C’è una grande domanda che incombe sul secondo mandato di Jacinda Ardern come prima ministra della Nuova Zelanda: riuscirà a mantenere la promessa, fatta a dicembre del 2017, di guidare un “governo di trasformazione”?
Durante il primo mandato il suo governo ha fatto piccoli aggiustamenti più che realizzare un piano di profonde riforme. Ma il 17 ottobre il Partito laburista ha ottenuto il 49,1 per cento dei voti e 64 deputati su 120, abbastanza per avere una maggioranza autonoma.
Ci si può aspettare che il governo adotti provvedimenti incisivi contro la crisi climatica? Nel 2017 Ardern affermò che la battaglia contro il riscaldamento globale è “l’equivalente per la mia generazione del movimento contro il nucleare”. Si riferiva alle leggi contro il nucleare volute dal governo laburista di David Lange tra il 1984 e il 1990, che portarono la Nuova Zelanda ad abbandonare il trattato di sicurezza Anzus, stipulato nel 1951 con Australia e Stati Uniti.
L’altra grande questione riguarda i wellbeing budgets (i bilanci di benessere), il progetto del ministro delle finanze Grant Robertson. L’idea è di tenere conto delle questioni ambientali, sociali e del capitale umano nella valutazione dell’operato del governo e della condizione del paese. Se pienamente applicato, potrebbe essere un cambiamento rivoluzionario. Robertson ha detto di voler andare avanti, resta da vedere se il Partito laburista lo seguirà.
Gli sconfitti
Durante il suo primo mandato Ardern era stata condizionata dal partito populista New Zealand first, guidato da Winston Peters. E in questi mesi il partito ha fatto campagna elettorale sostenendo di essere stato un “freno” per i laburisti e per il Partito verde, e promettendo di fare altrettanto nei prossimi anni.
Ma il 17 ottobre Peters è uscito di scena: New Zealand first ha preso appena il 2,7 per cento dei voti, molto meno del cinque per cento che bisogna raggiungere per entrare in parlamento.
L’altra forza politica che sosteneva il primo governo di Ardern, i Verdi, ha raccolto il 7,6 per cento dei voti e ha portato in parlamento dieci rappresentanti. Dopo le elezioni Ardern non si è sbilanciata sulla possibilità di far entrare i Verdi nella coalizione di governo.
Il principale partito d’opposizione, il Partito nazionale, è uscito molto indebolito dal voto: ha conquistato 35 seggi e il 27 per cento dei voti, perdendo consensi a favore di Act, un partito liberale di destra che è passato da un solo seggio a dieci (8 per cento dei voti). Inoltre il Partito nazionale ha ceduto 15 seggi ai laburisti e uno ai verdi.
La prima sfida che il governo dovrà affrontare riguarda i problemi sociali ed economici causati dalla crisi sanitaria. Secondo le attuali proiezioni del ministero delle finanze, le misure adottate per sostenere l’economia dopo la perdita di turisti e studenti (dovuta alla chiusura delle frontiere) faranno crescere il debito pubblico da poco meno del 20 per cento a più del 55 per cento del pil.
Le sfide all’orizzonte
Commentando la vittoria, Ardern ha dichiarato di aver ricevuto dai cittadini un mandato per portare avanti la risposta alla crisi attuale e i programmi di rilancio economico. Le sue principali preoccupazioni riguardano la creazione di posti di lavoro (la disoccupazione potrebbe arrivare al 7 o al 9 per cento), la formazione delle persone che dovranno occupare quegli impieghi, l’esportazione delle materie prime e la riapertura delle frontiere per consentire un turismo di più alto valore. Tutto questo in un contesto che a livello globale è piuttosto agitato e in un momento in cui la Nuova Zelanda dipende troppo dalla Cina per esportazioni e turismo.
Il paese ha alcuni punti di forza: i contatti personali di Ardern, che risalgono a quando era presidente dell’Unione internazionale della gioventù socialista, nel 2008; il consenso guadagnato dalla prima ministra per la sua risposta al massacro nella moschea di Christchurch, nel marzo del 2019; e la capacità di leadership che ha di mostrato nella gestione dell’epidemia (anche se alcuni funzionari di alto livello sostengono che non abbia sfruttato i suoi contatti personali come avrebbe potuto).
◆ “Il nuovo parlamento neozelandese sarà il più inclusivo di sempre”, scrive il quotidiano online Stuff. Il Partito laburista, che ha conquistato 64 seggi su 120, si è sforzato di far entrare in parlamento persone provenienti da contesti diversi: ha candidato rappresentanti della comunità lgbt, varie persone non bianche e molte donne. Ibrahim Omer sarà il primo deputato africano e Terisa Ngobi la prima persona delle isole del Pacifico a essere eletta nel distretto di Ōtaki, roccaforte della destra. Vanushi Walters è il primo deputato originario dello Sri Lanka. Anche i Verdi, che hanno ottenuto dieci seggi, hanno contribuito alla varietà in parlamento. Tra i deputati, la studiosa e attivista lgbt Elizabeth Kerekere, una dei sedici deputati maori e dei parlamentari lgbt (il 10 per cento del totale), e Ricardo Menéndez March, immigrato gay non bianco e primo deputato latinoamericano della Nuova Zelanda.
◆ Un’altra caratteristica di queste elezioni è stata la scomparsa dei movimenti populisti. “Advance Nz, un nuovo partito che si era fatto notare perché ha basato la sua campagna elettorale sull’opposizione alle misure del governo contro la pandemia, ai vaccini, all’Onu e al 5g, ha avuto solo lo 0,9 per cento dei voti”, scrive il Guardian. La Nuova Zelanda non è immune alle teorie cospirazioniste, dice David Farrar, fondatore dell’agenzia di sondaggi Curia market research, ma il gradimento per la gestione del paese, rimasto invariato dal 2008 a oggi, ha impedito finora ai movimenti che sfruttano lo scontento degli elettori di attecchire.
Tra le altre sfide a lungo termine ci sono i cambiamenti climatici, la crisi degli alloggi, i servizi sociali e in generale il benessere della collettività. Nel suo primo mandato Ardern era riuscita a trovare un accordo con il Partito nazionale, attento agli interessi delle aziende e degli agricoltori, per azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050, e per creare una commissione sul clima che elaborasse dei bilanci quinquennali di riduzione delle emissioni e un nuovo sistema di supervisione.
Le modifiche al sistema di scambio delle quote di emissioni della Nuova Zelanda hanno spinto il prezzo per tonnellata di carbonio, che era sui due dollari neozelandesi (circa un euro) tra il 2008 e il 2017 ai 35 dollari (19 euro) degli ultimi tempi. Entro il 2023 bisognerà decidere se inserire in questo sistema anche le emissioni agricole, per lo più di metano. È probabile che succeda, ma gli aspetti tecnici devono ancora essere definiti con i rappresentanti degli agricoltori.
A parte questo, le azioni incisive contro le emissioni di anidride carbonica sono state poche. Per fare un esempio, tra i veicoli leggeri a disposizione del governo, solo un numero ridotto è elettrico. Le norme sull’edilizia non impongono ancora a uffici e fabbriche di usare sistemi a basse emissioni e con una migliore efficienza energetica. Qual è stato l’intoppo? Il leader dei Verdi e il ministro per i cambiamenti climatici lo spiegano con tre parole: New Zealand first.
Il governo aveva aumentato le spese e gli investimenti per i servizi sanitari e per l’istruzione, per l’edilizia popolare e per la previdenza sociale, e aveva rafforzato i progetti per rinnovare le infrastrutture, soprattuto strade e ferrovie. Ma la mancanza di alloggi, unita a tassi d’interessi bassissimi (la Banca centrale della Nuova Zelanda prevede un tasso d’interesse dello 0,25 per cento e ha annunciato l’acquisto di titoli per cento miliardi di dollari neozelandesi), ha continuato a far salire i prezzi degli immobili: tra il settembre del 2019 e lo stesso mese del 2020 sono aumentati dell’11,1 per cento.
◆ La reazione precoce e decisa delle autorità sanitarie, un sistema di sorveglianza efficace e test mirati, il tutto con estrema rapidità: è stata questa la chiave del successo della risposta della Nuova Zelanda alla pandemia, si legge in uno studio pubblicato su The Lancet. Una strategia mirata a ridurre a zero l’incidenza del covid-19 nel paese, che conta 4,9 milioni di abitanti, limitando i danni economici e sociali con un lockdown rigido ma breve.
Il 2 febbraio, dopo che nelle Filippine era stato registrato il primo caso di covid-19 fuori dalla Cina, Wellington ha vietato l’ingresso a chiunque fosse transitato in Cina. Il 28 febbraio è stato registrato il primo caso positivo in Nuova Zelanda. Il 19 marzo il paese ha chiuso le frontiere imponendo la quarantena ai residenti che rientravano dall’estero. Due giorni dopo è stato presentato ai cittadini un sistema di allerta in quattro livelli. Nel giro di cinque giorni, dal livello due le autorità sono passate al quattro, imponendo il lockdown generale. A quel punto i contagi erano 647. Dal 27 aprile le misure sono state gradualmente allentate e l’8 giugno sono state eliminate. Nei mesi seguenti il virus è ricomparso e alcune limitazioni contro il contagio sono state ripristinate ad Auckland. Dal 23 settembre nel paese non sono più in vigore misure di sicurezza.
Al 21 ottobre i casi totali registrati erano 1.912,
i morti 25.
Nonostante questo, Robertson non ha smesso di sostenere l’indipendenza della Banca centrale. Lui e Ardern hanno accompagnato i loro piani d’aumento della spesa per sanità, istruzione e previdenza sociale con la volontà di tenere sotto controllo il debito pubblico.
Esigenze fiscali
Questo conservatorismo fiscale si spiega con il fatto che la prima ministra non voleva mettersi contro il mondo delle aziende e gli elettori più scettici. In realtà, anche se il debito pubblico dovesse superare il 50 per cento del pil, resterà comunque inferiore a quello registrato dalla maggior parte dei paesi ricchi prima dell’arrivo della pandemia. Ardern e Robertson sono stati condizionati anche nelle decisioni che riguardavano le imposte sui redditi.
Durante la campagna elettorale il Partito laburista ha promesso di portare l’aliquota fiscale più alta dal 33 al 39 per cento, ma solo per i redditi superiori ai 180mila dollari neozelandesi (circa centomila euro). Nel 2019 Ardern aveva rinunciato alla proposta d’introdurre una tassa sui redditi da capitale, sostenendo di non avere un mandato popolare per un provvedimento simile. Ma escludere una misura come questa potrebbe impedire alla leader dei laburisti di costruirsi un mandato più solido. Ardern si è inoltre opposta categoricamente alla proposta, fatta dai verdi in campagna elettorale, di una tassa sulla ricchezza.
Per quanto riguarda le tasse e la previdenza sociale, nel primo mandato le ambizioni della premier erano state molto inferiori rispetto a quelle dei gruppi di lavoro creati da suo governo. Tuttavia, durante la campagna elettorale ha promesso di fare il possibile per aumentare gli investimenti sociali. Ad agosto Ardern, Robertson e Shaw mi hanno detto di voler ancora portare avanti il progetto wellbeing, anche se non se ne sente praticamente più parlare.
A luglio il governo ha inserito tre misure supplementari – su ambiente, politiche sociali e capitale umano – nella legge di bilancio, imponendo al ministero delle finanze di pronunciarsi. Questo significa che l’esecutivo considererà un’idea ampia di benessere che non tenga conto solo del pil. Ma servirà tempo – in alcuni casi anni – per raccogliere ed elaborare dati rigorosi a sostegno di questi provvedimenti.
Se Ardern e Robertson riusciranno a realizzare i loro piani, introdurranno nella vita politica del paese un modo nuovo di affrontare i temi economici. Sarebbe un fatto rivoluzionario.
Di sicuro Ardern ha un enorme capitale politico da investire in progetti che rendano la società più giusta. Sarà questo il principale banco di prova del suo secondo mandato. ◆ ff
Colin James _ è un commentatore politico neozelandese e docente alla Victoria university of Wellington._
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Questo articolo è uscito sul numero 1381 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati