Nell’estate del 1915, mentre il resto del mondo era travolto dalla guerra, gli abitanti di Old-Harry, nelle isole della Maddalena, erano impegnati a progettare una nuova chiesa. Avevano bisogno di legno e non era facile procurarselo in un posto quasi privo di alberi. Nel giro di pochi mesi, però, le loro preghiere furono esaudite: un mercantile norvegese che trasportava legname s’incagliò durante una tempesta a Brion, un’isola dell’arcipelago. Come per un intervento divino, i lavori della chiesa St. Peter’s-by-the-Sea cominciarono di lì a poco.
La sorte è stata a lungo benevola con gli abitanti, chiamati madelinot, sopravvissuti per secoli, contro ogni previsione, in questo arcipelago a forma di mezzaluna, sferzato dal vento, fatto di dune, spiagge e ripide scogliere. Più di cinquecento navi sono naufragate sugli scogli che circondano le isole, fornendo i materiali per costruire case, golette e perfino delle chiese.
Ho visitato le isole per la prima volta nel giugno di quest’anno, con un vecchio amico. Per noi cresciuti nelle province marittime (una regione orientale del Canada, sulla costa atlantica), ma anglofoni, le maggies – che vivono a sole cinque ore di traghetto dall’isola Principe Edoardo – sono state sempre quasi un paese straniero. Fanno parte del Québec e da anni sono un paradiso estivo dei francofoni. Non a caso molti miei amici anglofoni a cui ho detto del viaggio hanno dovuto cercare le isole su Google maps per capire dov’erano.
Il golfo di san Lorenzo, con le sue tempeste, le fitte nebbie e il vento incessante, contribuisce a rendere speciale questo posto. L’arcipelago è separato dal Nordamerica da questo enorme specchio d’acqua e sembra protetto da una barriera che lo isola dal resto del mondo. Lo si percepisce appena il traghetto lascia il porto di Souris, nell’isola Principe Edoardo.
Autosufficienza
A bordo nessuno parla di Donald Trump, dei dazi o della guerra in Medio Oriente. Le preoccupazioni sono circoscritte: portare la sangria sul ponte prima che la band di violini cominci a suonare. In quel contesto la poutine all’aragosta (piatto tipico del Québec con formaggio fuso e patate fritte) e salsa olandese sembra una scelta del tutto naturale per la colazione. “Quando sali su quella barca i problemi restano sul molo”, mi ha spiegato Frédéric Myrand, un isolano che dopo aver studiato lontano da casa è tornato a vivere qui.
I madelinot sono in gran parte discendenti francofoni degli acadiani (gruppo etnico del Canada nato con i primi colonizzatori francesi) che furono espulsi dalle province marittime nella grande deportazione voluta dai britannici alla metà del settecento, e che sanno convivere con il mare. Molte persone della minoranza anglofona discendono invece dai superstiti dei naufragi. Gli isolani hanno affrontato uragani, crisi della pesca e periodi d’isolamento portandoli a sviluppare un forte senso di autosufficienza.
“Altrimenti sarebbe difficile vivere qui”, ha spiegato Michel Boudreau, direttore del Musée de la mer (Museo del mare), nel caratteristico villaggio di La Grave. Il risultato di questo isolamento è un luogo tranquillo, incontaminato, unico e un po’ esotico.
Esclusi luglio e agosto è facile trovare una spiaggia tutta per sé, un tavolo libero in un ottimo ristorante o un sentiero spettacolare da percorrere in bici o a piedi senza incontrare nessuno. Non a caso il poeta Georges Langford definì Rochers aux Oiseaux, l’isola disabitata un tempo famosa come il cimitero delle navi, “l’indirizzo esatto della solitudine”.
L’arcipelago ha più di dodicimila abitanti e il turismo è un settore importante. Prima degli anni settanta, quando i traghetti hanno cominciato a imbarcare i veicoli privati, bisognava far trasportare la propria auto su una nave cargo. Nel 2023 le isole hanno accolto più di 63.500 turisti.
Con il nostro francese un po’ incerto ce la siamo comunque cavata, ma i madelinot sono generalmente accoglienti e molti di loro parlano inglese, anche se è un po’ stentato. Seduti sull’erba davanti al Café des Lupins, circondati da hipster sui vent’anni pieni di tatuaggi che sorseggiavano latte macchiato o vini naturali, nessuno ha fatto caso a noi due anglofoni di mezza età. Il bar serviva ottimi panini e lattine di una birra chiara locale fatta con acqua di mare, prodotta in un ex stabilimento di lavorazione dei granchi. È stato perfetto, ci sembrava di far parte di uno spot turistico.
A pranzo e a cena abbiamo sempre avuto ovunque piacevoli sorprese: poutine alla foca, al Café de la Grave di Havre-Aubert; un delizioso sushi di aragosta e salmone venduto da un furgoncino sulla spiaggia; ippoglosso (un tipo di pesce) arrosto al Resto bistro accents e infine una fumante zuppa di pesce servita in un ex convento, con dentro tantissime capesante.
I frutti di mare sono da sempre al centro della dieta dei madelinot, anche se l’oceano sta cambiando. Un tempo l’aringa era così abbondante che la baia diventava bianca quando i pesci deponevano le uova. Oggi qui resta un solo affumicatoio, Le fumoir d’antan, che prepara il pesce secondo il metodo tradizionale. Si tratta di un lungo procedimento artigianale che dura tre mesi, fatto in fienili di legno costruiti negli anni quaranta. Ma dopo decenni di pesca eccessiva e di cambiamenti climatici oggi le aringhe devono essere importate da Terranova. “Siamo in continua evoluzione e per noi è importante mantenere viva quest’attività”, spiega Éloi Arseneau, che fa parte della quarta generazione alla guida dell’affumicatoio. Arseneau offre anche visite guidate e vende un’ampia gamma di pesce affumicato.
Quasi ogni abitante ha una storia da raccontare su come il cambiamento climatico stia trasformando le isole, dove una tempesta può ridisegnare le scogliere di arenaria o far sparire le dune. Quando nel 2022 arrivò l’uragano Fiona spazzò via piste ciclabili e spiagge, sbriciolò le strade e allagò il negozio di canoe di Cindy Poirier: “A volte è stressante, ma non abbiamo scelta. Dobbiamo adattarci. In fondo, però, è quello che abbiamo sempre fatto”. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1635 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati