Quante ne ha fatte negli anni quest’ago,

Il suo corpo affusolato ha svolto il lavoro d’un aratro.

Con la sua punta affilata ho cucito la bocca alla fame

Ho seppellito la povertà.

È la mia arma pesante,

Più aguzza di un pugnale

Più laboriosa e utile di tante grasse parole.

Ogni volta che scintilla nella mia mano

Il sangue sotto l’unghia si fa dolce.

Quando orna le frange di questa stoffa

Dissoda insieme le piane e le zolle dell’esistenza.

Tenendolo per il fusto passo il mascara sulle ciglia

Con esso puntello le colonne della vita.

Se lo perdo di vista

Lo cerco gridando soccorso

Perché fin quando i miei occhi avranno luce

Non rinuncerò al suo aiuto

Mai lo cambierei, nemmeno per acciaio damasco.

Diya Ciwan Nata nel 1953 nella parte turca del Kurdistan e morta il 26 febbraio 2025, è stata una delle poete più note del Kurdistan siriano. Era anche sarta, lavoro che ha svolto per oltre quarant’anni. Autrice di dieci libri, dal 2012 viveva nel Kurdistan iracheno ed era attiva in politica. Questo testo è tratto dalla raccolta Bênder (“Il raccolto”, Avesta 2008). Traduzione dal curdo di Francesco Marilungo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati