per sopravvivere, certo, ma avevo la sensazione che avrei dovuto abituarmi a un nuovo modo di stare al mondo. Rodríguez sembrava capirlo. Era stato il concorrente agguerrito in un reality show chiamato Alone, dove i partecipanti vengono abbandonati in una remota zona del nord, a fare i conti con gelo, fame e predatori.

Amós Rodríguez cucina in un rifugio sull’isola, ottobre 2023  (Amós Rodríguez)

Rodríguez non aveva vinto, ma non era nemmeno crollato subito come avevano fatto altri. Non era crollato neanche quando i lupi avevano accerchiato il suo campo o, più tardi, quando il suo rifugio aveva preso fuoco. “La natura non ce l’ha con te”, mi ha detto in seguito. “Sono cose che succedono. È colpa nostra se ci siamo separati da lei al punto che alcune persone la vedono come un mostro”.

Un anno dopo, quando finalmente siamo riusciti a fissare una data per l’addestramento, Rodríguez mi ha mandato una lista dell’equipaggiamento necessario. Sono andata da Rei, un negozio di attrezzature per il campeggio, il giorno dopo Natale. I clienti si accalcavano intorno agli scaffali dei saldi, pieni di abbigliamento in neoprene e di confezioni sottovuoto di curry al cocco e crème brûlée liofilizzate. La quantità di articoli disponibili era impressionante: luci decorative alimentate da energia solare, orologi gps, stazioni di ricarica portatili, un’infinità di snack, brandine di lusso, kayak pieghevoli e pantofole imbottite. Nessuno dei commessi riusciva a credere che l’equipaggiamento della lista servisse a me; in qualche modo, non rientravo nel loro immaginario post-apocalittico.

Il confine tra attività all’aria aperta e l’addestramento estremo a cui mi stavo preparando era sfumato. Ma guardandomi intorno, ho capito che per molte persone, soprattutto negli Stati Uniti, la sopravvivenza è un tipo di stile di vita. Tutto era incredibilmente costoso, e avevo bisogno di parecchie cose. Il tipico paradosso statunitense: puoi imparare a sopravvivere, ma solo se te lo puoi permettere.

A gennaio ho incontrato Rodríguez a Tulum, in Messico, per cominciare l’addestramento. Il sud della California aveva appena cominciato a bruciare, e quella devastazione incomprensibile rendeva il nostro lavoro ancora più urgente. Dal vivo Rodríguez aveva un bel sorriso che gli apriva una costellazione di rughe intorno agli occhi e sprizzava quell’energia risoluta e incontenibile che sembra appartenere a chiunque indossi scarpine con le dita separate. Il suo codino rimbalzava allegramente a ogni passo.

Abbiamo caricato l’attrezzatura su un’auto presa a noleggio e guidato per quattro ore verso sud, superando cartelli che avvisavano di fare attenzione all’attraversamento dei giaguari. Ogni volta che vedevamo un animale investito Rodríguez si sporgeva dal finestrino per capire di che specie era. Siamo arrivati in un piccolo rifugio per appassionati di pesca con la mosca sulla costa, nel villaggio di Xcalak, dove Rodríguez aveva organizzato un fitto programma di lezioni su come costruire un riparo, accendere un fuoco, seguire le tracce di animali, pescare e cacciare. Dopo una colazione a base di uova strapazzate e avocado, ci siamo seduti a un grande tavolo di legno all’aperto, da cui potevamo vedere le palme e la placida insenatura celeste della baia.

Ero come Neo nel film Matrix, quando apre gli occhi e dice: “Conosco il kung fu”

Rodríguez ha cominciato con quella che per lui era la lezione più importante per la sopravvivenza: capire la risposta psicologica del corpo alle minacce. “Che si rompa la macchina in pieno inverno o che scoppi l’apocalisse, è comunque una situazione di sopravvivenza”, ha detto. “La tua risposta allo stress determina quello che succede dopo, il che non è sempre positivo”. Una volta che hai riconosciuto i segnali come i pensieri accelerati, il cuore che batte forte, il respiro affannoso, puoi chiederti: sto pensando e agendo razionalmente?

Il passo successivo è fare qualche respiro controllato per cominciare a calmare il sistema nervoso centrale. Abbiamo respirato insieme qualche minuto, inspirando ed espirando. Poi abbiamo camminato nel cortile per avere consapevolezza dell’ambiente. Rodríguez mi ha insegnato a muovermi lentamente, con il corpo abbassato per non allertare eventuali predatori, scrutando il terreno in cerca di cibo o legna da ardere, e guardando il cielo per percepire cinguettii o voli improvvisi di uccelli, segnali utili a individuare minacce o cambiamenti del tempo. L’obiettivo, ha spiegato Rodríguez, è fare in modo che “la sfera della consapevolezza sia più grande di quella del disagio”.

Sembrava tutto molto più semplice della preparazione ipertecnologica del doom boom. Nei film la sopravvivenza è presentata come la reazione a un evento catastrofico: una pandemia, un’invasione di zombie, un incidente aereo, l’arrivo degli alieni, il collasso dello stato. Ma è più realistico pensare che stiamo già vivendo dentro una catastrofe che si dipana lentamente, di cui vediamo gli effetti in successione, come onde dell’oceano. Se la immagini così, la sopravvivenza somiglia a un lavoro silenzioso e costante, non tanto diverso dallo sforzo quotidiano di vivere.

Sono sempre stata attirata dalla gamification della sopravvivenza, soprattutto grazie allo storico reality show Survivor. Mi appassionavano le estenuanti sfide per l’immunità e i percorsi a ostacoli dai colori sgargianti che spesso finivano con grandi lividi, ma anche il “gioco sociale”, le manipolazioni sottili tra i concorrenti che stringevano alleanze. Parte del divertimento era immaginarmi al loro posto: come me la sarei cavata a dormire all’aperto, a contrattare per un pugno di riso, a cercare di conquistare favori. Come molti altri spettatori seduti sul divano a sgranocchiare snack, pensavo di poter dominare sia gli elementi sia le dinamiche del gioco. Quando alcuni amici mi hanno consigliato Alone, ho esitato: immaginavo un programma dove si dorme dentro carcasse di animali e si beve la pipì. Invece i concorrenti di Alone parlavano di vivere in armonia con la Terra e della gratitudine che deriva dal dipendere da essa. A differenza di Survivor, che usa la natura come uno sfondo spettacolare, loro sembravano deferenti nei confronti della natura, fonte di minaccia e meraviglia. Erano interessati all’autosufficienza, senza sovreccitarsi all’idea dell’armageddon o del collasso sociale. Volevo essere come loro, essere capace di adattarmi a un futuro caotico, invece di emozionarmi per il caos in sé.

Nelle puntate del reality show Rodríguez parlava spesso della sua infanzia nel Salvador, durante la brutale guerra tra il governo sostenuto dagli Stati Uniti e le guerriglie di sinistra. Rapine a mano armata o con coltelli erano all’ordine del giorno, così come retate e arresti. Sua madre fu catturata dai militari, subì una violenza sessuale e torture, e fu rinchiusa in prigione per un anno. Dopo la sua liberazione, la famiglia cominciò a scrivere alle chiese all’estero per trovarne una disposta a pagare gli studi di suo figlio. Rodríguez fu accettato al Manchester college, in Indiana, dove andò a studiare belle arti nel 2000. In quegli anni cominciò ad andare in campeggio nelle campagne del midwest, portando ogni volta meno cose. Dopo il college si dedicò all’apprendimento di tecniche come il tiro con l’arco e la caccia. Ogni tanto condivideva le sue imprese sui social media e nel 2019 fu contattato dai talent scout di Alone, che avevano visto su Facebook la sua foto con un cervo ucciso usando un arco da lui costruito. Nella stagione in cui ha partecipato alla trasmissione, ha costruito un rifugio accogliente con una trincea per isolare dall’aria fredda la zona notte, la sera scaldava le pietre per riscaldare il letto, catturava i pesci con una rete e li affumicava per tenerli di scorta.

In Messico mi ha parlato del sacro ordine della sopravvivenza, cioè delle cose indispensabili per restare vivi. La maggior parte delle persone mette al primo posto il riparo, ma per lui è altrettanto importante il fuoco, e i diversi modi per accenderlo. “Magari hai bisogno di mangiare”, ha detto, “e se non riesci a proteggerti dagli elementi e a scaldarti…”. Si è interrotto, aprendo le mani nel vuoto, come a mostrare l’essenza della vita che evaporava. “Il fuoco tiene caldi, cuoce, purifica l’acqua e protegge”.

Ho provato ad accendere il fuoco per frizione. Abbiamo raccolto fibre di cocco e le abbiamo pressate tra le mani fino a formare piccoli nidi d’uccello. In ginocchio a terra, ho preso l’archetto (costruito da lui) con una corda in pelle di cervo (essiccata da lui) e ci ho montato un fuso morbido di cedro. L’obiettivo era usare l’arco per far girare il fuso su una tavoletta piatta, con abbastanza velocità e pressione da accendere una piccola brace. All’inizio sembrava impossibile muovere l’arco, ma quando finalmente ha cominciato a girare, traballava forte sul suo asse. Rodríguez ha stretto la sua mano sulla mia per tenerlo fermo. “Massima velocità per venti secondi”, ha ordinato. Il sudore mi colava dal viso, ansimavo per lo sforzo. Ma alla fine, da quel legno, è salito un filo di fumo profumato. Mi sono fermata a riprendere fiato, poi ho raccolto la brace e l’ho sistemata nel mio nido di fibra. L’ho sollevato, come mi aveva insegnato Rodríguez, e ho lasciato che la brezza alimentasse la scintilla. La sensazione era di essere come Neo nel film Matrix, quando apre gli occhi e dice: “Conosco il kung fu”. Era un maledetto miracolo.

Verso il blu

Rodríguez aveva ingaggiato un capitano per portarci in barca verso sud e poi a nordovest, verso un arcipelago all’interno di una riserva marina al confine con il Belize. Era arrivato il momento di mettere in pratica le abilità che avevo acquisito nei giorni precedenti. Avevo imparato a costruire un “bastone da lancio” per stendere uno scoiattolo o un coniglio. Avevo fatto pratica con trappole ad anello realizzate con filo d’acciaio inox, per catturare piccoli animali. Sembrava semplice, ma ogni volta che Rodríguez controllava il mio lavoro, mi faceva ricominciare da capo. Avevamo parlato di come costruire una bussola usando una foglia, un ago e una calamita; di come aprire una noce di cocco senza attrezzi. Avevamo passato ore a pescare con la lenza a mano, senza canna, solo filo e amo, e Rodríguez aveva dimostrato che si poteva fare sia con una tradizionale esca colorata, sia, in caso d’emergenza, con un pezzo d’osso e un verme.

Camminando nei parchi ghiacciati in città percepivo meglio l’ambiente

Abbiamo caricato l’attrezzatura su una panga, una barchetta di legno, e siamo partiti a motore verso il blu. Rodríguez e il capitano erano coperti da capo a piedi: maniche lunghe, cappelli e scaldacollo, lasciando scoperti solo gli occhiali da sole polarizzati. Dopo i lunghi mesi invernali a New York, volevo fare il pieno di vitamina D e indossavo una canotta, ma in mare aperto ho capito di aver sbagliato. L’ambiente idilliaco ha mostrato i suoi lati più aspri: i raggi del sole penetravano con forza; l’acqua salata, inizialmente rinfrescante, mi seccava la pelle. Lontani dalla società, è stato facile immaginare di trovarsi davvero in una situazione di emergenza, in fuga da qualcosa di disastroso, alla ricerca di un riparo.

Il mondo si è dissolto in una tavolozza infinita di blu: l’azzurro fiordaliso desaturato del cielo di mezzogiorno, l’acquamarina e il verde petrolio delle onde rese lattiginose dalla sabbia e dal sale in sospensione, l’indaco delle sfere che segnalavano la presenza di un cenote, un bacino d’acqua dolce sotterranea. Era ipnotico. Questo pianeta dovrebbe chiamarsi Acqua, ho pensato. Alla fine abbiamo cominciato a scorgere la terra, una fitta vegetazione verde interrotta da sottili strisce di sabbia bianca. Abbiamo girato per ore, valutando i possibili approdi. Un posto aveva abbastanza spiaggia per dormirci, ma troppa vegetazione, che poteva nascondere tarantole e altri animali velenosi. Un altro era invaso dalle alghe marine. Le palme da cocco potevano significare cibo, grassi, acqua e combustibile, se i frutti erano maturi. I buchi nel corallo lungo la riva potevano indicare la presenza di pesci o perfino di aragoste caraibiche. Dopo alcune ore, abbiamo trovato un’isola che sembrava adatta, con molte palme e ampie distese di sabbia.

Ramón, il capitano, ha portato la barca il più vicino possibile alla riva, e siamo saltati nell’acqua alta fino al ginocchio per scaricare zaini e attrezzi. Abbiamo allestito rapidamente i rifugi, amache semplici con zanzariere, mentre Ramón ormeggiava l’imbarcazione. Fringuelli giallo brillante svolazzavano sopra le nostre teste. Pesci ago si lanciavano fuori dall’acqua. Spostando le fronde cadute delle palme, abbiamo trovato avvolti al loro interno grossi scorpioni neri addormentati. Poi abbiamo cominciato a esplorare il terreno, come avevamo fatto durante l’addestramento. Rodríguez ha individuato degli alberi di chechén, urticanti come l’edera velenosa, e mi ha mostrato alcuni sentieri battuti che segnalavano il passaggio di procioni o cervi. In caso di necessità, ha detto, potevamo cacciare le iguane, indicando gli alberi dove potevano addormentarsi al sole. Per sicurezza avevamo portato delle taniche d’acqua, ma abbiamo unito con il nastro adesivo le bocche di due bottiglie, una piena di acqua di mare e una vuota, che messe al sole nella giusta angolazione ci avrebbero permesso di ottenere acqua potabile.

Quando ci siamo sistemati, ho cercato di raccogliermi per ascoltare il mio corpo. Avrei voluto sdraiarmi, ma faceva troppo caldo per salire sull’amaca. Rodríguez, instancabile, ha proposto un corso accelerato di pronto soccorso in natura. Ha aperto un portaoggetti di tela e mi ha mostrato l’equipaggiamento, organizzato per livelli di gravità delle ferite. Livello uno: graffi, punture, ustioni curabili con cerotti e pomate. Livello due: tagli e ferite, che potevano richiedere punti di sutura. Livello tre: perdita di funzionalità. Ha tirato fuori un tubo endotracheale e mi ha spiegato che, se fosse svenuto e in difficoltà respiratoria, avrei dovuto inclinargli la testa all’indietro, liberare le vie aeree e inserire il tubo. Ho annuito, prendendo nota. Dentro di me sentivo crescere il panico. Rodríguez l’ha notato e si è scusato per avermi spaventata. Il nostro aiuto più vicino era una base marina a due ore di navigazione, se non di più. Eravamo davvero lontani da tutto.

Baia di Chetumal, Messico, ottobre 2023 (Amós Rodríguez)

La mattina seguente siamo usciti in cerca di cibo, quello che sarebbe diventato il nostro pensiero fisso per i successivi quattro giorni. Rodríguez parlava spesso di “matematica della sopravvivenza”: fare attenzione a non consumare più energia di quanta se ne riesca a ricavare. Potevamo passare anche quattro ore a pescare per ottenere un pasto da un paio di bocconi per ciascuno. Ho smesso di aspettare quei momenti, sapendo che probabilmente non ce ne sarebbero stati. Mentalmente ero preparata, ma non potevo davvero immaginare quanto sarebbe stato difficile, quante ore avremmo passato a cercare qualcosa per nutrirci. La terra era generosa, ma gli animali sono più furbi di quanto sembri. Non si lasciavano ingannare facilmente dalle nostre trappole o lenze.

Abbiamo praticato la pesca a vista cercando leggere increspature sulla superficie che indicassero attività sott’acqua. Rodríguez la chiamava “acqua nervosa”. Ramón manovrava lentamente la barca, permettendoci di lanciare le lenze nelle zone d’ombra. Il caldo ci avvolgeva come una bolla. Mi sono sporta dal bordo della barca pensando di tuffarmi per rinfrescarmi, fregandomene di pesci carnivori e coccodrilli. Proprio in quel momento un’ombra grande ha attraversato la prua: un paio di enormi razze volteggiavano silenziose sott’acqua, agitando le code velenose. Quel primo giorno è stato fortunato, abbiamo pescato due pesci di media grandezza, poi siamo andati in una barriera corallina dove abbiamo fatto immersioni per prendere delle conchiglie regina, che erano di stagione. Il bottino ci ha dato una gioia immensa. Ogni volta che tiravamo su qualcosa, esultavamo. La prospettiva di mettere del cibo nello stomaco ha alleviato i dolori muscolari e alla schiena.

Tracce indurite

Allo stesso tempo, ho notato gli effetti della nostra presenza sull’isola. La spiaggia era composta soprattutto da un limo morbido, quasi fango, e i buchi delle nostre impronte s’indurivano, diventando un costante ricordo delle nostre tracce. Vedevo i residui dei nostri pasti, le bottiglie d’acqua vuote, i vestiti stesi ad asciugare al vento. Una mattina presto sono scivolata giù dall’amaca e sono andata con calma in spiaggia per fare i miei bisogni. Il cielo vibrava nell’aurora dorata. Inavvertitamente, sono inciampata in una nuvola di libellule, che danzavano languidamente sotto il bagliore delle costellazioni che svanivano. Sono volate via, infastidite. Mi sono sentita sola.

La buona sorte del primo giorno si è rivelata un’eccezione. Un giorno siamo andati in kayak in una laguna, impiegando cinque ore per percorrere molti chilometri, e siamo tornati con un unico pesce di pochi etti per tre. Di pessimo umore, mi sono messa a fare trappole per iguane; Rodríguez si è alzato presto il mattino seguente per cercare cervi.

Nulla funzionava. Avevo posizionato la mia amaca vicino all’acqua e, purtroppo, ai coccodrilli, ma almeno potevo vedere la luna che sorgeva ogni notte e mi svegliavo con il miracolo del sole. Il senso di gratitudine mi ha aiutato ad accettare le parti più dure del viaggio: il cibo scarso, la stanchezza, le punture di zanzara, le scottature sulle guance.

Un pomeriggio abbiamo visto un’iguana prendere il sole su un ramo. Aveva già evitato la mia trappola tre o quattro volte, spingendola via divertita, immaginavo, mentre entrava e usciva da un buco nel tronco. Ora la stavamo osservando mentre avanzava verso il sole. Rodríguez ha preso l’arco e mi ha dato una pala. Ci siamo abbassati fino a terra e ci siamo mossi lentamente. Poco prima, un’ombra nera era comparsa all’orizzonte, e a mezzogiorno aveva già coperto l’isola; gli alberi si piegavano al vento con una forza tale che sembravano urlare. Ramón ha alzato le mani al cielo, preoccupato, gridando in spagnolo. Non riuscivo a capirlo, ma l’urgenza era evidente: se non fossimo partiti in fretta, forse non avremmo più avuto modo di farlo. Però, avevamo bisogno di mangiare, almeno per avere la forza di caricare la barca e spingerla fuori dall’acqua.

Vita preziosa

Rodríguez teneva duro. Con il cuore che batteva forte, l’ho seguito. Per tutta la settimana aveva raccontato di quando cacciava iguane da ragazzo, di quanto fossero gustose fritte nell’olio di cocco, e del brodo che la nonna faceva con la carcassa. Non mangiavamo proteine da ventiquattr’ore. Rodríguez ha caricato l’arco. Abbiamo chiesto perdono.

Ci siamo avvicinati all’animale e lo abbiamo colpito. Quello che è successo dopo appartiene a quel momento e a chi era lì. Quando tutto si è concluso, ci siamo allontanati in silenzio, ognuno in una parte diversa della spiaggia, per fare un’offerta di ringraziamento in privato. Rodríguez ha scuoiato e pulito l’animale mentre io osservavo, e mi ha chiesto di portargli manciate di sale per conservare la pelle. Avremmo realizzato dei braccialetti uguali, per ricordare che avevamo sacrificato un essere vivente per sopravvivere. Abbiamo acceso il fuoco per cuocere la carne. Non sono riuscita a mangiarla: ero nauseata. Cercavo ancora di trovare un equilibrio tra la brutalità dell’atto e il bisogno che l’aveva motivato. Ma la verità è che ogni secondo della mia esistenza ha un costo: qualcosa di prezioso sacrificato per qualcos’altro di altrettanto prezioso. Nella vita moderna in città questo costo è quasi sempre invisibile.

Mentre mangiavamo a piccoli bocconi, Rodríguez con più entusiasmo, il cielo si è schiarito, quasi in modo mistico. Era ora di tornare al rifugio di partenza. Tre giorni dopo ero di nuovo a casa a Brooklyn, con il congelatore pieno di carne comprata al mercato dei contadini, la frusta per preparare il tè matcha e la vasca da bagno dove immergermi a lungo. L’esperienza però restava impressa dentro di me. Camminando nei parchi ghiacciati in città percepivo meglio l’ambiente intorno: uccelli spaventati che si alzano in volo, impronte di animali sulla neve. Una sera, a casa, ho sentito un rumore strano nell’appartamento. Continuavo a portare con me i coltelli, avevo imparato ad apprezzare il loro peso rassicurante sui fianchi, così ne ho sguainato uno rapidamente, muovendomi in punta di piedi tra le stanze. Il rumore era solo lo sfrigolio di sale e acqua di una padella di ghisa che stavano pulendo. Ma io ero calma, pronta, preparata. Meno spaventata dall’ignoto.

A Xcalak, un pomeriggio, dopo una lezione sui proiettili, Rodríguez e io eravamo esausti per il caldo soffocante. Abbiamo deciso di fare una passeggiata. Lui indicava le piante commestibili, come caprifogli e mandorli, scarti di spazzatura riutilizzabili, alberi con corteccia sottile che indicavano possibili vene d’acqua sotterranee. “Il primo passo per sopravvivere”, mi ha detto, “è conoscere i tuoi vicini: le piante, gli animali, la terra”. Ha visto un’agave e ne ha tagliato una foglia. “Ottimo per riparare vestiti o tende”, ha detto, premendola contro un tronco per estrarne le fibre.

Quel giorno, in paese, c’era una quinceañera per la figlia più giovane di una famiglia locale con cui Rodríguez collaborava spesso. Gli ospiti si erano radunati sotto un grande tendone rosso, decorato con luci scintillanti e rose. Le bottiglie di bevande gassate e i piatti di tacos passavano di mano in mano. Ballavamo al ritmo della musica e, con il passare dei minuti e poi delle ore, continuavo a chiedermi cosa c’entrasse tutto questo, quale fosse il legame con le lezioni. Rodríguez mi ha raccontato che era arrivato per la prima volta a Xcalak vent’anni prima.

Quel minuscolo villaggio di pescatori era menzionato a malapena nella guida Lonely Planet, e per caso aveva preso un autobus per vederlo. Il padre della festeggiata era un uomo che aveva incontrato durante quella prima visita. Con gli anni, aveva costruito una rete di rapporti, persone, comunità. Per tutta la settimana Rodríguez ha ribadito un insegnamento: la sopravvivenza non riguarda solo piante e animali, ma soprattutto le persone. Atterrare di colpo su una spiaggia, come avevamo fatto noi, era lo scenario meno probabile. Imparare invece di chi fidarsi, con chi costruire legami, chi evitare, questo era ciò che avrebbe deciso se saresti sopravvissuto al caos finale.

La parola “apocalisse” viene dal greco apokálypsis, che significa rivelazione, conoscenza nascosta. Implica un giudizio divino, un giorno in cui tutto sarà svelato e sarà fatta giustizia. Ma in realtà, ogni giorno si consumano milioni di apocalissi: genocidi, estinzioni, alluvioni, incendi, deportazioni, cure mediche negate alle persone trans. E poi ci sono quelle più difficili da vedere: sostanze chimiche persistenti, tumori, malattie. Sopravvivere assume significati sempre nuovi.

Conservo ancora tutta la mia attrezzatura e qualche pasto liofilizzato al sicuro in un armadio. Ma la strategia di sopravvivenza che ho fatto più mia è nata dall’imparare a lasciarsi andare di fronte all’imprevedibilità della vita. Il catastrofismo è seducente: dà la sicurezza di una conclusione già decisa e, sotto la certezza di una fine inevitabile, si nasconde una nota di soddisfazione. Perfino partecipando al corso di Rodríguez, cercavo di gestire la paura, non di viverla. Ma il futuro immediato non funziona così: non si controlla, non si conosce.

Un’artista di Los Angeles mi ha detto che, dopo gli incendi, aveva imparato l’ecologia indigena del fuoco, per negoziare la fragile pace tra la vita che vogliamo salvare e il futuro che stiamo creando.

Gran parte della filosofia del “prepararsi” ha a che fare con l’idea di difendersi dalla fine improvvisa del mondo come lo conosciamo. La sopravvivenza che ho imparato è un’altra cosa. È lasciarsi attraversare dal mondo che cambia, adattarsi, mutare. Non cedere al lusso della disperazione, ma aggrapparsi alla possibilità. Non chiudere il mondo fuori, ma lasciarlo entrare. ◆ svb

J Wortham scrive di cultura per il New York Times Magazine. Insieme a Kimberly Drew ha curato la raccolta Black futures (One World 2020), dedicata alla creatività di artiste e artisti neri.

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Questo articolo è uscito sul numero 1625 di Internazionale, a pagina 124. Compra questo numero | Abbonati