Sventrato e annerito, l’imponente silo del grano domina su una distesa di macerie e di ferraglie. Simbolo del porto di Beirut, è rimasto in piedi nonostante la duplice esplosione che ha distrutto la capitale libanese il 4 agosto e ha ucciso più di 190 persone. Come uno scudo, ha protetto i quartieri occidentali della città. Dall’altro lato c’è solo desolazione. Al posto dei magazzini – tra cui il numero 12 dove erano depositate 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio – c’è un cratere di 140 metri di diametro. Le sedici gru del terminal dei container troneggiano ancora, ma dietro di loro i quartieri orientali di Beirut, dalla Quarantaine ad Ashrafieh, in collina, impiegheranno mesi a riprendersi dalla distruzione.

In pochi secondi Beirut ha vissuto l’apocalisse. E il porto, che aveva fatto della città e del paese una “porta d’Oriente” aperta al mondo e alla prosperità, è diventato il simbolo del fallimento dello stato. Dietro la negligenza di chi ha lasciato per sei anni una “bomba” pronta a esplodere nel cuore della capitale, ci sono la corruzione e l’incuria di una classe politica che è arrivata al potere con la guerra civile (1975-1990) e non l’ha più lasciato grazie ai compromessi tra le comunità. Gli stessi mali che nell’autunno del 2019 avevano fatto sprofondare il Libano in una crisi economica senza precedenti hanno divorato il porto, trasformato in una “fabbrica di soldi” da avide classi dirigenti.

“Con la rovina del settore bancario e poi con l’esplosione al porto stiamo assistendo al disfacimento della storia. Ciò che aveva fatto la ricchezza di Beirut è collassato. È una caduta simbolica, l’incredibile fine di un ciclo”, dice l’architetta Hala Younes. Nella storia tormentata del paese, il porto di Beirut è stato spesso il campo di battaglia di rivalità locali e straniere. Ogni volta la sua ricostruzione si è inserita in un nuovo equilibro politico e geopolitico. Ora che il Libano torna a vacillare sull’orlo del precipizio, le macerie del porto stuzzicano gli appetiti.

Polo d’attrazione

Protetta dai venti di sudovest, la baia di San Giorgio avrebbe potuto ospitare un porto tranquillo e senza pretese. Ma all’epoca della breve occupazione egiziana, tra il 1831 e il 1840, la costruzione di un molo nella baia e di un ospedale per la quarantena obbligatoria dei viaggiatori, cambiò il destino di quello che all’epoca era un piccolo borgo di tremila abitanti bagnato dal mare. Meno di un secolo dopo la tranquilla cittadina era una città portuale con 140mila abitanti, tra cui grandi famiglie cristiane e sunnite che si erano arricchite con l’allevamento dei bachi da seta, e attirava i commercianti delle città libanesi di Sidone e Tripoli, e dell’interno della Siria.

Mentre le navi a vapore, partite da un’Europa in piena rivoluzione industriale, andavano a vendere le merci nelle province ottomane (e poi in Asia, dopo l’apertura del canale di Suez nel 1869), Beirut s’impose come porta d’ingresso del commercio internazionale verso le regioni arabe più interne. Questo grazie alla realizzazione nel 1863 di una strada, concessa dalle autorità ottomane a un gruppo francese, che collegava la città a Damasco. Lo stesso gruppo industriale 24 anni dopo avrebbe ottenuto il privilegio di costruire e sfruttare il porto di Beirut per 99 anni.

Agli inizi del novecento il porto era già strategicamente centrale

Inaugurato nel 1895, il porto diventò la testa di ponte delle ambizioni francesi in Medio Oriente, in una sfrenata competizione con il Regno Unito, l’altra grande potenza coloniale. Infrastrutture e capannoni doganali si moltiplicarono, e fu costruita una linea ferroviaria che univa le principali città della Siria, meta di un terzo delle importazioni.

Agli inizi del novecento il porto, di dimensioni modeste, era già strategicamente centrale. Lo testimonia la battaglia del 24 febbraio 1912, quando due corazzate italiane bombardarono la flotta ottomana lì ormeggiata uccidendo 58 marinai e 66 abitanti. Durante la prima guerra mondiale, fin dall’inizio gli alleati imposero un embargo marittimo che, unito alla confisca dei cereali da parte dell’esercito ottomano e a un’invasione di cavallette (piaga ricorrente nella regione), provocò una carestia e mise in ginocchio Beirut e i suoi dintorni. Per le strade della città si contavano fino a duecento morti al giorno. Nel settembre del 1918 l’aviazione britannica distrusse quello che restava del porto.

Questo non scoraggiò le ambizioni della Francia, determinata a rimarcare la sua presenza al momento di spartirsi il Medio Oriente con il Regno Unito. Il 1 settembre 1920 il generale Henri Gouraud – a cui è intitolata la principale strada del quartiere di Gemmayze, che costeggia il porto – proclamò la nascita del “Grande Libano” sotto mandato francese. Il nuovo stato, che si estendeva fino ai confini attuali, aveva il sostegno dei cristiani maroniti ma non della maggioranza della popolazione, vicina al nazionalismo arabo e contraria a frontiere con la Siria. L’opposizione era forte soprattutto a Tripoli, nel nord del paese, perché la separazione dalla regione siriana di Homs condannava il suo porto a perdere influenza.

Le logiche comunitarie, che prevalevano già alla fine dell’epoca ottomana, furono sistematizzate dalla costituzione del 1926. “Il porto diventò il fulcro della politica economica e strategica francese”, sottolinea Christine Babikian, docente di storia all’università Saint-Joseph di Beirut. “I francesi volevano sviluppare l’asse Beirut-Damasco-Baghdad, in concorrenza con l’asse Haifa-Amman-Baghdad che era sotto il controllo britannico”. Lo sfruttamento del petrolio iracheno era al centro della rivalità. Quando nel 1932 gli inglesi costruirono nel porto di Haifa delle raffinerie per trattare il greggio che arrivava da Mosul e Kirkuk attraverso un oleodotto, i francesi risposero creando una zona franca e un secondo bacino nel porto di Beirut. Per assicurarsi parte delle forniture, nel 1934 aggiunsero anche un terminal petrolifero a Tripoli, allo sbocco di un altro oleodotto proveniente da Mosul.

Beirut, 8 agosto 2020. Una protesta per chiedere le dimissioni del governo (Lucien Lung, Riva press)

Beirut si modernizzò e installò una rete elettrica. Furono costruite strade in stile haussmanniano, e spuntarono i tram, oggi scomparsi, come quasi ogni forma di trasporto pubblico. Gli appassionati di cultura orientale sbarcati dalle navi da crociera soggiornavano in hotel raffinati. La borghesia del commercio e francofona di Beirut scoprì gli svaghi “alla moda parigina”, mentre all’estremità orientale del porto, dove prima c’era l’ospedale, i poveri – profughi armeni e poi palestinesi – si ammassavano in un quartiere che conservò il nome di Quarantaine.

L’indipendenza del Libano fu proclamata il 22 novembre 1943. Secondo un “patto nazionale” non scritto, da quel momento in poi il presidente della repubblica sarebbe stato un cristiano maronita, il primo ministro un sunnita e così via. Questa divisione in quote riservate alle principali comunità (sciita, cristiana, drusa, sunnita) si riprodusse in ogni apparato dello stato, in tutte le amministrazioni, a scapito del bene pubblico e nonostante le evoluzioni demografiche. Mentre il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser nazionalizzava il canale di Suez nel 1956, le autorità libanesi partirono alla riconquista del porto, rimasto sotto il controllo della Francia. “Alcuni libanesi entrarono nella società francese che lo gestiva. Nel 1954-1955 avevano il 40 per cento delle azioni e tre seggi sui tredici del consiglio d’amministrazione. Si trattava di ricchi uomini d’affari e banchieri di Beirut, cristiani e sunniti”, precisa Babikian. Nel 1960 i francesi cedettero il porto allo stato libanese, che lo subappaltò alla Compagnie de gestion et d’exploitation du port de Beyrouth, presieduta dal banchiere Henri Pharaon.

Età dell’oro e delle stragi

Beirut si affermò come primo porto del Mediterraneo orientale. La creazione dello stato di Israele nel 1948 aveva chiuso il porto di Haifa al commercio arabo. Il Libano aveva perso il 60 per cento del suo mercato a causa della rottura dell’unione doganale con la Siria nel 1950, ma si era imposto come centro finanziario del Medio Oriente grazie alla sua economia di mercato e al segreto bancario instaurato nel 1956, un’eccezione nella regione. I capitali francesi rimasero legati alla borghesia tradizionale, mentre le ricchezze petrolifere del Golfo fecero emergere una nuova classe imprenditoriale composta da libanesi, palestinesi, siriani e iracheni.

Fino all’inizio degli anni settanta Beirut, che ormai superava il milione di abitanti, visse la sua età dell’oro. Almeno in apparenza. Piazza finanziaria, porto di transito, mercato aperto a tutte le transazioni bancarie, “dalle più banali alle più dubbie”, come scriveva Samir Kassir, storico e giornalista ucciso nel 2005. Beirut “svolge bene le sue funzioni che oltrepassano il quadro territoriale della repubblica libanese”, spiegava Kassir. “Senza essere una città di ricchi ne ha tutta l’aria, poiché il denaro chiama denaro, e crede di poter vivere nella spensieratezza di una ricchezza eterna”. Le ricchezze erano concentrate nelle mani di un’élite la cui corruzione e il cui nepotismo erano sempre più evidenti, fin dentro al porto, conteso tra le comunità. “Gli uffici amministrativi si moltiplicavano, così come le lentezze burocratiche e la corruzione”, osserva Babikian.

Con la guerra dei sei giorni nel giugno del 1967 e l’occupazione israeliana del Sinai, il canale di Suez restò chiuso per otto anni e questo congestionò il porto di Beirut. Fu creato un terzo bacino, poi il silo del grano, ma una parte del traffico dovette comunque essere dirottata verso Tripoli. I lavori per la creazione di un quarto bacino erano appena cominciati quando, nell’aprile del 1975, si scatenarono le prime violenze che portarono poi ai quindici anni di guerra civile libanese. Il porto fu teatro di furiosi combattimenti. “Poco a poco diventò il caos: furti, saccheggi, violenze”, racconta Assaad Chaftari, ex numero due dei servizi segreti delle Forze libanesi, uno dei gruppi armati di Kataeb, il partito delle falangi cristiane maronite. Nel 1976 Kataeb svuotò il porto delle merci. Il 18 gennaio 1976 i miliziani incendiarono e rasero al suolo la Quarantaine, massacrando quasi mille abitanti.

Anche se questo dramma s’inseriva in una serie di stragi che prendevano di mira i campi profughi palestinesi controllati dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), il quartiere della Quarantaine – incuneato tra il porto e i quartieri cristiani – aveva anche un valore strategico. Il controllo della baraccopoli musulmana era considerato indispensabile dalle falangi nel momento in cui si tracciava la divisione della capitale libanese lungo la “linea verde”, tra l’ovest musulmano e l’est cristiano. Dovevano mantenere l’accesso al mare, tanto più che l’aeroporto era nel campo avverso. A giugno le truppe siriane entrarono in Libano.

Nel 1982 Israele assediò Beirut ovest. Lo stesso anno il quinto bacino, confinante con la Quarantaine ormai distrutta, diventò il porto falangista. “C’era il porto ufficiale, ma i nostri servizi erano meno cari”, ricorda Chaftari. “Così finanziavamo le milizie cristiane”. Le armi sbarcavano in moli clandestini. L’esercito libanese, in pieno disfacimento, non aveva i mezzi per controllare il porto ufficiale, dove “gli spedizionieri e i dipendenti erano per lo più cristiani”, continua Chaftari. “Bisognava essere nel giro delle Forze libanesi per poter entrare”.

Beirut, 7 agosto 2020. Cittadini ripuliscono dalle macerie il quartiere di Gemmayze (Lucien Lung, Riva press)

Durante la guerra civile la Compagnie de gestion et d’exploitation du port de Beyrouth fu rimaneggiata da Amine Gemayel, figlio del fondatore del partito Kataeb ed eletto presidente del Libano nel 1982, che la divise tra le fazioni. “Nel 1984 nel consiglio di amministrazione della compagnia c’erano un druso, un esponente di Kataeb e tre delle Forze libanesi. Uno sciita del partito Amal si aggiunse nel 1985, e un altro lo seguì nel 1987”, spiega Babikian. Alla fine della guerra l’accordo di Taif, del 1989, consacrò il confessionalismo politico come sistema di governo. Le milizie furono smantellate – a eccezione di Hezbollah, che avrebbe continuato la sua guerriglia nel sud del Libano fino al ritiro delle truppe israeliane nel duemila – ma i signori della guerra conservarono i posti chiave nel governo.

Buco nero

Gli orrori della guerra furono seppelliti senza nessuna rielaborazione. La gioventù dorata ballava al B018, un locale a forma di gigantesca bara, progettato nel 1994 dal celebre architetto Bernard Khoury sui luoghi del massacro della Quarantaine. Era il regno dei soldi facili, ognuno gestiva la sua zona d’influenza e i suoi traffici. Charbel Nahas, ex ministro del lavoro oggi a capo di Cittadini e cittadine in uno stato (un partito non confessionale creato nel 2016), nota che “la vecchia borghesia del commercio fu estromessa dalla gestione del porto e sostituita da affaristi legati alle ex milizie e da persone che avevano fatto fortuna nel Golfo o come intermediari nel traffico di armi: una cricca legata ai capiclan, che li sistemavano nei posti chiave” per consolidare il loro potere sulla comunità e la loro influenza nello stato. Dal 1990 la Compagnie de gestion et d’exploitation du port de Beyrouth fu sostituita da un comitato “provvisorio”, ancora attivo. “Non è un’impresa pubblica né una concessionaria né un ente amministrativo o un’azienda privata. È una finzione! Non ha uno statuto, non esiste. Non dipende dalla corte dei conti, non è nel bilancio dello stato, è un buco nero”, ironizza Nahas. Il comitato è sotto la supervisione – ma non la tutela – del ministero dei trasporti e dei lavori pubblici. I sei componenti (ingegneri, architetti ed economisti) dell’attuale consiglio d’amministrazione sono stati nominati nel 2002, sotto il governo di Rafiq Hariri, un imprenditore sunnita che si era arricchito in Arabia Saudita, e il cui omicidio nel 2005 portò di nuovo il Libano sull’orlo della guerra e provocò il ritiro delle truppe siriane.

Al vertice delle varie autorità portuali prevale ancora la logica comunitaria. La direzione del porto è stata affidata ad Hassan Koraytem, un sunnita vicino alla famiglia Hariri; quella delle dogane a Badri Daher, un maronita fedele al presidente Michel Aoun; l’alto consiglio delle dogane è guidato da Asaad al Toufaili, vicino a Nabih Berri, presidente del parlamento e capo del partito sciita Amal. L’esplosione non ha messo in discussione questo sistema. Dopo l’arresto dei funzionari – nel quadro di un’inchiesta da cui i libanesi, abituati all’impunità dei politici, non si aspettano molto – la spartizione è rimasta uguale. E riguarda anche le forze di sicurezza del porto: il direttore dell’intelligence militare è sunnita, uno sciita si occupa della sicurezza generale e un cristiano di quella dello stato.

Per quanto riguarda il potente partito-milizia Hezbollah, “non controlla il porto ma l’aeroporto di Beirut e altri porti e aeroporti siriani. La presenza delle altre fazioni limita il suo potere”, osserva una fonte dell’Onu. Un esperto internazionale precisa che “nel porto, come nel governo, Hezbollah esercita un’influenza indiretta attraverso gli alleati politici”, il clan Aoun e il partito Amal. Il giornalista Riyad al Kobeissi, che lavora per Al Jadeed, una delle tv libanesi più seguite, fissa una svolta negli anni 2010: “Il porto resta dominato dai partiti cristiani e sunniti, ma l’influenza dei partiti sciiti, Amal e Hezbollah, è aumentata, in particolare nell’ispezione delle dogane e tra le forze di sicurezza”.

“Al porto regna il caos. Tutto si aggiusta, tutto si compra, tutto si vende”

Non si esclude che Hezbollah usi il porto per il contrabbando. Il traffico di droga e di diamanti con l’America Latina e l’Africa occidentale è considerato una delle sue fonti di finanziamento. Gli esperti ritengono poco probabile che il porto serva per le armi. “Tutte passano per le frontiere terrestri con la Siria”, sottolinea l’esperto internazionale. “Usare il porto significherebbe esporsi a grandi rischi, come il sequestro delle imbarcazioni in mare, dove ci sono i controlli della Forza di interposizione in Libano dell’Onu (Unifil) e convergono le potenze straniere. Inoltre la polarizzazione politica incoraggia le fazioni presenti nel porto a denunciarsi a vicenda. Il traffico di armi ha bisogno di circuiti più stabili”.

“Il porto è organizzato come una sorta di cartello che funziona solo se tutti sono coinvolti”, sintetizza Arkani Seblani, che si occupa di anticorruzione nei paesi arabi per il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp). La proliferazione degli incarichi e la cultura dell’impunità favoriscono una corruzione su scala industriale. Importanti lavori realizzati con capitali esteri e libanesi, tra cui un nuovo terminal per i container nel 2005 e una zona franca logistica nel 2007, hanno reso le attività portuali ancora più redditizie. “Beirut è diventata un crocevia del commercio marittimo nel Mediterraneo orientale”, dice Nicolas Chammas, presidente dell’Associazione dei commercianti di Beirut.

I portacontainer delle due più grandi compagnie marittime mondiali, la francese Cma-Cgm e l’italo-svizzera Msc, hanno sostituito le navi da crociera nella baia di Beirut. E hanno compensato il calo delle importazioni verso la Siria dopo l’inizio della guerra nel 2011 e verso l’Iraq dal 2014 . “Gli aiuti umanitari dell’Onu destinati al milione e mezzo di profughi siriani in Libano e ai sette, otto milioni di sfollati in Siria transitano dal porto”, sottolinea l’economista franco-siriano Samir Aita. Dopo le sanzioni imposte al regime di Bashar al Assad a partire dal 2011, Beirut è diventata indispensabile. “Poche navi possono attraccare nei porti siriani di Tartus e di Latakia”, confida un importatore siriano che vive tra la capitale libanese e Damasco. “Beirut permette agli imprenditori e al governo siriano di aggirare le sanzioni per petrolio e farina”.

La fuga dei capitali

Prima dell’esplosione, il porto aveva un ruolo fondamentale nell’economia nazionale, dato che passava di lì l’85 per cento dei beni di consumo. Le importazioni di beni e di servizi, osserva Samir el Daher, ex specialista per le infrastrutture alla Banca mondiale, “prima della crisi finanziaria rappresentavano quasi due terzi del pil”. Inoltre, secondo i dati doganali sull’ultimo decennio, “le tasse del porto costituiscono almeno l’80 per cento di tutte le entrate doganali del paese”, continua El Daher. Nel 2019 questi guadagni ammontavano a 1,8 miliardi di dollari, di cui 1,4 miliardi – il 10 per cento delle entrate totali dello stato – erano riscossi al porto.

Di questo denaro lo stato libanese non percepisce nulla o quasi. Su 230 milioni di dollari incassati dalla direzione del porto nel 2018, solo 40 sono stati trasferiti allo stato, secondo un rapporto del parlamento pubblicato alla fine del 2019. “Certi anni l’autorità portuale non ha versato nulla”, spiega Alain Bifani, che è stato direttore generale del ministero delle finanze fino alle sue dimissioni a luglio.

Il consiglio d’amministrazione del porto nega qualunque irregolarità. Christian Char, che ne fa parte, assicura: “Versiamo l’eccedenza del fatturato al ministero dei trasporti, dopo aver dedotto le spese e il 25 per cento riservato allo sviluppo del porto”. Char precisa che ogni anno si fanno una revisione interna e una esterna. “In realtà possiamo consultarle solo se il porto ce lo permette”, replica Bifani. Da tempo il ministero delle finanze chiede che le strutture pubbliche non possano più avere dei conti correnti nelle banche commerciali. “Molte ne hanno. A causa del segreto bancario il ministero non può saperlo. È possibile che attraverso questo sistema dei capitali sfuggano al suo controllo”, spiega l’ex funzionario.

Tasse, tangenti e falsi contratti alimentano le casse del porto. “Se per esempio un container arriva dalla Francia, l’amministrazione del porto applica una tassa che è depositata sui suoi conti bancari privati. Solo se il ministero dei trasporti lo chiede, gli sarà versato il dovuto”, assicura l’avvocato Wadik Akl, esponente di Aoun ed ex consulente dell’effimero ministero della lotta alla corruzione. Il controllo esercitato da questo ministero sull’amministrazione portuale non ha convinto. L’ex ministro dei trasporti Ghazi Aridi, in carica dal 2008 al 2013 e vicino al leader druso Walid Jumblatt, aveva una reputazione terribile.

I suoi successori – Ghazi Zaiter (legato al partito Amal), Youssef Fenianos e Michel Najjar, vicini al capo cristiano Sleiman Frangié – non sono considerati più virtuosi. “È uno dei ministeri più ambiti perché è uno dei più redditizi”, spiega Seblani. La firma del ministro è richiesta per le transazioni più importanti, ma l’autorità del porto gestisce i contratti di subappalto per i lavori di manutenzione o di ampliamento delle strutture, al centro di ogni tipo di abuso – progetti fittizi, sovrastimati o affidati a imprese legate a politici, precisa Seblani. I favori vanno dalle tangenti fino al finanziamento di campagne elettorali.

Da sapere
Rinunce e risarcimenti

◆ Il 26 settembre 2020 il primo ministro incaricato Mustapha Adib ha rinunciato a formare un nuovo governo a causa delle profonde divisioni politiche in parlamento. La scelta di ministri competenti e indipendenti, in grado di promuovere le riforme, era la condizione per sbloccare miliardi di dollari di aiuti internazionali. In un discorso tenuto il giorno dopo, il presidente francese Emmanuel Macron ha condannato il “tradimento” della classe politica libanese.

◆ Il **24 settembre **il presidente Michel Aoun ha firmato un decreto che prevede un fondo di cento miliardi di lire libanesi (quasi 57 milioni di euro) per risarcire i danni materiali causati dall’esplosione del 4 agosto. Secondo l’esercito, incaricato di valutare i danni, sono state colpite 60.818 abitazioni, 962 ristoranti e 19.115 enti e società commerciali. Il giorno prima, in un messaggio trasmesso durante il summit online dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, Aoun aveva chiesto ai leader mondiali di contribuire alla ricostruzione del porto e dei quartieri distrutti dall’esplosione. L’indagine interna per accertare le responsabilità dell’accaduto, a cui contribuiscono esperti internazionali, è ancora in corso. Finora sono state arrestate 21 persone.

Al Jazeera, Afp


Vestiti di marca e stracci

“È semplice, al porto regna il caos. Tutto si aggiusta, tutto si compra, tutto si vende”, osserva amaramente Farid Kamel, proprietario di un’impresa che lavora la lana nella Quarantaine, danneggiata il 4 agosto. I dipendenti, pagati 1,4 milioni di lire libanesi al mese (76 euro), “prendono le tangenti”, denuncia l’industriale di 48 anni: “Per ogni container sono distribuiti almeno 100 dollari: una parte per l’ispezione, una per lo sdoganamento e così via. Dipende dal valore e dal tipo di merce. Da fuori sembra tutto pulito”.

Secondo un’economista che vuole restare anonima, i prezzi di sdoganamento a Beirut sono il 60 per cento più alti rispetto ai porti europei, a causa dei numerosi passaggi amministrativi. “Si stima che le spese informali producano un sovrapprezzo dell’1,9 per cento”, aggiunge. Considerato il numero di container che transitano per il porto, le cifre sono alte, “ma se si dispone di un accesso privilegiato e di vantaggi particolari, importare è molto redditizio”. Le dogane sono un luogo di accordi tra importatori corrotti e controllori poco scrupolosi. I permessi a volte sono falsificati per diminuire le tasse o per far entrare merci di contrabbando. Vestiti di marca risultano stracci; carichi di birra sono mescolati a occhiali – meno tassati – e prodotti illeciti sono nascosti nei veicoli. “Gli importatori versano delle tangenti a tutti: dai finanzieri al direttore”, spiega l’avvocato anticorruzione Wassef Haraké.

I mancati guadagni per lo stato sono difficili da quantificare. “Il risultato è che il tesoro è in bancarotta. E questo provoca una progressiva sostituzione dell’economia legale con quella sotterranea”, commenta Chammas. Secondo lui l’evasione ammonterebbe a circa un miliardo di dollari: “I traffici avvantaggiano loschi personaggi, che li gestiscono per conto dei partiti grazie ai loro contatti nel porto”.

Da sapere
Onda d’urto
fonte: the new york times

◆ I quartieri più colpiti dall’esplosione del 4 agosto: Gemmayze, a maggioranza cristiana e abitato dalla classe media; Mar Mikhael, noto per la vita notturna; la Quarantaine, dove vivono soprattutto poveri e immigrati; e Ashrafieh, zona residenziale in collina, a maggioranza cristiana.


Il 10 agosto, per la prima volta dopo l’esplosione, alcune navi hanno attraccato al molo. I danni sono meno gravi di quello che si credeva. “Il porto di Beirut ha dei problemi di stoccaggio, ma può accogliere le navi”, afferma Aita. “Ha una capacità sufficiente per quello che il Libano e la Siria importano oggi”. I danni sono comunque considerevoli. Il silo per il grano, che può contenerne 120mila tonnellate, è inutilizzabile, e lo stesso vale per una quindicina di magazzini. La distruzione di parte delle banchine rende difficile lo sbarco delle merci, tra cui prodotti essenziali come il grano.

Lo stesso giorno il ministro dell’economia Raoul Nehme spiegava che un “aiuto internazionale per coprire i costi di ricostruzione del porto e dei silos” era indispensabile a causa del fallimento dello stato. I partner del Libano sono pronti a dare un mano, a patto che prima si realizzino riforme nella gestione del potere, nel settore bancario e nei servizi pubblici. Da questo dipende un prestito del Fondo monetario internazionale, la cui negoziazione è per ora bloccata.

Già si stuzzicano altri appetiti, internazionali. Il Kuwait ha annunciato che ricostruirà il silo. La Francia, attraverso Medef, la più grande federazione di datori di lavoro del paese, ha espresso interesse per il porto. In lizza ci sono anche il Qatar, la Turchia – le cui ambizioni nel Mediterraneo orientale sono in aumento – e la Cina, che punta anche a Tripoli per le sue “nuove vie della seta”. Alcune società, tra cui la francese Cma-Cgm, vorrebbero gestire il terminal dei container, affidato dal 2005 al consorzio privato anglolibanese Beirut container terminal consortium (Bctc).

Sognare sulle rovine

Il tempo stringe. Il porto di Jebel Ali, negli Emirati Arabi Uniti, costruito nel 1979 e in una posizione migliore rispetto alle rotte marittime verso l’Asia, ha sostituito quello di Beirut. La concorrenza di altri porti regionali è già evidente: quelli di Tartus e Latakia in Siria, di Mersin in Turchia e di Aqaba in Giordania. Il porto israeliano di Haifa ha visto crescere la sua importanza da quando la Cina ha cominciato a investirci; senza contare la normalizzazione tra Israele e i paesi del Golfo, come dimostra l’accordo raggiunto con gli Emirati e con il Bahrein. “Perché Beirut possa competere con questi porti, bisogna prendere delle misure”, dice Samir el Daher. La gestione del porto deve essere riformata, gli spazi rivisti, le procedure doganali vanno semplificate e informatizzate e le reti stradali e ferroviarie sviluppate.

El Daher è favorevole a una maggiore cooperazione tra i porti del Libano. Era prevista da un piano nazionale di gestione e di sviluppo del territorio approvato dal consiglio dei ministri nel 2010, mai realizzato. A Beirut dovrebbero spettare l’attività dei container, le importazioni destinate al mercato interno e le esportazioni. “Tripoli diventerebbe leader del traffico delle merci all’ingrosso e di quelle dirette verso la Siria e l’Iraq, e dei trasporti verso la Turchia e l’Europa”, precisa El Daher. Il porto di Sidone-Zahrani, 40 chilometri a sud di Beirut, sarebbe destinato al commercio con il Golfo.

A Beirut c’è già chi comincia a sognare sulle rovine. In una casa tradizionale di Gemmayze gli architetti Fadlallah Dagher e Hala Younes condividono “un’utopia”: restituire alla città il suo accesso al mare e offrirle un nuovo orizzonte. “Il porto la soffoca, occupando gran parte del lungomare. Il paese è in ginocchio, è il momento di ridefinire le cose”, suggerisce Dagher. La loro idea è ridurre l’area del porto, la cui attività ingorga le strade, e sostituire i bacini distrutti con nuovi spazi urbani. Questa è la speranza di Younes: “Dall’esplosione potrebbe nascere un mondo nuovo”.◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1378 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati