Alcuni sono scampati alle fucilate fuggendo nella foresta; altri si sono finti morti e sono riusciti a strisciare via tra i cadaveri dei loro parenti e amici. Ma tra chi era a Srebrenica quel giorno del 1995 pochi oggi possono raccontare la loro storia. Trent’anni dopo la più grave esecuzione di massa in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale sono ancora visibili gli effetti devastanti del massacro e della sua negazione sulla popolazione, mentre è appena stato revocato il mandato di arresto internazionale contro il presidente dell’entità serba della Bosnia Erzegovina Milorad Dodik, il principale sostenitore del negazionismo. I bosniaci non hanno certo dimenticato il premio Nobel per la letteratura assegnato nel 2019 allo scrittore austriaco Peter Handke, grande firma dei serbi genocidari, né il silenzio del segretario generale dell’Onu Kofi Annan, né l’ambiguità francese riguardo al rifiuto del generale Bernard Janvier di aiutare i caschi blu olandesi travolti dalle truppe del generale dei serbo-bosniaci Ratko Mladić. E a chi vorrebbe dimenticare, una telefonata potrebbe annunciare la scoperta di resti umani di un parente, poiché centinaia di vittime sono ancora considerate disperse.

In vista del trentesimo anniversario del genocidio, quali lezioni possiamo trarre? Prima di tutto che gli stati hanno imparato a evitare la pesante responsabilità di dichiarare un genocidio, ma anche che l’Onu non può sostituirsi a loro per evitarne altri in futuro. Di fronte a quello che oggi è Srebrenica, spenta ed esausta, ci si domanda se gli autori del genocidio abbiano vinto. La giustizia bosniaca oggi sembra sola nella ricerca della verità, ma forse non è troppo tardi per ammettere le responsabilità taciute, in nome delle migliaia di uomini, adolescenti e bambini massacrati in una giornata di luglio del 1995 a Srebrenica. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1622 di Internazionale, a pagina 19. Compra questo numero | Abbonati