Il filosofo israeliano Gershom Scholem sosteneva che “nella storia ci sono ‘momenti plastici’, fasi cruciali in cui è possibile agire. E se si decide di farlo, qualcosa succede”. In quei momenti un ordine sociale fossilizzato diventa improvvisamente malleabile. L’immobilismo prolungato lascia spazio al movimento, e le persone cominciano a coltivare la speranza. Ma questi momenti sono rari. Si verificano se c’è un allineamento tra l’opinione pubblica, il potere politico e il corso degli eventi, e di solito richiedono una crisi. Dipendono dalla mobilitazione sociale e dalla capacità di comando. Possono arrivare e andarsene senza che le persone se ne accorgano, oppure andare sprecati. Se nessuno decide di agire, infatti, non succede niente.
Gli Stati Uniti stanno vivendo una di queste fasi? Sembra di sì. In questo momento gli statunitensi, nonostante i conflitti ideologici che attraversano la società, concordano su alcuni temi fondamentali. La maggior parte di loro vorrebbe che il governo garantisse una forma di assistenza sanitaria universale e facesse di più per affrontare la crisi climatica. Sono convinti che i ricchi dovrebbero pagare più tasse, che il razzismo sia un problema serio, che i lavoratori dovrebbero avere il diritto di iscriversi al sindacato, che gli immigrati diano un contributo positivo alla società e che il governo federale sia corrotto. Da anni le persone che la pensano così fanno parte di una solida maggioranza. La novità è che oggi sono pronti ad agire e chiedono un cambiamento. Perché proprio ora? La prima risposta riguarda il fatto che negli ultimi quattro anni il paese è stato guidato da Donald Trump, un presidente corrotto, intollerante e incapace che ha tradito la promessa, fatta in campagna elettorale, di difendere l’americano medio. Ma di certo ha influito anche l’avvento di una nuova generazione molto influente, i millennial, cresciuti tra guerre fallimentari, istituzioni indebolite e crisi economiche, e diventati per questo più cinici e al tempo stesso più idealisti dei loro genitori.
E poi, naturalmente, ci sono i mali collettivi che durano da anni e non sono mai state curati, così radicati da sembrare cronici: le disuguaglianze di reddito, l’inefficienza del governo, gli abusi della polizia, il tessuto sociale sfaldato e un dibattito pubblico tossico che segnala un declino cognitivo nazionale. A tutto questo nel 2020 si sono aggiunte altre crisi arrivate apparentemente dal nulla, come una scarica di pugni alle spalle. Queste crisi, conseguenza dei mali collettivi, hanno rivelato al mondo i fallimenti della società statunitense.
Una disastro dopo l’altro
Il 2020 è cominciato con la procedura d’impeachment nei confronti di Trump, che si è conclusa con l’assoluzione anche se il presidente era chiaramente colpevole. Poi sono arrivati la pandemia di
covid-19, il caos negli ospedali, le città deserte, le teorie del complotto sostenute dalla Casa Bianca, decine di migliaia di morti, la disoccupazione di massa, gli omicidi della polizia, le proteste in centinaia di città, una seconda ondata di covid-19, altri morti, altri danni economici e uno stravolgimento della normalità che sembra non avere fine. Come se non bastasse, si avvicina un’elezione presidenziale da cui dipende il destino del paese.
Per la sua concentrazione di eventi drammatici, il 2020 è spesso paragonato al 1968. Quell’anno segnò la fine di un’era di riforme e l’inizio di una controffensiva conservatrice andata avanti per decenni. All’epoca il problema fondamentale era il rischio di un crollo dell’ordine costituito, mentre nel 2020 è la mancanza di solidarietà. Anche se la maggioranza degli elettori concorda sui temi centrali, la percezione di essere tutti sulla stessa barca è molto debole. Gli statunitensi sono famosi nel mondo per la fede nell’individualismo, e negli ultimi cinquant’anni le loro libertà si sono estese in ogni campo: personale, sociale, finanziario e tecnologico. Ma la pandemia sta dimostrando in modo quasi scientifico i limiti di questo modello. Tutti sono vulnerabili. La salute di ognuno dipende dalla salute degli altri. Nessuno può essere al sicuro a meno che tutti si assumano la responsabilità del benessere collettivo. Nessuna persona, comunità o stato può reggere l’impatto di questi tempi di crisi senza un governo nazionale competente e attivo.
La storia del covid-19 negli Stati Uniti è una sequenza di momenti in cui questa lezione è stata ignorata, in cui i politici hanno rifiutato il parere degli esperti, i governatori hanno messo fine ai lockdown troppo presto e le persone si sono ammassate nei luoghi pubblici. Il grafico che mostra la curva dei nuovi contagi – in graduale calo alla fine della primavera, poi in rapida risalita in estate – è l’illustrazione perfetta di una leadership inefficace e di un’ideologia dannosa. La vergogna non è un sentimento che gli statunitensi si concedono facilmente, ma lo spettacolo di un tasso di contagi che ha superato quelli di India e Brasile (mentre negli altri paesi ricchi era in calo) ha causato un’ondata di mortificazione nel paese e di pietà e disprezzo all’estero.
“Il covid-19 ha mostrato a chiunque abbia gli occhi aperti che i nostri sistemi sono inadeguati, se non al collasso”, sostiene Maurice Mitchell, direttore del partito di sinistra Working families party. “Oggi quasi tutti i trecento milioni di statunitensi vivono in una condizione di sconforto e si fanno domande filosofiche che di solito circolano solo negli ambienti accademici: ‘Chi sono in relazione alla mia società? Qual è il ruolo del governo? A cosa serve l’economia’?”.
Le statistiche drammatiche sui disoccupati, sulle persone che non hanno da mangiare, sugli sfollati e sui morti hanno costretto il paese a ripensare la sua organizzazione politica e sociale. I numeri sono un invito quotidiano al cambiamento radicale. “Ci troviamo in un momento storico decisivo, uno di quelli che si presentano una volta ogni cinquant’anni”, sostiene Michael Bennet, senatore democratico del Colorado. “Abbiamo l’occasione di preparare il terreno per decenni di politiche di sinistra e migliorare la vita di decine di milioni di persone”.
Ma in questa opportunità non c’è niente di inevitabile, e forse neanche di probabile. Le elezioni potrebbero generare altro caos o perfino concludersi con una nuova vittoria di Trump e del suo partito. E anche se sarà eletto presidente Joe Biden, il candidato democratico, il senato a maggioranza repubblicana potrebbe ostacolare le sue politiche più di quanto abbia fatto la minoranza repubblicana ai tempi di Barack Obama. Inoltre, anche se i democratici dovessero controllare sia la Casa Bianca sia il congresso, dovrebbero comunque affrontare la resistenza feroce dell’opposizione che cercherebbe di riconquistare il potere perduto. La pressione del mondo della finanza e della tecnologia potrebbe indebolire lo sforzo riformista dei democratici, mentre la tendenza alle divisioni della sinistra rischierebbe di spaccare il partito.
Programma ambizioso
In ogni caso, una fase di rinnovamento nazionale si aprirà solo se a novembre i repubblicani saranno nettamente sconfitti. Un’amministrazione e un congresso democratici dovrebbero approvare rapidamente leggi coraggiose per favorire la ripresa economica, creare posti di lavoro, espandere lo stato sociale e il diritto di voto. Ma questa nuova era non arriverà inevitabilmente, come un pendolo che oscilla secondo le leggi della fisica. Ci vorrà qualcosa di più del trionfo di un candidato, di un partito o di un programma politico. Gli ostacoli vanno al di là della politica, così come l’opportunità che si presenta al paese. Il tracollo è stato così completo da creare un varco in cui gli interrogativi filosofici alimentati dalla disperazione permettono di immaginare un paese nuovo.
Le narrazioni del passato sono inutili. Per ottenere un cambiamento reale e per consentire alla vergogna nazionale di trasformarsi in orgoglio c’è bisogno di un programma radicale infuso di spirito patriottico. Gli statunitensi devono resuscitare l’elemento che ha sempre tenuto in piedi il loro paese, così esteso e variegato: la fede nella democrazia.
Il 2020 è cominciato con le primarie del Partito democratico, che hanno mostrato un disaccordo profondo tra i candidati. Ore di dibattiti in tv sono state dedicate a discutere se l’assistenza sanitaria debba essere pubblica e universale o basata su un sistema misto pubblico e privato; o se bisogna limitarsi a trattare meglio gli immigrati senza documenti o invece depenalizzare l’immigrazione irregolare.
Oggi questi dibattiti sembrano irrilevanti. Un effetto peculiare delle crisi del 2020 è stato quello di creare, all’interno del Partito democratico, un forte sostegno per il più ambizioso programma riformista dai tempi degli anni sessanta, con Biden come improbabile portabandiera.
Il covid-19 è arrivato proprio mentre Biden si assicurava la vittoria alle primarie, a marzo. A metà aprile 30mila statunitensi erano morti e altri 22 milioni avevano perso il lavoro. A quel punto un gruppo di consulenti ha cominciato a discutere con Biden le priorità da fissare per combattere entrambe le catastrofi. Poi i consulenti si sono rivolti a persone esterne alla campagna elettorale: nei sindacati, nelle università, nei centri studi, nelle piccole aziende.
All’inizio di maggio Neera Tanden, presidente del Center for american progress, ha scritto un saggio intitolato A new social contract for the 21st century (un nuovo contratto sociale per il ventunesimo secolo). Tanden ha inviato una bozza del suo programma alle persone incaricate di gestire la campagna elettorale di Biden, che hanno trovato le sue idee molto interessanti. Le tesi di Tanden nascono dalla sua esperienza della pandemia: “Per rispondere al virus dobbiamo rafforzare i nostri anelli più deboli. La pandemia ci lega tutti insieme, più di qualsiasi disastro naturale o economico”. Tanden propone di riconsiderare il patto implicito tra cittadini, aziende e stato in modo da cancellare le debolezze evidenziate dal covid-19.
Un “nuovo contratto sociale” garantirebbe più protezioni ai cittadini sotto forma di agevolazioni universali: dal congedo pagato per malattia e motivi familiari all’assistenza sanitaria pubblica. Obbligherebbe le aziende a considerare gli interessi dei lavoratori e delle comunità oltre che degli azionisti (che si fanno carico del rischio economico solo fino a quando una crisi finanziaria o una pandemia rendono necessario un salvataggio con i soldi dei contribuenti). Inoltre il governo dovrebbe stanziare fondi enormi per affrontare la disoccupazione di massa e creare milioni di posti di lavoro in diversi settori, dal manifatturiero all’assistenza, dall’istruzione alle energie pulite. Tanden considera queste proposte come un aggiornamento del new deal, il contratto sociale che negli anni trenta rafforzò il ruolo dello stato per spostare il carico del rischio economico dall’individuo alla collettività.
Le idee contenute nel saggio di Tanden non sono nuove. La maggior parte di questi concetti circola da anni nei saggi pubblicati da alcuni centri studi e in effimere proposte di legge presentate dai democratici al congresso. La loro base filosofica risale ad almeno un secolo fa. Ma le trasformazioni politiche non arrivano quando una nuova idea fulminante appare dal nulla. Il new deal, nonostante la grande apertura del presidente Franklin Delano Roosevelt verso la sperimentazione, fece semplicemente germogliare i semi piantati dal Partito populista e dalle forze di sinistra nei decenni precedenti.
Idee da coltivare
La rivoluzione conservatrice del presidente Ronald Reagan, negli anni ottanta, realizzò idee emerse nel secondo dopoguerra. Davanti all’inerzia istituzionale, le idee politiche hanno sempre bisogno di tempo per maturare. Negli Stati Uniti la destra sembra averlo capito, la sinistra no. L’economista premio Nobel Milton Friedman, una delle forze intellettuali che permisero l’affermazione di Reagan, scrisse che “solo una crisi, reale o percepita, può produrre un cambiamento concreto. Quando questa crisi si verifica, le azioni che vengono intraprese dipendono dalle idee già esistenti. Questa è la nostra principale funzione: elaborare alternative alle politiche esistenti e mantenerle vive e disponibili fino a quando il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile”.
Mentre i collaboratori di Biden mettevano a punto il suo programma di politica interna, George Floyd, un afroamericano di 46 anni, è stato ucciso da un agente di polizia a Minneapolis e il paese è stato travolto dalle proteste contro le ingiustizie razziali. Durante le primarie Biden si era presentato come il candidato degli anni di Obama. Ma l’orologio della storia non torna mai indietro, e la situazione precedente non è all’altezza della disperazione attuale. La pandemia e le proteste hanno costretto Biden a cambiare linea politica.
Nel corso dell’estate – mentre il virus continuava a flagellare il paese, la recessione si aggravava e le strade si riempivano di manifestanti – il candidato democratico ha presentato il cuore del suo piano economico in una serie di discorsi. La portata di questo programma è impressionante. Al centro di tutto c’è un grande piano per l’occupazione: l’amministrazione Biden investirebbe duemila miliardi di dollari nelle infrastrutture e nelle energie pulite; punta a creare tre milioni di posti di lavoro nell’istruzione primaria, nei servizi per l’infanzia e nell’assistenza agli anziani (settori considerati meno importanti e di solito ignorati durante le campagne elettorali), impegnandosi contemporaneamente a migliorare le condizioni di lavoro e i salari.
Altri 700 miliardi di dollari sarebbero stanziati per stimolare la domanda e l’innovazione nella produzione nazionale in settori cardine come le forniture mediche, la microelettronica e l’intelligenza artificiale. Circa trenta miliardi servirebbero a sostenere le aziende controllate dalle minoranze, nell’ambito di un piano più ampio per ridurre le disuguaglianze di reddito su base razziale.
Biden propone una politica industriale, cioè grandi investimenti mirati per ristrutturare il sistema produttivo e andare incontro agli obiettivi nazionali. È un approccio che nessun presidente ha sostenuto apertamente dopo gli anni quaranta. Inoltre il suo programma darebbe più potere ai lavoratori, perché introdurrebbe il congedo retribuito per malattia e motivi familiari, consentirebbe ai dipendenti di scegliere l’assistenza sanitaria pubblica e renderebbe più facile creare sindacati o iscriversi a quelli esistenti. Il programma prevede che il salario minimo federale passi da 7,25 dollari all’ora a 15 dollari. L’argomento era stato motivo di scontro tra Hillary Clinton e Bernie Sanders nel 2016, ma oggi nel partito sono tutti d’accordo.
Nel programma di Biden è difficile trovare riferimenti al libero mercato. Nonostante il suo passato da moderato, l’ex vicepresidente ha presentato un piano economico che manderebbe in soffitta il timido approccio alle riforme seguito dai democratici negli ultimi decenni.
Gli statunitensi sono tendenzialmente più progressisti sui temi economici che su quelli sociali e culturali. Su questo secondo fronte Biden è rimasto a destra rispetto agli attivisti del suo partito. L’ex vicepresidente propone di riformare e demilitarizzare la polizia ma non di tagliarle i fondi; vuole rimuovere le statue che celebrano la confederazione sudista ma lasciare al loro posto i monumenti ai presidenti; sostiene che non bisogna vietare l’estrazione di gas e petrolio attraverso il fracking ma limitarsi ad approvare nuove regolamentazioni. Per il momento le fratture nel partito sono nascoste dalla lotta contro Trump. I democratici si sono compattati dietro proposte che ridurrebbero le disuguaglianze e riscriverebbero il contratto sociale più di quanto abbia mai fatto qualsiasi amministrazione in epoca moderna.
Dopo che i collaboratori di Biden e di Sanders si sono riuniti per scrivere un programma politico di 110 pagine, Sanders ha dichiarato: “Penso che il compromesso raggiunto, se sarà messo in pratica, farà di Biden il presidente più progressista dai tempi di Roosevelt”. A un certo punto anche Biden ha accettato il paragone. “Sono convinto che abbiamo raggiunto un momento decisivo nella storia degli Stati Uniti, non diverso da quello affrontato da Roosevelt”, ha dichiarato a luglio. “Abbiamo l’opportunità di creare un cambiamento strutturale”. In queste dichiarazioni non troviamo né il linguaggio entusiasmante di un leader visionario né la retorica dottrinaria di un ideologo, ma il tono prosaico di un politico di professione abbastanza scaltro per capire che alle sue spalle soffia un vento potente.
Biden non ha un orientamento ideologico chiaro e si è sempre sentito a suo agio nella corrente moderata del suo partito. Ma in questo momento i democratici (e il paese) si sono spostati a sinistra, e lui li ha seguiti. Barack Obama si era candidato presentandosi come un idealista e ha governato come un tecnico, deludendo gli elettori più giovani e progressisti. Biden potrebbe seguire il percorso opposto. Se dovesse vincere, vivrà una lotta quotidiana tra l’istinto che lo porta verso le politiche del passato e l’esigenza di realizzare qualcosa di nuovo.
Completare il lavoro
Durante il novecento gli Stati Uniti hanno vissuto tre epoche di riforme, e ognuna presenta tratti che ritroviamo oggi. La prossima epoca di riforme dovrà recuperare il meglio di quelle tre fasi storiche.
L’era progressista del primo novecento è stata quella meno connotata dal punto di vista ideologico. Non c’era un leader o un tema di riferimento e in entrambi i partiti c’erano sostenitori di proposte di sinistra, prese dai populisti e dai socialisti e che furono il motore di una fase di riforme locali in ogni regione del paese. Il progressismo, in quel caso, fu più un impulso che un programma, frutto di un risveglio morale della maggioranza degli statunitensi della classe media, consapevoli del fatto che il paese si era allontanato dalle sue origini democratiche.
I progressisti si preoccupavano soprattutto del potere delle grandi aziende, della corruzione a ogni livello del governo e della situazione nelle grandi città, dove la criminalità organizzata imperversava, i poveri vivevano in baraccopoli e le fabbriche sfruttavano i lavoratori. Le nuove condizioni della vita moderna – industrializzazione, innovazioni tecnologiche, immigrazione di massa – avevano spinto le persone di sinistra ad agire, ma non si trattava di rivoluzionari. La loro risposta principale ai problemi sociali era provare a creare cittadini migliori.
La sinistra ha sviluppato l’abitudine di sopravvalutare la propria forza
“Siamo profondamente turbati”, scrisse nel 1914 il giornalista Walter Lippmann nel suo manifesto progressista Drift and mastery. “Non esiste rapporto umano – tra genitore e figlio, marito e moglie, datore di lavoro e dipendente – che non sia avviato verso una situazione problematica”. Lippmann proponeva di rimettere la libertà destabilizzante della vita moderna sotto il controllo della scienza, incarnata da esperti, dirigenti e leader lungimiranti. Tuttavia, nel suo studio sulla vita negli Stati Uniti i neri sono citati raramente. La maggior parte dei progressisti non vedeva l’ingiustizia razziale. Alcuni di loro, a cominciare da Woodrow Wilson (presidente tra il 1913 e il 1921) erano persone evidentemente razziste e credevano alle teorie dell’eugenetica. Invece di costruire partendo dalle conquiste dell’era della ricostruzione – il periodo di riforme cominciato dopo la guerra civile – il movimento progressista del primo novecento si limitò a rafforzare una democrazia fatta esclusivamente per gli americani bianchi.
Circa vent’anni dopo, il new deal, nato dalla peggiore crisi economica nella storia del paese, trasformò in politiche nazionali molte idee progressiste, come l’indennità di disoccupazione, il salario minimo e la contrattazione collettiva. Il movimento dei lavoratori e il Partito comunista avevano creato alleanze tra varie comunità e gruppi etnici, ma i programmi di Roosevelt furono messi in atto da un congresso che mantenne in vigore la segregazione razziale e decise di non estendere le protezioni sociali ai neri e ad altri cittadini emarginati, come i lavoratori domestici, gli agricoltori e i lavoratori saltuari. Ancora oggi, nei momenti di crisi economica i lavoratori continuano a precipitare in questi buchi nella rete di sicurezza sociale.
Senso di colpa
Poi, durante l’amministrazione di Lyndon Johnson, fu la volta del programma di riforme passato alla storia come great society, il cui motore fu il movimento per i diritti civili. Johnson era una creatura del senato, una figura istituzionale sia in senso positivo sia in senso negativo, e si era candidato senza successo alla presidenza. La sua carriera sembrava essersi conclusa nel purgatorio della vicepresidenza. Quando prese il posto di John F. Kennedy – un altro presidente della serie “da visionario a tecnico” – Johnson fu attaccato da molti progressisti che lo consideravano un texano rozzo, un politico mediocre e un bigotto. Eppure Johnson riuscì a rilanciare il programma di Kennedy sui diritti civili e la povertà, e fu capace di realizzarlo attraverso una serie di leggi e iniziative per la giustizia sociale che negli Stati Uniti non si erano mai viste dopo gli anni trenta. Poteva contare su due vantaggi rispetto a Kennedy: una conoscenza profonda del congresso e l’atmosfera di crisi causata dalle proteste di piazza. Le analogie con Biden sono piuttosto evidenti.
Così come il new deal aveva realizzato le idee del movimento progressista di inizio secolo, la great society cercò di estendere quei provvedimenti a tutti i cittadini degli Stati Uniti. Ma presto fu cancellata dalle rivolte urbane, dal trionfo repubblicano alle elezioni di metà mandato del 1966 e dalla catastrofe del Vietnam. La coalizione che chiedeva le riforme – organizzazioni per la difesa dei diritti civili, sindacati, pacifisti, politici di sinistra – crollò mentre il paese ribolliva, e la sinistra si divise in una miriade di fazioni che diventarono sempre più estremiste.
Come negli Stati Uniti di inizio secolo, anche in quelli di oggi c’è un problema con i monopoli delle grandi aziende, che hanno fanno aumentare le disuguaglianze e minacciano la democrazia. Come gli anni trenta, anche l’ultimo decennio è stato segnato dalla disoccupazione di massa, che ha messo in mostra la vulnerabilità dei lavoratori. Come negli anni sessanta, anche oggi l’ingiustizia alimenta l’attivismo di una generazione nuova e dinamica.
In quasi tutti i movimenti di riforma nella storia degli Stati Uniti c’era una venatura di puritanesimo, una tendenza alla contrizione così potente da sostituirsi, in alcuni casi, allo sforzo per generare cambiamenti reali. Questi movimenti sono sempre nati da proteste dal basso – gli agricoltori impoveriti, i lavoratori in sciopero, i neri emarginati del sud – e poi hanno coinvolto la classe media, che ha sposato la causa con quella che lo storico Richard Hofstadter chiamava “un’energica purificazione morale”. Un senso di colpa individuale che produce un fervore quasi religioso nell’affrontare i problemi sociali e politici, oltre a un desiderio di redenzione che si manifesta attraverso la solidarietà con gli oppressi. All’inizio del secolo gli attivisti di sinistra andavano nelle baraccopoli per far conoscere al paese le condizioni di vita vergognose degli immigrati. Negli anni trenta i comunisti borghesi esaltavano il proletariato e sacrificavano l’indipendenza intellettuale sull’altare del volere del partito. Negli anni sessanta gli studenti bianchi delle università si unirono alla lotta dei neri del sud e poi decisero che volevano anche loro una liberazione, prendendo il controllo dei campus e dei corsi di studio.
Una linea chiara
Negli ultimi anni si sono visti molti segnali di un nuovo risveglio morale. Nel 2011 c’è stato il movimento Occupy Wall street, con la sua scintilla utopica, poi sono arrivate le mobilitazioni di Black lives matter, che hanno segnato la fine della presidenza Obama, e infine ci sono state le due campagne elettorali di Sanders, una rampa di lancio per le idee anticapitaliste diffuse tra i giovani. L’elezione di Trump ha accelerato questo risveglio: la marcia delle donne, l’ascesa dei gruppi di resistenza contro il presidente (composti soprattutto da donne borghesi fino a quel momento non particolarmente attive dal punto di vista politico), il movimento #MeToo, le manifestazioni contro il divieto d’ingresso nel paese alle persone provenienti da paesi a maggioranza musulmana e le politiche repressive alla frontiera con il Messico e infine una nuova ondata di mobilitazioni antirazziste.
Oggi le nuove idee di sinistra sono nelle strade, nelle aule, sui social network, insomma dovunque tranne nelle istituzioni che hanno il potere per risolvere i problemi. Questo movimento ha tracciato una linea chiara che collega i crimini storici con le disuguaglianze di oggi. Ha drammaticamente cambiato il modo in cui gli statunitensi pensano, parlano e agiscono, ma non le condizioni in cui vivono. Il movimento non ha un tema centrale o un programma, e nemmeno un leader carismatico che possa dare una direzione e un senso di coerenza. Si limita a riflettere la sfiducia che definisce la cultura statunitense di oggi: c’è qualcosa di profondamente sbagliato, la nostra società è ingiusta, le nostre istituzioni sono corrotte.
Le proteste raccontano l’agonia di un impero capitalista in declino, o i primi vagiti della prima democrazia realmente multietnica del mondo. “In tutte le epoche emerge un tema centrale”, sottolinea lo storico Michael Kazin, autore di diversi saggi sulla sinistra statunitense. “Non sono sicuro di quale sia oggi, ma mi piace pensare che sia una combinazione tra lotta ai monopoli e volontà di aiutare i lavoratori ad avere una vita migliore”. Secondo Kazin, oggi internet rende più difficile creare unità e individuare obiettivi chiari. “Sono abbastanza all’antica da pensare che questo sia un aspetto rilevante”.
◆ Il 3 novembre 2020 negli Stati Uniti si terranno le elezioni presidenziali. Donald Trump, del Partito repubblicano, sfiderà Joe Biden, candidato del Partito democratico. L’elettorato chiamato alle urne (224 milioni di persone) sarà il più giovane della storia: tre elettori su dieci appartengono alla generazione dei millennial, le persone nate tra l’inizio degli anni ottanta e la metà degli anni novanta; uno su dieci fa parte della generazione Z, le persone che hanno tra i 18 e i 23 anni.
◆Il 3 novembre si voterà anche per rinnovare la camera dei rappresentanti (controllata dai democratici) e un terzo del senato (in mano ai repubblicani). Secondo il sito di previsioni FiveThirtyEight, Biden ha il 78 per cento di possibilità di diventare presidente. Quattro anni fa, a un mese dalle elezioni presidenziali, lo stesso sito aveva assegnato a Hillary Clinton il 67 per cento di possibilità di vincere. Clinton era stata poi sconfitta da Trump. I sondaggi indicano anche che i democratici dovrebbero conservare il controllo della camera e sono leggermente favoriti per conquistare il senato.
◆ A causa della pandemia di covid-19 saranno molte di più le persone che voteranno per posta, quindi in alcuni stati le operazioni per il conteggio dei voti saranno più lente e macchinose. Per conoscere il risultato del voto potrebbero volerci giorni o perfino settimane.
◆ Negli ultimi giorni la campagna elettorale è stata segnata dalle rivelazioni del New York Times secondo cui Trump è riuscito per anni a non pagare le tasse, e dalla nomina di una nuova giudice alla corte suprema. Per sostituire Ruth Bader Ginsburg, morta il 18 settembre a 87 anni, Trump ha scelto Amy Coney Barrett. Cattolica e molto conservatrice, Barrett potrebbe spostare ulteriormente a destra l’orientamento della corte suprema. La sua nomina dovrebbe essere confermata dal senato, nonostante le proteste dei democratici che chiedono ai repubblicani di non nominare una nuova giudice prima delle elezioni.
◆Il 29 settembre c’è stato il primo dibattito televisivo tra Biden e Trump. Il presidente ha interrotto ripetutamente il suo avversario, che a un certo punto ha risposto definendolo un “pagliaccio”. Trump ha detto che tra poche settimane sarà diffuso un vaccino contro il covid-19, anche se gli stessi esperti della Casa Bianca hanno spiegato che bisognerà aspettare il prossimo anno. Inoltre si è rifiutato di prendere le distanze dai gruppi di estrema destra, sostenendo che la violenza arriva soprattutto dalle organizzazioni di sinistra, e ha di nuovo fatto capire che potrebbe non accettare il risultato delle elezioni perché è convinto che il voto per posta potrebbe causare brogli. In realtà gli studi sulle elezioni passate dimostrano che il voto per posta è sicuro.
Criticare e costruire
Gli ultimi dieci anni sono stati segnati da mobilitazioni sociali che non hanno ottenuto risultati tangibili, ma ogni nuova protesta aumenta la pressione per un cambiamento radicale. Anche se Donald Trump dovesse perdere le elezioni a novembre – e passare la sua vecchiaia tra piagnistei sui social network e problemi legali – la pressione non diminuirà. Al contrario, è probabile che con Biden alla Casa Bianca le proteste andranno avanti, forse più accese che mai, perché grandi speranze portano inevitabilmente a grandi delusioni. La maggior parte dei giovani statunitensi non ha mai conosciuto una forma di attività politica diversa dalla protesta.
Kazin, che ha studiato il tramonto dei movimenti degli anni sessanta, teme che “la sinistra possa pretendere troppo dall’amministrazione Biden o condannarla prematuramente”. In un momento in cui il partito si muove in una direzione progressista, Biden avrà più difficoltà rispetto a Obama nel gestire la pressione proveniente da sinistra. Tuttavia, a differenza di Sanders o di Hillary Clinton, l’ex vicepresidente non è una figura controversa, e la vaghezza delle sue posizioni potrebbe permettere ai venti trasversali della politica di soffiargli intorno senza abbattere l’edificio delle riforme.
Con un’amministrazione democratica la sinistra dovrebbe inevitabilmente passare dalla critica alla costruzione di una coalizione, e potrebbe essere combattuta tra l’impulso ad avviare una trasformazione culturale attraverso un risveglio della coscienza e un impulso a riformare le istituzioni da dentro. Se arriverà alla Casa Bianca, Biden dovrà affrontare una grave crisi sanitaria e di occupazione. Se la sinistra lo spingerà con forza verso provvedimenti culturalmente divisivi – come la depenalizzazione dell’immigrazione irregolare e la riduzione dei fondi per la polizia – comprometterà la possibilità di una trasformazione economica e politica epocale. Le politiche identitarie, sempre più centrali a sinistra, hanno un difetto politico congenito: dividono le comunità invece di unirle, limitandosi ad attaccare le ingiustizie del presente e del passato invece di proporre una visione del futuro.
Maurice Mitchell del Working families party, molto vicino alle istanze dei sindacati e del movimento Black lives matter, immagina una coalizione ampia e multietnica di progressisti, sia interna sia esterna al Partito democratico. “Ma in questo momento siamo frammentati”, sostiene. “Dobbiamo evitare il settarismo e il cinismo. Ed è indispensabile creare una solidarietà che possa contrastare quella che esiste tra i bianchi: un’alleanza composta dalla maggioranza delle persone nere e ispaniche, da chi si definisce di sinistra e dal 15 per cento dei bianchi della classe operaia. A quel punto potremo sconfiggere il Partito repubblicano”. A proposito di Biden, dice: “Non credo che sia un compagno. Ma credo che sia un politico flessibile e che possa evolversi in base alla realtà politica del nostro tempo. Il prossimo governo, di qualunque orientamento sarà, dovrà trovare un modo per riportare al lavoro decine di milioni di statunitensi. Mettendo da parte l’ideologia, è indispensabile che l’esecutivo ricopra un ruolo attivo nella vita delle persone. Serve un governo che faccia grandi cose”.
La sinistra ha l’abitudine di sopravvalutare la propria forza (come evidenziato dal trauma per la sconfitta di Sanders), oltre al vecchio vizio di allontanare i potenziali alleati presentando idee condivisibili in termini ostili. “A sinistra c’è da tempo la tendenza a concentrarsi su cause marginali invece di costruire un programma per la classe operaia largamente condivisibile”, sostiene Bhaskar Sunkara, direttore della rivista socialista Jacobin. La strategia di Sunkara è diversa da quella di Mitchell, perché si concentra sul concetto di classe. “Alla fine dei conti la politica deve accogliere tutti. I maschi bianchi rappresentano un terzo dell’elettorato. L’antirazzismo non deve essere un concetto vago. Dev’essere collegato a soluzioni materiali”. Sunkara si riferisce a politiche come il _new deal _verde, l’assistenza sanitaria pubblica e i servizi per l’infanzia estesi a tutte le famiglie, misure che aiuterebbero i lavoratori, soprattutto i più svantaggiati. Non si fida dei messaggi di inclusività lanciati dalle aziende. “Non possiamo permettere che le multinazionali sfruttino i temi della diversità e dell’antirazzismo per colpire i lavoratori. Far parte di un movimento operaio significa difendere i diritti dei lavoratori, anche se razzisti o fanatici. Dobbiamo trovare il modo di coinvolgerli e rafforzare la coscienza di classe”.
Le virtù degli emarginati
Quello di Biden è un programma per la classe operaia senza una coalizione operaia. I bianchi senza istruzione universitaria restano la base di Donald Trump. Molti progressisti li guardano con disprezzo, come se fossero una marea indistinguibile di razzisti irrecuperabili. Anche se negli ultimi mesi tutti gli operai hanno sofferto molto, è difficile immaginare che Biden possa tenere insieme una coalizione tra bianchi e minoranze. Per crearla, infatti, servirebbero la percezione di un interesse comune, molta fiducia reciproca e la condivisione di un’idea di paese che al momento non esiste. Ma è altrettanto difficile immaginare un’era di riforme prolungate senza un’alleanza simile. Questo blocco sociale emergerà solo se gli statunitensi vedranno un governo che lavora per loro, che cerca di migliorare la loro vita e che concede a tutti la possibilità di esprimersi.
Di sicuro oggi non mancano i programmi, le idee politiche e i movimenti. Manca la capacità di unirsi come cittadini liberi e uguali di una democrazia. Mancano il senso d’identità nazionale e la fede civica che potrebbero stimolare il rinnovamento. Valutando il passato o il futuro degli Stati Uniti non possiamo permetterci di essere innocenti come lo erano le persone progressiste all’inizio del novecento. Nel 1914 Walter Lippmann invocava un “dominio” delle nuove forze e delle nuove libertà create dal mondo moderno. Oggi il paese è afflitto da qualcos’altro, un senso di disintegrazione. Le riforme radicali sono una condizione necessaria per una crescita nazionale. Quali sono i sogni democratici del lavoratore non sindacalizzato di un magazzino Amazon, costretto a fare gli straordinari con la febbre e ad affidare i figli alla madre anziana? “Non possiamo pretendere virtù civica dalle classi emarginate”, scriveva Lippmann.Oggi tra gli emarginati ci sono molti sostenitori di Trump. Se il presidente perderà le elezioni, saranno incattiviti dalla sconfitta e sicuramente non sarà facile fargli cambiare opinione. Non si può neanche escludere che alcuni abbandonino il carnevale del “Make America great again” e facciano ricorso alla violenza armata.
L’esperienza di un governo competente e funzionante, capace di garantire opportunità e giustizia agli statunitensi penalizzati dalla globalizzazione, inietterebbe un antidoto nelle vene del paese. Il corpo continuerebbe a soffrire, ma i livelli di tossicità si ridurrebbero abbastanza da consentire un periodo di convalescenza. Nessuno abbandonerebbe le proprie convinzioni più profonde e irrazionali, ma la temperatura scenderebbe un po’, e si aprirebbe la possibilità di riparare il contratto sociale invece di strapparlo in pezzi ancora più piccoli.
Ma un programma legislativo ambizioso non è sufficiente, perché il problema va ben oltre il governo. Gli statunitensi hanno perso fiducia nelle istituzioni, gli uni negli altri e nella democrazia. Tutto sembra tramare contro i cittadini: i grandi patrimoni, i funzionari indifferenti, le oscure regole elettorali, l’odio reciproco, la costituzione. L’unico rimedio è esercitare muscoli che sono ormai atrofizzati. Non solo con il voto ma immaginando un paese in cui vivere insieme. Gli statunitensi devono tornare a comportarsi da cittadini.
Nel 2019 una commissione creata dall’Accademia americana delle arti e delle scienze ha dialogato per mesi con una serie di organizzazioni sparse per il paese. La disaffezione nei confronti della democrazia è emersa in modo quasi universale, ma lo stesso vale per il desiderio di ricollegarsi a un’identità unificante. A giugno la commissione ha pubblicato un rapporto intitolato “Il nostro obiettivo comune”. Il rapporto conteneva trentuno proposte, alcune piuttosto coraggiose. Tra le misure ipotizzate c’erano riforme che renderebbero le istituzioni più rappresentative: aumentare il numero di deputati alla camera dei rappresentanti, mettere fine al _gerrymandering _(la pratica di ridisegnare i collegi elettorali in modo da favorire un partito), modificare la costituzione per ridurre il peso dei contributi delle aziende nelle campagne elettorali e introdurre un limite di 18 anni per la durata del mandato dei giudici della corte suprema.
Sconforto e ottimismo
Altre proposte sono state pensate per cambiare la cultura politica: facilitare il voto (e renderlo obbligatorio), mettere in contatto gli elettori con i loro rappresentanti, formare dei leader di comunità in tutto il paese, trasformare i social network in uno spazio pubblico più costruttivo e creare una cittadinanza attiva attraverso l’educazione civica. Lo scopo, in questo caso, non è portare a termine una causa di parte ma assicurarsi che gli statunitensi diventino cittadini attivi. “La democrazia funziona solo se un numero sufficiente di persone crede che funzioni”, sottolinea Eric Liu, copresidente della commissione che ha curato il rapporto.
Idee come queste – alcune nuove, altre in circolazione da decenni – emergono nei momenti cruciali. Sono segnali di un momento plastico.
Ho cominciato a scrivere questo articolo in uno stato di grande sconforto. Quel sentimento era diventato ormai familiare, quasi confortevole, tanto da farmi vergognare di me stesso e del mio paese. Ma dato che non posso abbandonare né me stesso né il mio paese, ho cercato di pensare al futuro e al passato. E sono arrivato a questa conclusione: gli statunitensi hanno ancora un’ultima possibilità per resuscitare la democrazia. Sarà come una delicatissima terapia medica, con interventi chirurgici appropriati, nella sequenza appropriata, con velocità appropriata: amputazione, trasfusione, trapianto multiorgano, stabilizzazione, riabilitazione. Ogni passo sarà estremamente difficile, e non se ne può sbagliare neanche uno, né aspettare un altro momento. Eppure, scrivendo, sono arrivato a uno stato mentale che riesco a riconoscere. La speranza. L’America è già stata ricostruita una volta. L’autogoverno concede ai cittadini la possibilità di riprovarci. Tutto è nelle nostre mani. ◆ as
George Packer è un giornalista statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La fine del secolo americano (Mondadori 2020).
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1378 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati