Ela Minus è esausta, ma più motivata che mai. È appena tornata a vivere nella capitale colombiana Bogotá per stare più vicina alla sua famiglia e allontanarsi dalla follia di New York, soprattutto in un’epoca imprevedibile come questa. In futuro vorrebbe trasferirsi sulle montagne che circondano la città, “in qualche posto isolato, in mezzo alla natura, dove riposarmi tra un tour e l’altro”. Ma per ora resta in un luogo in cui può semplicemente vivere comoda e avere una buona connessione a internet. Sta per uscire il suo primo album, e la cultura del fai da te, che lei ha abbracciato, le impone di occuparsi in prima persona di alcuni compiti fondamentali per la promozione del disco.

Anche se l’allontanamento da New York è dovuto in parte al desiderio di riavvicinarsi alla famiglia e mettersi al riparo dal caos, il suo disco d’esordio, intitolato acts of rebellion e in uscita il 23 ottobre, è pensato per essere la perfetta colonna sonora del nostro tempo. È una discesa nella follia. È il canto di una rivoluzione, sia personale sia collettiva, contro un mondo pieno di conflitti causati dal razzismo, dal sessismo e dall’intolleranza; conflitti creati dalla pandemia e dagli atteggiamenti che questa ha scatenato in una parte della società; conflitti scatenati dall’ego dei politici, con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali statunitensi che si svolgeranno appena due settimane dopo l’uscita di acts of rebellion. Forse è sorprendente che l’album sia stato concepito nel 2018, quando niente di tutto questo poteva essere previsto.

“Quando ho finito l’album volevo farlo uscire subito, perché temevo che il contesto che l’aveva ispirato potesse cambiare troppo”, spiega Ela Minus su Zoom avvolta in un maglione nella sua casa poco illuminata di Bogotá. “È un album particolare, cazzo. Pensavo che forse, se non lo avessimo pubblicato subito, non sarebbe stato significativo”. Ma ritardare l’uscita non l’ha indebolito, anzi. Dominique, un brano influenzato dal controverso personaggio di Dominique Francon del romanzo La fonte meravigliosa di Ayn Rand, affronta temi come l’isolamento e la mancanza d’interazione, particolarmente attuali visto quello che è successo negli ultimi sei mesi in seguito alla pandemia di covid-19.

Un altro esempio è megapunk, il secondo singolo dell’album. Sarebbe dovuto uscire a novembre poi, dopo la morte di George Floyd, il movimento Black lives matter è cresciuto ed Ela Minus ha deciso di pubblicarlo nei giorni in cui le proteste sono state trasmesse in televisione. “È stata la canzone che ci voleva in quel momento”, commenta.

Ela Minus ha sempre costruito il suo percorso musicale a partire dalle proprie esigenze, senza ascoltare le critiche degli altri. A dodici anni suonava la batteria in un gruppo punk hardcore, i Ratón Pérez, grazie al quale ha acquisito uno spirito punk e fai da te. Il suo alter ego Ela Minus (il suo vero nome è Gabriela Jimeno) non esisteva ancora.

Dopo varie esperienze è entrata al prestigioso Berklee college of music di Boston, dove la competizione era sfrenata, e che l’ha svuotata di ogni energia. Finché un giorno, in cerca di qualcosa che la liberasse dalla tensione accumulata nella scuola, ha scoperto le feste techno di Boston. L’inarrestabile energia della musica elettronica l’ha fatta sentire a casa.

Cambio di passo

Ritrovata l’ispirazione grazie alla cultura dei club, Gabriela Jimeno ha cambiato il suo percorso al Berklee college e si è messa a studiare nel dettaglio gli strumenti e i software di produzione musicale. Ha cominciato a costruire e riparare sintetizzatori. Queste competenze le sono tornate utili quasi dieci anni dopo, quando ha realizzato il suo album, registrato solo con sintetizzatori fisici, senza l’uso di soft­ware.

A cts of rebellion fonde due lati di Ela Minus. Il primo è quello che si esprime in una techno intensa dal sapore edonistico, creata con le tastiere, i campionatori e i sintetizzatori che tiene sparsi per casa (la ragazza racconta quanto sia stato strano vivere in quarantena per due settimane, lontana dai suoi strumenti). Il secondo è quello che usa la musica elettronica come strumento di ribellione e di lotta alle ingiustizie, da quelle più piccole e legate ai rapporti interpersonali fino a quelle su scala mondiale. Quando le chiedono se aveva previsto fin dall’inizio di fare un disco techno sulla rivoluzione, risponde: “Volevo fare un disco ballabile, ma non sapevo che sarebbe stato incentrato sulla ribellione: è una cosa venuta fuori in modo spontaneo”. Lavorare all’album le è costato molta fatica e ha richiesto grande disciplina. “È il mio primo disco. C’è voluta una vita intera per concepirlo e ho avuto la sensazione che sarebbe stato più facile non fare canzoni troppo concentrate sulla politica”.

Biografia

1990 Nasce a Bogotá, in Colombia.

2002 A soli dodici anni entra come batterista in un gruppo punk.

2010 Entra al Berklee college of music di Boston.

Ottobre 2020 Esce il suo album d’esordio, acts of rebellion.


Temeva che acts of rebellion potesse essere troppo difficile da digerire per gli ascoltatori, soprattutto per gli appassionati della musica dance, un genere che di solito è molto attento all’estetica.

In realtà anche la musica dance nasce dalla ribellione. Molto prima di attirare l’interesse delle grandi case discografiche, le discoteche erano un porto sicuro per chi era ai margini della società, un posto dove neri, queer e altre minoranze potevano stare insieme liberamente senza sentirsi minacciati dalla polizia. La musica che veniva suonata alle serate era catartica, dava a queste persone l’opportunità di essere se stesse, di trovare la libertà sulla pista da ballo. C’è un motivo se la musica dance ancora oggi è considerata liberatoria da tante persone.

Oggi è stata quasi completamente trasformata in un fenomeno di massa. Ogni tanto un produttore – di solito bianco, spesso uomo – dichiara di aver reso popolare un nuovo genere che, in qualche modo, affonda le radici nel passato. E i festival annunciano dei programmi in cui la diversità etnica degli artisti è minima, tradendo in un certo senso lo spirito delle origini.

“Sono così stanca di ascoltare solo musica attenta all’estetica”, si lamenta Ela, frustrata dalla superficialità della dance contemporanea, che lei considera incapace di andare oltre i ragionamenti utilitaristici su quale sonorità farà vendere di più o permetterà di scalare posizioni all’interno della Ultra Music, una delle più famose etichette di musica per ballare. “Non dico che questo album risolverà il problema, ma volevo creare qualcosa che avessi voglia di ascoltare. Ci voleva un po’ di onestà, un po’ di ruvidezza”.

La musicista racconta di essere stata influenzata dalla cultura dance degli anni ottanta e novanta, un’epoca in cui questa era musica ancora politica, o almeno si batteva per qualcosa. “Oggi tutto è così ripulito e asettico”, aggiunge. Acts of rebellion non vuole riscrivere completamente le regole di questo genere musicale né rimettere al centro la passione e la politica. Questi sono semplicemente elementi che vengono fuori da un’autenticità che va oltre i suoni di moda su TikTok.

A cts of rebellion non è un album particolarmente rivoluzionario, semplicemente rispecchia lo spirito dei nostri tempi: un disco di dance superficiale non avrebbe senso nel 2020, un anno in cui negli Stati Uniti la gente ha preso posizione contro la brutalità della polizia e la cattiva politica, un anno in cui neri, queer e altre minoranze sono diventati consapevoli di non poter più vivere tranquilli a causa di una crescente intolleranza, di un odio e di una violenza che sembrano provenire perfino dall’attuale presidente Donald Trump.

“Non mi sono mai sentita così fiera di qualcosa che ho fatto. Quest’album mi ha permesso di accettare me stessa e i miei pensieri, anche quelli che non ero sicura di voler condividere con gli altri”, dice Ela Minus.

La musica dance ha un ruolo nella lotta per il cambiamento. E, se la rivoluzione sarà trasmessa in televisione, sarà la musica di Ela Minus a farle da colonna sonora. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1378 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati