Il colpo di stato in Birmania è cominciato con precisione chirurgica, prima dell’alba del 1 febbraio, con l’arresto della leader di fatto del paese Aung San Suu Kyi. I militari hanno preso in custodia anche alcuni alti funzionari del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Nld), e circa quattrocento deputati che si trovavano nella capitale Naypyidaw per la prima seduta del parlamento dopo le elezioni dell’8 novembre. Internet e la rete di telefonia mobile sono state bloccate, e un comunicato dell’esercito letto alla tv ha annunciato che il capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing, assumeva il controllo del paese dichiarando lo stato di emergenza per un anno. La decisione, sosteneva l’annuncio, era una risposta ai brogli avvenuti durante le elezioni. Così il governo della Birmania è passato silenziosamente di mano, senza soluzione di continuità e senza che fosse necessario sparare un solo colpo. Ma i disordini sono appena cominciati.

Il colpo di stato è arrivato dopo che da giorni i vertici militari minacciavano di “prendere provvedimenti” in risposta a presunte frodi elettorali. Il giorno prima Min Aung Hlaing aveva garantito che i militari avrebbero “rispettato la costituzione”, allentando così le tensioni in cui la Birmania era avvolta fin dalle elezioni. Il 2 febbraio un paese stordito ma impassibile ha fatto i conti con la realtà. Suu Kyi, agli arresti domiciliari per 15 anni fino al 2010, era di nuovo detenuta.

Stranamente, anche se i leader politici e gli attivisti sono rimasti in carcere, la calma ha prevalso a Naypyidaw e nella capitale economica Rangoon. Internet e le reti mobili sono tornate attive, le banche funzionano e i supermercati e altre attività sono aperti. La maggior parte dei cittadini rispetta il distanziamento per evitare la diffusione del covid-19, che finora ha ucciso più di 3.100 persone e ne ha infettate più di 140mila. Veicoli blindati sono stati visti nei dintorni della capitale, nei più importanti edifici governativi come il complesso del parlamento e il palazzo presidenziale, ma nessun apparato supplementare di sicurezza è stato messo a proteggere i ministeri più importanti.

A Rangoon lo stato d’animo iniziale di paura e shock si è gradualmente trasformato in frustrazione e rabbia. “La gente non ha paura di scendere in piazza, ma penso che stia aspettando le istruzioni dell’Nld”, spiega un ragazzo. Qualche ora dopo il colpo di stato, un presunto appello di Suu Kyi su Facebook, forse preparato in anticipo, invitava i cittadini a “protestare” contro il golpe. Dal 2 febbraio gli attivisti dell’Nld avevano preso in mano la situazione, soprattutto sui social network, dove alcuni post contrassegnati dall’hashtag #CivilDisobedienceMovement hanno invitato a uno sciopero generale, esortando le persone a manifestare con secchi e pentole di metallo. Il ministero dell’informazione ha messo in guardia contro la pubblicazione di materiale che potrebbe “alimentare instabilità”. Ma alle otto di sera a Rangoon è risuonato il frastuono del metallo sferragliante e delle forti grida di protesta. In segno di dissenso, i medici e il personale di una quarantina di ospedali statali hanno annunciato che avrebbero smesso di lavorare in qualità di “dipendenti pubblici di una giunta militare”. “Chi ha investito soldi e fiducia in Birmania si prepara a uno shock”, dice un investitore asiatico a Rangoon. “Una delle ragioni principali per cui questo è tra i paesi meno sviluppati del sudest asiatico è la follia di chi lo governa”.

I più ottimisti notano che alcune nomine nel governo sono migliori del previsto. Tra i nuovi ministri, molti provengono dall’amministrazione del presidente Thein Sein (2011-2016), e ci sono anche alcuni rispettati tecnocrati. Ma l’umore generale è cupo. Negli ultimi cinque anni di governo dell’Nld di Suu Kyi l’esercito non ha nemmeno finto di rispettare il governo civile. Il meccanismo che permette il colpo di stato è presente nella costituzione del 2008, un documento scritto dai militari e che ha posto le basi per una transizione, pianificata con discrezione, verso un governo parzialmente autonomo dall’esercito. Ai sensi di una serie di disposizioni costituzionali a cominciare dalla sezione 417, Min Aung Hlaing aveva l’autorità di dichiarare lo stato d’emergenza e assumere il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo a tempo indeterminato, anche se ha promesso di indire le elezioni tra un anno.

Con le sue sezioni astutamente formulate, che permettono un controllo e un contro-bilanciamento delle istituzioni civili e delle strutture di potere, il documento ha sancito il potere dell’esercito, assegnandogli un quarto di tutti i seggi nei parlamenti statali e nazionali e tre posizioni chiave nei ministeri di difesa e sicurezza. Per cambiare la costituzione è necessaria l’approvazione dei tre quarti del parlamento, il che attribuisce di fatto ai militari il potere di veto. Il divieto di nominare presidente chi abbia un coniuge o un figlio stranieri ha inoltre impedito che Suu Kyi, con figli e marito inglesi, potesse accedere alla carica. Anche se la consigliera di stato è ampiamente riconosciuta come leader di fatto del paese.

Leader di facciata

L’esercito aveva molti motivi di volere una leader civile di facciata pur mantenendo le redini del potere. Nel 2010, dopo quasi cinquant’anni di malgoverno militare e di sanzioni imposte dall’Unione europea e dagli Stati Uniti, anche i generali avevano riconosciuto che il paese era sull’orlo del collasso. Dopo una serie di governi militari, punteggiata da due sanguinosi golpe, nel 1962 e nel 1988, la Birmania era uno stato reietto e isolato, con un’economia a pezzi, quasi senza internet e senza un’informazione libera. La metà della popolazione viveva molto al di sotto della soglia di povertà. La valuta nazionale, il kyat, era scambiata a duecento volte il tasso ufficiale sul mercato nero. E l’inflazione, in pochi anni, aveva superato il trenta per cento, con picchi del 57 per cento nel 2002. Nel 2010 il capo della giunta, Than Shwe, aveva annunciato improvvisamente le dimissioni e nuove di elezioni, designando un generale dall’atteggiamento mite, Thein Sein, come candidato del Partito dell’unione della solidarietà e dello sviluppo (Usdp), appoggiato dai militari. La sua prevedibile vittoria era stata accolta con cinismo in occidente.

Rangoon, Birmania, 2 febbraio 2021 (Aung Kyaw Htet, Sopa Images/LightRocket/Getty)

Ma dopo la liberazione di Suu Kyi del 2010 e l’approvazione di radicali misure di liberalizzazione, Thein Sein aveva messo il suo sigillo su una nuova era riformista. Per la Birmana il momento cruciale dell’ultimo decennio è stato la visita nel 2012 di Barack Obama, il primo presidente degli Stati Uniti in carica a recarsi nel paese asiatico: un segno di apprezzamento per le riforme. Alla fine del 2013, dopo tre anni di mandato di Thein Sein, il paese aveva assistito a grandi trasformazioni negli investimenti esteri, nell’occupazione, nelle telecomunicazioni e nella legislazione sui mezzi d’informazione. Centinaia di prigionieri politici erano stati liberati, erano arrivati investimenti, e il paese aveva registrato una crescita annuale dell’8,4 per cento. L’inflazione era stata domata, il kyat si era stabilizzato, e il possesso di telefoni cellulari e la penetrazione di internet erano cresciuti quasi del cento per cento. Il pil nominale pro capite è salito a 1.608 dollari nel 2019, mentre i livelli di povertà sono stati quasi dimezzati.

I piani dei militari si sono scontrati con la vittoria elettorale dell’Nld nel 2015, che ha tolto molti seggi all’Usdp e ha dato a Suu Kyi l’opportunità di ritagliarsi l’incarico speciale di consigliera di stato e ministra degli esteri. L’anno dopo gli Stati Uniti hanno cominciato a revocare quasi tutte le sanzioni contro la Birmania.

Negli ultimi anni Suu Kyi è stata dipinta come un “angelo caduto”, una leader politica arrogante e assetata di potere che ha tradito i difensori dei diritti umani di cui aveva il sostegno e ha lasciato accadere uno dei più grandi crimini contemporanei contro l’umanità: la persecuzione e la cacciata verso il Bangladesh, nel 2017, di 750mila persone della minoranza rohingya. Suu Kyi ha fatto ulteriormente infuriare i suoi sostenitori andando all’Aja nel 2019 per difendere dall’accusa di genocidio gli stessi militari che l’avevano tenuta agli arresti domiciliari per anni. Mentre i suoi sostenitori nel mondo vedevano in lei la paladina dei diritti umani premio Nobel per la pace, Suu Kyi in realtà aveva sempre dato più importanza alla legge e all’ordine che alla giustizia sociale. 

Lo scorso novembre il suo partito ha inflitto un’umiliante sconfitta all’Usdp, che ha ottenuto solo 33 seggi contro i 396 dell’Nld nel parlamento nazionale. Per i suoi sostenitori il modo in cui ha gestito i rapporti con l’esercito negli ultimi cinque anni è stato più una forma di jujitsu politico che una pacificazione. Alla fine, tuttavia, la sua clamorosa vittoria ha assunto i contorni di una minaccia alle ambizioni di Min Aung Hlaing in vista del suo pensionamento nel 2021. L’unica prospettiva per il generale era diventare vicepresidente, e l’idea di servire sotto un presidente nominato da Suu Kyi deve essergli chiaramente sembrata poco allettante.

Da sapere
I vertici detenuti

◆ Il 3 febbraio 2021, tre giorni dopo l’inizio dello stato d’emergenza proclamato dai militari, Aung San Suu Kyi è stata formalmente accusata di vari reati e, hanno fatto sapere i militari, sarà detenuta fino al 15 febbraio. Tra le accuse ci sono la violazione delle leggi sull’import-export e il possesso di strumenti di comunicazione illegali: i militari hanno perquisito casa sua e hanno trovato dei walkie-talkie importati illegalmente. Il presidente Win Myint è invece accusato di assembramento in violazione delle misure di sicurezza contro la pandemia e rimarrà detenuto per due settimane.


Scacchi cinesi

Colonia britannica fino al 1948, e in una posizione strategica tra Cina e India, la Birmania è di nuovo al centro di un “grande gioco” asiatico, contesa da potenze tra loro rivali. Per decenni la Cina ha protetto il paese, ancor più dagli anni novanta, quando l’occidente ha imposto sanzioni, e ha fornito attrezzature militari e di addestramento, investimenti in infrastrutture e altre opere. Ma quando sono arrivate le sanzioni, il prezzo da pagare per essere uno stato vassallo cinese ha cominciato a essere troppo alto per i generali, guidati dal capo della giunta Than Shwe. Tra l’insoddisfazione per il controllo esercitato da Pechino, i suoi rapporti con i gruppi etnici armati, il suo vorace appetito per le risorse naturali del paese e il suo equipaggiamento militare a buon prezzo ma di scarsa qualità, la giunta ha elaborato un grande piano per salvare l’economia in crisi e aprirsi al resto del mondo. “Sapevamo di dover diversificare le nostre relazioni, aprirci, e questo significava liberare Aung San Suu Kyi”, ha dichiarato Thein Sein in un’intervista del 2012.

Nonostante questo le relazioni con la Cina sono rimaste salde. Molti osservatori ritengono impossibile che i generali abbiano organizzato un colpo di stato senza avvertire Pechino. Poche settimane fa, il ministro degli esteri cinese Wang Yi, di passaggio nel paese, aveva incontrato separatamente sia Min Aung Hlaing sia Suu Kyi e in quell’occasione il generale si era lamentato per i brogli elettorali. “Il modo in cui Stati Uniti e Cina affronteranno le conseguenze del colpo di stato determinerà le loro relazioni con il paese, oltre che varie dinamiche nella regione. Ma è improbabile che Pechino voglia essere l’unica protettrice della Birmania”, dice Yun Sun, direttore del programma cinese del centro studi statunitense Stimson. “La Cina è rimasta evasiva e neutrale, chiedendo moderazione e stabilità. Gli Stati Uniti sono stati più esigenti, chiedendo un passo indietro ai militari, il rilascio dei detenuti e il rispetto delle elezioni”.

Al di là di quel che farà la Cina, per il presidente statunitense Joe Biden il colpo di stato in Birmania è una sfida alla sua ambizione di ripristinare la fiducia nella democrazia statunitense. In un chiaro messaggio agli alleati e alla giunta birmana, Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti collaboreranno con i paesi partner per “sostenere il ripristino della democrazia e dello stato di diritto”. Fatto più significativo, ha espresso la sua volontà di reintrodurre le sanzioni contro la Birmania. Alcuni esperti avvertono che sarebbe controproducente. “Le sanzioni hanno ritardato le riforme, decimato la classe media emergente, rafforzato le tendenze isolazioniste e nativiste, e creato un contesto che rende meno probabile qualsiasi reale progresso verso la democrazia”, avverte lo storico Thant Myint U. “Potrebbero anche mettere pressione al nuovo regime ma in questa fase, data la grave sofferenza economica e le decine di milioni di persone che fanno i conti con una marcata povertà, potrebbero anche far precipitare il paese in un diffuso, forse incontrollabile, disordine sociale”, spiega. Oggi qualsiasi sanzione contro la Birmania colpirebbe un paese alle prese con le conseguenze delle misure di confinamento dovute alla pandemia, con una decisa perdita di posti di lavoro nei principali settori, dal tessile, alla lavorazione dei frutti di mare e fino al turismo. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1395 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati