Immaginate di partecipare a un reality. Vi trovate in una casa di lusso, barocca quanto basta, con telecamere in ogni angolo e un cast prevedibile: il belloccio arrogante, la bionda svampita, la ragazza dal cuore d’oro. C’è solo un dettaglio: voi siete l’unico vero concorrente. Gli altri sono, a vostra insaputa, attori che seguono un copione. The Joe Schmo show (Tbs), tornato da poco sugli schermi statunitensi dopo dodici anni, smonta i meccanismi del reality, esponendone i cliché: le alleanze strategiche, le confessioni strappalacrime, le prove che sfidano il ridicolo. Mentre osserviamo l’impresa dell’ingannato, ci chiediamo come reagirà, presumendo il peggio. E qui accade la magia: è quasi sempre di una gentilezza disarmante. Fa amicizia con chiunque, consola chi piange, ascolta le altrui paturnie, affronta le prove con serietà e alla fine ringrazia tutti per la “migliore esperienza della sua vita”. In un contesto pensato per premiare il cinismo, l’umanità del malcapitato diventa l’intrattenimento centrale. La simulazione illumina l’autentico. Quando tutto è falso, e anche quando la finzione è firmata dalle migliori penne, quello che resta è il carattere della persona che da reale diventa vera, la fiducia che ripone negli altri. Una beffa involontaria per un format televisivo che sperava nel dramma vestito da esperimento sociale e invece si ritrova a stillare ottimismo vitaminico per questo nuovo settembre. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1630 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati